IL MILITARE PUÒ CANDIDARSI ALLE ELEZIONI?

Iniziamo subito col dire che la risposta è si, il militare può candidarsi alle elezioni! L’articolo 1484 del D. Lgsl. n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM) stabilisce al riguardo che “i militari candidati a elezioni per il Parlamento europeo, a elezioni politiche o amministrative possono svolgere liberamente attività politica e di propaganda al di fuori dell’ambiente militare e in abito civile. Essi sono posti in apposita licenza straordinaria per la durata della campagna elettorale” … preciso che non appare esserci alcuna discrezionalità in questo caso: “sono posti”, infatti, non significa che possano essere posti o che possano chiedere di essere posti … a mio personale parere “sono posti” significa che devono essere posti in licenza, punto e basta! Anche in caso di formale candidatura non si può fare propaganda politica in uniforme (per approfondire clicca qui), in luoghi militari ovvero qualificandosi come militari, fermo restando la necessità di rendere edotto il proprio Comando della propria candidatura alle elezioni, in ossequio al generale dovere di comunicazione (per approfondire clicca qui).

Tanto premesso cosa accade se poi si viene eletti? Il Codice dell’ordinamento militare stabilisce che si venga posti in aspettativa non retribuita:

  • obbligatoria allorquando si è eletti al Parlamento nazionale, al Parlamento europeo e nei Consigli regionali o chiamati a svolgere le funzioni di Ministro o Sottosegretario di Stato (articoli 903 e 1488 COM);
  • a domanda in tutti gli altri casi ovverosia in caso di elezione a cariche amministrative quali sono, ad esempio, quelle di Sindaco, Consigliere provinciale, Consigliere comunale eccetera (articoli 904 e 1488 COM).

Per quanto attiene specificamente ai militari eletti a cariche elettive amministrative, resta da chiedersi: cosa accade se questi non richiedono poi di essere messi in aspettativa non retribuita? Beh, ai sensi del D. Lgsl. 267 del 2000 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” sappiate che questi hanno diritto:

  • ad assentarsi dal servizio per svolgere le funzioni per cui si è stati eletti [1];
  • a presentare domanda di trasferimento (a carattere temporaneo, cioè per la durata del mandato), qualora la distanza tra sede di servizio e luogo di svolgimento dell’incarico renda particolarmente gravoso l’esercizio delle funzioni connesse al mandato elettorale.

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[1]: Articolo 79 del D. Lgsl. 267 del 2000 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” – Permessi e licenze:“1. I lavoratori dipendenti, pubblici e privati, componenti dei consigli comunali, provinciali, metropolitani, delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché’ dei consigli circoscrizionali dei comuni con popolazione superiore a 500.000 abitanti, hanno diritto di assentarsi dal servizio per il tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta dei rispettivi consigli e per il raggiungimento del luogo di suo svolgimento. Nel caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, i predetti lavoratori hanno diritto di non riprendere il lavoro prima delle ore 8 del giorno successivo; nel caso in cui i lavori dei consigli si protraggano oltre la mezzanotte, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l’intera giornata successiva. 2. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 15 MARZO 2010, N. 66. 3. I lavoratori dipendenti facenti parte delle giunte comunali, provinciali, metropolitane, delle comunità montane, nonché’ degli organi esecutivi dei consigli circoscrizionali, dei municipi, delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, ovvero facenti parte delle commissioni consiliari o circoscrizionali formalmente istituite nonché’ delle commissioni comunali previste per legge, ovvero membri delle conferenze del capogruppo e degli organismi di pari opportunità, previsti dagli statuti e dai regolamenti consiliari, hanno diritto di assentarsi dal servizio per partecipare alle riunioni degli organi di cui fanno parte per la loro effettiva durata. Il diritto di assentarsi di cui al presente comma comprende il tempo per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro. PERIODO ABROGATO DAL D.LGS. 15 MARZO 2010, N. 66. 4. I componenti degli organi esecutivi dei comuni, delle province, delle città metropolitane, delle unioni di comuni, delle comunità montane e dei consorzi fra enti locali, e i presidenti dei consigli comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché’ i presidenti dei gruppi consiliari delle province e dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, hanno diritto, oltre ai permessi di cui ai precedenti commi, di assentarsi dai rispettivi posti di lavoro per un massimo di 24 ore lavorative al mese, elevate a 48 ore per i sindaci, presidenti delle province, sindaci metropolitani, presidenti delle comunità montane, presidenti dei consigli provinciali e dei comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti. 5. I lavoratori dipendenti di cui al presente articolo hanno diritto ad ulteriori permessi non retribuiti sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili qualora risultino necessari per l’espletamento del mandato. 6. L’attività ed i tempi di espletamento del mandato per i quali i lavoratori chiedono ed ottengono permessi, retribuiti e non retribuiti, devono essere prontamente e puntualmente documentati mediante attestazione dell’ente”.

