- La limitazione di taluni diritti costituzionali: presupposti.
L’articolo 52, comma 3, della Costituzione stabilisce che “l’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”. Da ciò emerge:
- da un lato, che l’ordinamento giuridico militare, pur avendo principi e valori propri, è parte integrante dell’ordinamento giuridico generale della Repubblica da cui deriva e che, proprio perché generale, finisce inevitabilmente per influenzare quello militare;
- dall’altro, seppur indirettamente, che taluni diritti riconosciuti dalla legge e dalla Costituzione possano essere limitati o “compressi” quando si riferiscano al militare, in considerazione della primaria esigenza di poter utilmente assicurare la difesa e la sicurezza dello Stato e della collettività. Naturalmente, tale limitazione dei diritti sarà legittima solo quando assolutamente indispensabile al corretto svolgimento dei compiti assegnati allo strumento militare, da valutarsi nella pratica, cioè caso per caso, tenendo sempre ben presente il fine ultimo perseguito dalle Forze Armate: la difesa della Patria. Inoltre, l’utilizzo del termine “informarsi” (sto facendo cioè riferimento al “si informa” presente nel citato articolo 53 della Costituzione, citato proprio all’inizio del post) evidenzia che questa è solo una tendenza di fondo del sistema. Così facendo, la Costituzione da copertura all’articolo 1465 del codice dell’ordinamento militare (COM) che, nel sottolineare come “ai militari spettano i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai cittadini”, precisa comunque che “per garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate sono imposte ai militari limitazioni nell’esercizio di alcuni di tali diritti, nonché l’osservanza di particolari doveri nell’ambito dei principi costituzionali” [1].
La Costituzione, quindi, ammette e legittima la possibile esistenza di limiti all’esercizio di alcuni diritti da parte del militare, astenendosi però dal definire nel dettaglio gli esatti confini della questione; lascia cioè ad altri (cioè in primo luogo al legislatore, cioè al Parlamento) il compito e la responsabilità – sia giuridica sia, soprattutto, politica – di entrare concretamente nel merito del problema. Ciò che ne è derivato, purtroppo, è una situazione che ha ingenerato molta (forse troppa) confusione e che, quindi, non può che trovare soluzione nel giusto “peso” e nel corretto significato da dare alle norme, cioè nel corretto “bilanciamento” e nella corretta interpretazione delle singole disposizioni (“bilanciamento” e interpretazione fatta dalla dottrina, dalla giurisprudenza e anche – soprattutto direi – dall’Amministrazione militare).
A seguito della sospensione del servizio militare di leva, alcuni hanno cercato di ricostruire il rapporto tra l’Amministrazione della difesa e singolo militare in termini simili a quelli su cui si basa un ordinario rapporto di lavoro “civile”, ma tali ricostruzioni, molto contrastate da chi non vuole considerare la vita in armi come una mera prestazione lavorativa “civile”, hanno però avuto il pregio di evidenziare che il militare professionista, diversamente da quanto accadeva con il militare di leva, acquista volontariamente lo status militare e, per tanto, ne fa consapevolmente propri i valori, accettandone di conseguenza anche i limiti (e i doveri) che questo comporta.
- Il punto di equilibrio tra possesso dello status militare e modalità di esercizio dei diritti.
L’articolo 1465 del codice dell’ordinamento militare rappresenta il punto di equilibrio tra i diritti riconosciuti dalla Costituzione e i valori propri dell’ordinamento giuridico militare. Rileggetelo pure (è riportato poco sopra nel punto 1.). Come appare evidente, l’approccio dato dal legislatore alla questione è quello di tenere il mondo militare ben distinto dal resto della società. Tale circostanza appare ancor più evidente se si considera che i diritti del militare che sono esplicitamente regolati dalla legge sono essenzialmente quelli che richiedono una qualsivoglia relazione/interazione con altri soggetti [2], consentendone di norma un esercizio limitato perché deve svolgersi su un piano prettamente singolo/individuale [3].
