Come si è già avuto modo di evidenziare, la responsabilità amministrativo-contabile (per approfondire leggi qui!) trae la propria origine dalla condotta del dipendente pubblico che causi un danno e non, come troppo spesso erroneamente si crede, da atti/provvedimenti (illegittimi) che questi abbia semmai adottato [1] … è il danno che interessa in questa sede e non la legittimità o meno dell’atto! Salvo alcune eccezioni, tale condotta (dannosa) non è stata tipizzata dal legislatore, non è stata cioè standardizzata. La responsabilità amministrativo-contabile (per approfondire leggi qui!) ha quindi come primo presupposto la condotta di un pubblico dipendente (o assimilato) che provochi un danno allo Stato, a una Pubblica Amministrazione o a un Ente Pubblico. In tale contesto, la competenza della Corte dei conti non è limitata a sindacare le condotte tenute contro legge, ma anche a quelle cosiddette “discrezionali” che potrebbero essere anche solo formalmente rispettose della legge, in quanto basate (nella sostanza) su scelte economicamente non convenienti se non, addirittura, illogiche o irrazionali.
La condotta dannosa può essere:
- attiva, nel caso in cui il dipendente abbia materialmente tenuto un comportamento che causato il danno, ovvero omissiva [2] nel caso in cui lo stesso non abbia invece fatto ciò che era tenuto a fare (ad esempio nel caso di omessa custodia di beni o valori),
- istantanea, se si concretizza in un’unica azione o omissione (ad esempio un incidente automobilistico), oppure continuativa se si realizza in un lasso di tempo apprezzabilmente più lungo.
Tale distinzione non è banale poiché i due tipi di condotta prevedono un diverso termine di prescrizione [3] (che, per le prime, decorre dal momento dell’azione o dell’omissione e, per le seconde, dalla data di cessazione delle stesse – per approfondire leggi qui!).
Può accadere che il pubblico dipendente abbia tenuto la condotta dannosa non per propria libera scelta. Tralasciando i casi di legittima difesa, stato di necessità o incapacità di intendere e di volere (che non tratteremo per esigenze di chiarezza e sinteticità), possiamo dire che in tal caso il dipendente può scagionarsi quando ha tenuto la condotta dannosa:
- osservando una circolare o una direttiva interna che imponeva o, quanto meno, “suggeriva” di tenere quel determinato comportamento. Si faccia bene attenzione che nessuna rilevanza pratica viene comunemente data alla cosiddetta “prassi d’ufficio”: il “si è sempre fatto così” non rappresenta in questo caso una scusante;
- per ordine del proprio superiore gerarchico. Rileva però in questo caso il cosiddetto “dovere di rimostranza”, cioè il dovere di far comunque presente al superiore l’illegittimità/non correttezza dell’ordine ricevuto. Se questo poi viene ribadito (preferibilmente per iscritto), non potrà che essere eseguito, ma a questo punto sarà il superiore che lo ha impartito che, ovviamente, risponderà del danno erariale.
Abbiamo prima utilizzato il termine “discrezionale”. Ritengo utile approfondirlo un minimo: l’articolo 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994 esplicita infatti il concetto dell’“insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”, ma ciò che cosa significa esattamente? Beh, tale concetto è una conseguenza del principio secondo cui il giudice contabile (al pari di ogni altro giudice) non può sostituirsi alla Pubblica Amministrazione valutando quali siano le scelte organizzative o gestionali migliori da dover adottare: detto in altre parole il giudice deve giudicare e l’amministratore amministrare. Non c’è spazio per altro, ognuno deve fare il proprio mestiere senza eccezioni o “sconfinamenti” di sorta. Ciononostante, in alcuni casi la competenza a giudicare della Corte dei conti può superare tale limite, potendosi infatti estendere a tutte quelle scelte discrezionali che risultino palesemente arbitrarie, irrazionali, illogiche, antieconomiche e quindi inidonee a soddisfare il pubblico interesse e/o i fini istituzionali dell’Ente Pubblico ovvero adottate contro legge.
TCGC
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[1]: la semplice adozione di un atto illegittimo non implica, di per sé, un danno erariale ma costituisce sicuramente un valido “indizio” che questo possa essere stato causato: l’atto illegittimo è quindi solo un fatto, un accadimento, da cui il giudice contabile deve partire per verificare se è provocato o meno un danno erariale.
[2]: l’omissione, come nel diritto penale, consiste nel fatto di non attivarsi per fare quello che si ha il dovere (giuridico) di fare (con parole diverse, il secondo comma dell’articolo 40 del codice penale stabilisce proprio questo).
[3]: i due tipi di condotta prevedono un diverso termine di prescrizione che, per le prime, decorre dal momento dell’azione o dell’omissione e, per la seconde, dalla data di cessazione delle stesse o da quella della loro scoperta.