IL DIRITTO AL VOTO DEI MILITARI IN SERVIZIO

L’esercizio del diritto al voto per i militari in servizio è una questione che non merita particolari approfondimenti … è stato scritto tutto ciò che serve! Ai sensi dell’articolo 1490 del D. Lgsl. n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare”, infatti: “1. il personale militare è ammesso a votare nel comune in cui si trova per causa di servizio. 2. I militari possono esercitare il voto in qualsiasi sezione elettorale, in soprannumero agli elettori iscritti nella relativa lista e con precedenza, previa esibizione del certificato elettorale. Sono iscritti in una lista aggiunta. 3. La loro iscrizione nelle relative liste e’ fatta a cura del presidente del seggio elettorale. 4. È fatto loro divieto di recarsi inquadrati o armati nelle sezioni elettorali”.

Tanto detto, credo proprio che abbiate sufficientemente chiari i punti essenziali della questione … a questo punto vi consiglio solo di chiedere alla vostra linea di Comando le modalità di dettaglio per poter esercitare correttamente ed ordinatamente il vostro diritto al voto, senza creare possibili disservizi …

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IL MILITARE PUÒ ISCRIVERSI A UN PARTITO POLITICO?

La domanda non è banale e merita un approfondimento, sopratutto alla luce dei numerosi dubbi interpretativi che ha sempre alimentato … Ebbene, l’articolo 98, comma 3, della Costituzione stabilisce che “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per magistrati, militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”. Il Parlamento non ha però mai legiferato in materia e, conseguentemente, allo stato attuale nessuna legge vieta l’iscrizione del militare ad un partito politico … e la legge è l’unico strumento individuato dalla Costituzione per regolare tale delicatissima materia (c.d. riserva di legge [1]). Il diritto di iscriversi ad un partito politico è quindi un diritto liberamente esercitabile da parte del singolo [2] militare e, in linea di principio, pienamente compatibile con i valori e i principi dell’ordinamento giuridico militare. Ciò che invece, nella pratica, di solito “stride” con il possesso dello status militare sono, come sempre, tutte quelle modalità di esercizio di libertà politiche che contrastano con i valori e i principi dell’ordinamento giuridico militare. Queste vengono ben riepilogate dal combinato disposto degli articoli 1483, comma 2, e 1350, comma 2, del codice dell’ordinamento militare ovvero “[…] partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati a elezioni politiche e amministrative” (articolo 1483 del Codice dell’ordinamento militare – cosiddetto COM) da parte di “ […] militari che si trovino in una delle seguenti condizioni: a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l’uniforme; d) si qualificano, in relazione ai compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali […]” (articolo 1350 COM).

In definitiva, come peraltro recentemente ribadito dal Consiglio di Stato, “il singolo militare può sì iscriversi ad un partito e, anche in tale qualità, esercitare il proprio diritto di elettorato passivo, ma non può mai assumere, nell’ambito di una formazione partitica, alcuna carica statutaria neppure di carattere onorario, a tutela indiretta ma necessaria del principio di neutralità “politica” delle Forze Armate: tale principio, infatti, sarebbe inevitabilmente leso ove un militare, lungi dal limitarsi ad aderire, mediante la propria iscrizione, alle coordinate valoriali di una formazione politica o dal rappresentare in prima persona i cittadini in assemblee elettive, contribuisse personalmente, direttamente e, per così dire, istituzionalmente, in forza di una formale qualifica statutaria, a plasmare ab interno la linea politica di formazioni di massa ed intrinsecamente di parte quali sono gli odierni partiti politici” (Consiglio di Stato, IV Sezione, sentenza 5845/2017).