Resta da chiedersi in che misura il militare possa esercitare diritti non disciplinati o regolamentati dalla normativa speciale (militare). In altre parole, cosa succede per i diritti che non sono regolati dalla legge? L’approccio preferibile da seguire è senza dubbio quello che non preveda l’automatica soccombenza di ogni diritto rispetto ai valori militari: il militare, infatti, è e rimane un cittadino e, conseguentemente, ogni diritto riconosciuto al cittadino deve trovare riconoscimento anche per il cittadino-militare. Non dimentichiamo poi che l’articolo 1465 del codice dell’ordinamento militare (e la stessa Corte costituzionale come vedremo tra poco) parla di “limitazioni nell’esercizio di alcuni di tali diritti” e non di negazione (salvo in casi eccezionali nel vero senso della parola!) … beh, tra limitare un diritto e negarlo del tutto la differenza è più che evidente! Naturalmente, per fare in modo che l’esercizio di un diritto non esplicitamente regolamentato dalla legge risulti legittimo, il militare deve necessariamente effettuare – caso per caso – una valutazione di compatibilità delle modalità di esercizio del diritto (cioè il “come” esercitarlo) con l’ordinamento giuridico militare. In altre parole, bisogna cioè scongiurare il rischio che esercitando un diritto si violino i doveri nascenti dal possesso dello status militare [4]. Chiarificatrice è al riguardo l’approccio dato alla questione dalla Corte Costituzionale. Questa, infatti, investita della questione negli anni ’80 del secolo scorso, ha avuto modo di evidenziare che la normativa militare [5] “rispecchia l’esigenza, la quale promana dalla Costituzione, che la democraticità dell’ordinamento delle Forze Armate sia attuata nella massima misura compatibile col perseguimento da parte di queste dei propri fini istituzionali [6]”. In tal senso, la Corte afferma infatti che “spettano ai militari i diritti dei cittadini e prevedendo” ma, al contempo, che “possono essere imposte ai militari limitazioni nell’esercizio di tali diritti e l’osservanza di particolari doveri al (solo) fine di garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate”.
Alla luce delle considerazioni che precedono, è possibile dunque riassuntivamente affermare che ogni limitazione (badiamo bene, stiamo sempre parlando di limitazione e non di totale esclusione/negazione!) posta al militare nell’esercizio di un diritto, deve necessariamente trovare ragione nelle esigenze funzionali ed organizzative dello strumento militare, nei termini che si avrà modo di delineare – quantomeno per i diritti fondamentali – in appositi post dedicati:
- ai singoli diritti (libertà di circolazione e sede di servizio, libertà di riunione, libertà di culto, libertà di manifestazione del pensiero, libertà in ambito politico – clicca qui);
- al solo diritto di associazione, con particolare riguardo al diritto di costituire associazioni a carattere sindacale, in considerazione delle recenti modifiche introdotte dalla sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2018 (clicca qui).
TCGC
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[1]: espressione presa dall’articolo 3 della legge n. 382 del 1978 “Norme di principio sulla disciplina militare”, che è confluito poi nell’art.1465 codice dell’ordinamento militare.
[2]: come, ad esempio, per quanto attiene al diritto di aderire a partiti politici o ad organizzazioni sindacali, nonché la pubblica manifestazione del pensiero che, sebbene lecita a livello individuale, quando svolta a livello collettivo può addirittura integrare il reato di “domanda, esposto o reclamo collettivo, previo accordo” di cui all’articolo 180 del codice penale militare di pace (c.p.m.p.).
[3]: ricordiamoci bene che, ai sensi dell’articolo 1466 del codice dell’ordinamento militare, quando le modalità di fruizione dei diritti non superano i limiti apposti dalla normativa speciale militare è esclusa l’applicabilità di alcuna sanzione disciplinare: “L’esercizio di un diritto ai sensi del presente codice e del regolamento esclude l’applicabilità di sanzioni disciplinari”.
[4]: può aiutarci a capire bene tale “bilanciamento” il fatto che, generalmente, al contrario dei diritti, i doveri del militare sono sempre espressamente disciplinati dalla legge o dai regolamenti militari.
[5]: in particolare l’articolo 3 della legge n. 382 del 1978 “Norme di principio sulla disciplina militare”, confluito poi nell’art.1465 codice dell’ordinamento militare.
[6]: Corte costituzionale, sentenza n. 126 del 29 aprile 1985 (Pres. ELIA – Rel. CORASANITI).