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[1]: le parole dell’articolo 98 della Costituzione “… si possono stabilire con legge …” stanno a significare proprio questo:  le eventuali limitazioni al diritto di iscriversi ad un partito politico devono essere adottate con legge, che rimane una prerogativa del Parlamento.

[2]: il riferimento al singolo militare non è casuale: si sono infatti verificati casi in cui sono stati adottati provvedimenti disciplinari nei confronti di militari che si sono iscritti a partiti politici sulla base del fatto che “le Forze armate devono in ogni circostanza mantenersi al di fuori dalle competizioni politiche” (articolo 1483 del codice dell’ordinamento militare). La ricostruzione fornita dall’Amministrazione militare a supporto dell’asserita esistenza di un divieto per il militare di iscrizione ai partiti politici si incentrava su un’interpretazione che ravvisava del citato articolo 1483 COM “un generalizzato divieto anche per i singoli appartenenti alle Forze Armate di partecipare alle “competizioni politiche” e, dunque, di iscriversi a partiti”(Consiglio di Stato, IV Sezione, sentenza 5845/2017). Tale approccio è stato però sconfessato dal Consiglio di Stato “proprio in quanto la disposizione [l’art. 1483 COM] non menziona in alcun modo il singolo militare né, tanto meno, ne perimetra in senso riduttivo la libertà, costituzionalmente presidiata, di associazione a fini politici”. Quindi “la mera iscrizione di un appartenente alle Forze Armate ad un partito politico costituisce, allo stato attuale della legislazione, un comportamento ab imis lecito che in nessun caso può essere stigmatizzato dall’Amministrazione militare” (Consiglio di Stato, IV Sezione, sentenza 5845/2017).

I DIRITTI (E LE LIBERTÀ) FONDAMENTALI DEL MILITARE (3^ PARTE): IL DIRITTO DI ASSOCIAZIONE E LA COSTITUZIONE DI ASSOCIAZIONI A CARATTERE SINDACALE.

1. La Costituzione di associazioni o circoli fra militari è subordinata al preventivo assenso del Ministro della difesa. 2. I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali. 3. I militari non possono aderire ad associazioni considerate segrete a norma di legge e a quelle incompatibili con i doveri derivanti dal giuramento prestato. 4. I militari non possono esercitare il diritto di sciopero” (art. 1475 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” – cosiddetto COM) . Questa era la norma sino all’11 aprile 2018 ovvero sino a quando la Corte costituzionale, con la sentenza n. 120 del 2018, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 1475 del COM nella parte in cui vietava ai militari di costituire associazioni a carattere sindacale … affronteremo la questione tra breve, iniziamo col fare prima un poco di ordine.

Situazione PRIMA della sentenza della Corte costituzionale 120/2018.

Tradizionalmente, quantomeno sino alla citata sentenza della Corte costituzionale 120/2018, il diritto di associazione (di cui il diritto di associazione sindacale è un sottotipo) riconosciuto dall’articolo 18 della Costituzione non era di per sé vietato al militare; l’articolo 1475 del COM imponeva infatti all’Amministrazione militare solo il compito di “controllare” come tale diritto venisse materialmente esercitato, verificando cioè la compatibilità con i valori e i principi dell’ordinamento giuridico militare [1]. Perché allora era stata vietata al militare la costituzione/adesione ad associazioni professionali a carattere sindacale [2] nonché l’esercizio del diritto di sciopero [3]? La ragione di tali divieti era semplice nell’ottica del legislatore dell’epoca che, infatti, la giustificava:

  • in primo luogo, nell’esistenza degli organismi di rappresentanza militare (COBAR, COIR e COCER), unici organi individuati dalla legge al perseguimento di finalità di autotutela della categoria militare;
  • secondariamente, nella preoccupazione che la costituzione/adesione a siffatte associazioni sindacali, nonché l’esercizio del diritto di sciopero da parte del militare potesse ledere la disciplina e la coesione interna (per alcuni addirittura l’apoliticità [4]) dell’apparato militare pregiudicandone, quindi, l’efficienza generale;
  • in ultima analisi e per quanto attiene al solo diritto di sciopero, ritenendo che la riserva di legge [5] presente all’articolo 40 della Costituzione fosse stata già utilizzata dal legislatore nel senso di vietarlo totalmente al militare (ebbene questa è una ipotesi eccezionale di divieto, cioè di proibizione totale dell’esercizio di un diritto costituzionale cui abbiamo fatto cenno prima).

La Corte costituzionale evidenziò al riguardo che il riconoscimento del diritto dei militari di costituire/aderire ai sindacati avrebbe aperto “inevitabilmente la via a organizzazioni la cui attività potrebbe risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità dell’ordinamento militare”. In tale ottica ed in considerazione dell’assoluta specialità [6] che caratterizza la condizione militare, continua la Corte, l’ordinamento assicurava comunque “forme di salvaguardia dei diritti fondamentali spettanti ai singoli militari quali cittadini, anche per la tutela di interessi collettivi, ma non necessariamente attraverso il riconoscimento di organizzazioni sindacali” (Corte costituzionale, sentenza 449/1999).

Situazione DOPO la sentenza della Corte costituzionale 120/2018.

La situazione cambia drasticamente dopo la sentenza in questione: la Corte costituzionale, infatti, inizia volente o nolente a dover riconsiderare il divieto di costituire associazioni sindacali in quanto incompatibile con norme internazionali [8] sorte nell’ambito del Consiglio d’Europa: la Carta sociale europea e, soprattutto, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo [9]. Ritengo utile evidenziare che né il Consiglio d’Europa né, tantomeno, le citate normative internazionali hanno nulla a che vedere con l’Unione Europea, infatti:

  • il Consiglio d’Europa (CdE) è una organizzazione internazionale fondata a nel 1949 con il trattato di Londra al lo scopo di promuovere i diritti umani, sociali e la democrazia in Europa;
  • la Carta sociale europea (CSE) è un trattato internazionale firmato a Torino nel 1961 (poi rivisto a Strasburgo nel 1996);
  • la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) è una convenzione internazionale firmata a Roma nel 1950 che prevede anche un apposito tribunale (la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo) a cui ogni individuo può far ricorso se ritiene gli siano stati lesi i diritti garantiti dalla convenzione stessa.

In tale ambito, ad esempio, l’articolo n. 11 della CEDU non lascia molti dubbi prevedendo che:“1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire a essi per la difesa dei propri interessi. 2. L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale e alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non osta a che restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato”. L’interpretazione di tale articolo è immediata quanto intuitiva: non si può vietare del tutto – come avveniva in Italia – la possibilità di costituire o aderire ad associazioni sindacali perché altrimenti si va contro la CEDU (e la CSE [10]): tale diritto può essere cioè limitato ma non vietato del tutto! Peraltro, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva recentemente condannato la Francia proprio per questo motivo (Matelly contro Francia – 10609/10 e AdefDroMil contro Francia – 32191/09) e l’Italia rischiava quindi seriamente di essere a sua volta condannata. La Corte costituzionale, investita della questione, considerati soprattutto gli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo nelle due richiamate sentenze (e tutta una serie di questioni che non approfondiremo per esigenze di chiarezza e sinteticità), dichiara quindi con la sentenza n. 120 del 2018 “l’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), in quanto prevede che «I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali» invece di prevedere che «I militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sindacali»”.

Cosa succede ora? Continua ad applicarsi l’articolo 1475 del COM nelle parti non dichiarate incostituzionali che prevedono, tra l’altro, che:

  • la costituzione di associazioni o circoli fra militari [11] è – e rimane quindi – subordinata al preventivo assenso del Ministro della difesa” (comma 1);
  • i militari continuano a non poter “aderire ad altre associazioni sindacali”, cioè quelle comuni che tutti conosciamo e che sono aperte anche al personale civile;
  • permane integro il divieto di sciopero (comma 4), giustificato dall’esigenza di non “compromettere funzioni o servizi da considerare essenziali per il loro carattere di preminente interesse generale, ai sensi della Costituzione” (Corte costituzionale, sentenza 31/1969 [12]).

Per quanto attiene ulteriori eventuali limiti all’esercizio del diritto di associazione sindacale [13], continua la Corte costituzionale, è necessario un diretto intervento del Parlamento (ci vuole cioè una legge che regoli la materia) fermo restando che, per il tempo necessario per arrivare alla formale approvazione di una legge sui sindacati militari, alle associazioni sindacali riconosciute dal Ministro della difesa si applicherà di fatto la disciplina prevista per i diversi organismi della rappresentanza militare [14].

AGGIORNAMENTO: il Parlamento ha approvato il 28 aprile 2022 la legge n. 46 “Norme sull’esercizio della libertà sindacale del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare, nonché delega al Governo per il coordinamento normativo” che è entrata in vigore il successivo 27 maggio (per approfondire, leggi qui!).

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[1]: nella pratica non sono infrequenti intenti elusivi da parte di militari che costituiscono “associazioni e circoli” includendovi anche membri civili e rendendo quindi la relativa costituzione, stante il tenore letterale della legge, libera e non soggetta ad alcun “assenso del Ministro della difesa”.

[2]: peculiare, al riguardo, è la disciplina particolare riservata dalla legge ai militari di leva e a quelli richiamati in servizio temporaneo: l’articolo 2042 del codice dell’ordinamento militare, titolato “Limiti allo svolgimento di attività sindacale”, prevede infatti che:“1. I militari in servizio di leva o quelli richiamati in temporaneo servizio, possono iscriversi o permanere associati ad organizzazioni sindacali di categoria, ma è fatto loro divieto di svolgere attività sindacale quando si trovano in una delle seguenti condizioni: a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l’uniforme; d) si qualificano, in relazione ai compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”.

[3]: previsti addirittura agli articoli 39 e 40 della Costituzione.

[4]: Consiglio di Stato – Adunanza Plenaria n. 5 del 4 febbraio 1966. In tale remota pronuncia, il Consiglio di Stato, sebbene chiamato a pronunciarsi sul divieto di iscriversi ad organizzazioni sindacali da parte di un appartenente alla Polizia di Stato (all’epoca dei fatti, ancora militare), non ha esitato di rilevare addirittura che: “l’iscrizione ad un sindacato può implicare, attualmente, una scelta politica, così come l’iscrizione ad un partito”. Come ovvio, tale approccio è stato duramente criticato da dottrina e successiva giurisprudenza, ma rimane pur sempre una chiara testimonianza dell’attenzione riservata dalla giurisprudenza alla questione.

[5]: articolo 40 della Costituzione: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”.

[6]: concetto peraltro richiamato dalla Corte costituzionale anche nelle sentenze 125/1986 e 278/1987.

[8]: vincolanti ai sensi dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione.

[9]: il diritto di associazione, di cui il diritto di associazione sindacale è emanazione, viene peraltro contemplato anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 12), dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948 (art. 20) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, anch’esso elaborato in ambito O.N.U. e sottoscritto in New York nel 1966 (art. 22).

[10]: l’articolo 5 della Carta sociale europea (CSE) prevede infatti che: “Tutti i lavoratori e datori di lavoro hanno diritto di associarsi liberamente in seno ad organizzazioni nazionali o internazionali per la tutela dei loro interessi economici e sociali”.

[11]: solo tra militari in attività di servizio. L’articolo 893 del codice dell’ordinamento militare chiarisce al riguardo che “il militare in servizio permanente è fornito di rapporto di impiego che consiste nell’esercizio della professione di militare”.

[12]: Pres. SANDULLI – Rel. MORTATI.

[13]: molto interessante è, al riguardo, il parere n. 01795/2018 fornito dal Consiglio di Stato al Ministero della Difesa.

[14]: Corte costituzionale, sentenza n. 120 dell’11 aprile 2018 (Pres. LATTANZI – Rel. CORAGGIO):“… è indispensabile una specifica disciplina legislativa. Tuttavia, per non rinviare il riconoscimento del diritto di associazione, nonché l’adeguamento agli obblighi convenzionali, questa Corte ritiene che, in attesa dell’intervento del legislatore, il vuoto normativo possa essere colmato con la disciplina dettata per i diversi organismi della rappresentanza militare e in particolare con quelle disposizioni (art. 1478, comma 7, del d.lgs. n. 66 del 2010) che escludono dalla loro competenza «le materie concernenti l’ordinamento, l’addestramento, le operazioni, il settore logistico-operativo, il rapporto gerarchico-funzionale e l’impiego del personale»”.