SIAMO SICURI CHE PER UN MILITARE LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO CON MESSA ALLA PROVA (EX ART. 168 BIS C.P.) SIA SEMPRE UNA SCELTA VINCENTE?

La richiesta di sospensione del procedimento penale con messa alla prova è la scelta giusta da fare per un militare? Beh, dipende … ecco perché tale richiesta deve essere sempre avanzata in modo cosciente ed informato dato che, in alcuni casi, potrebbe addirittura risultare più appropriato difendersi in giudizio puntando all’assoluzione!

Facciamo però un veloce passo indietro e iniziamo a vedere in cosa consista la messa alla prova. Ebbene, in estrema sintesi, l’articolo 168 bis [1] del codice penale prevede al riguardo che “nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato, anche su proposta del pubblico ministero, può chiedere la sospensione del processo [2] con messa alla prova […]”. Per chi si avvale del beneficio della messa alla prova, questa:

  • comporta “la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato” (articolo 168 bis del codice penale);
  • viene subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità che “consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato” (articolo 168 bis del codice penale);
  • non può essere concessa più di una volta ed è preclusa a delinquenti abituali, professionali e per tendenza (articolo 168 bis del codice penale);
  • qualora si concluda con esito positivo, “estingue il reato per cui si procede” senza però pregiudicare l’eventuale “applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge[3] (articolo 168 ter del codice penale). Ovviamente se la prova da esito negativo, il reato non si estingue affatto ed il procedimento riprende esattamente dal punto in cui era stato sospeso.

Fatta questa doverosa premessa, immaginate di aver superato positivamente la prova, di poter vedere finalmente estinto il reato commesso e, conseguentemente, di esser tornati al lavoro. Fantastico, tutto sommato è stato semplice! Ma non avete dimenticato nulla? Mi spiego meglio: avete considerato i risvolti disciplinari della questione? Avete insomma capito che non è ancora finita? Ebbene sì, anche se il reato è estinto ciò non incide minimamente sui possibili profili disciplinari della vicenda (per approfondire leggi qui!): il vostro Comando dovrà infatti procedere d’ufficio all’esame del giudicato penale (che è un obbligo e non una facoltà – per approfondire leggi qui!). Non è infatti scritto da nessuna parte che i fatti oggetto dell’accertamento penale debbano necessariamente coincidere con quelli oggetto dell’azione disciplinare. L’ho evidenziato in neretto perché troppo spesso tale aspetto viene inspiegabilmente tralasciato … eppure l’esame del giudicato penale è una certezza anche in caso di esito positivo della messa alla prova che, dunque, va richiesta tenendo bene in considerazione il rischio (tutt’altro che trascurabile) che il tutto possa concludersi con l’irrogazione nei vostri confronti di una sanzione disciplinare di stato (per approfondire leggi qui!). Vi consiglio quindi di non avere remore nell’approfondire la questione con il vostro Avvocato di fiducia, sia dal punto di vista penale che (soprattutto) da quello disciplinare … sono convinto che ne beneficerà tutta la vostra strategia difensiva.

Tanto detto non mi resta che salutarvi, ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 168 bis del codice penale – Sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato:“nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato, anche su proposta del pubblico ministero, può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova.

La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.

La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.

La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta.

La sospensione del procedimento con messa alla prova non si applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103, 104, 105 e 108”.

[2]: art. 464 quater del codice di procedura penale – Sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato: “[…] 5. Il procedimento non può essere sospeso per un periodo:

a) superiore a due anni quando si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria;

b) superiore a un anno quando si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria […]”.

[3]: ciò significa che se, ad esempio, un soggetto viene perseguito per il reato di guida in stato di ebbrezza, anche se la prova si conclude con esito positivo con conseguente estinzione del reato, permangono comunque le sanzioni amministrative della sospensione o revoca della patente.

IL REATO MILITARE DI DISOBBEDIENZA (ART. 173 CPMP)

Un mio Comandante, nel sottolineare “crisi” della disciplina militare, una volta mi disse:“caro, ormai ordina chi capita ed esegue chi vuole!”. Credo che però non sia proprio ancora così, quantomeno a livello giuridico: la disciplina è infatti connaturata all’esistenza stessa di ogni organizzazione gerarchica, poiché mira a preservarne l’ordine interno, il rispetto dell’autorità e l’obbedienza, ovverosia concetti che, in ambito militare, sono veri e propri valori da tutelare e proteggere. La disciplina militare va ben oltre la semplice tutela della figura e dell’autorità del superiore di grado: essa rappresenta infatti la vera e propria “spina dorsale” di ogni unità combattente, attraverso la quale è possibile raggiungere quell’efficienza e quella rapidità di azione cui deve naturalmente tendere lo strumento militare (per approfondire leggi qui!). In tal senso, il Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM) che definisce:

– la disciplina militare come “[…] l’osservanza consapevole delle norme attinenti allo stato di militare in relazione ai compiti istituzionali delle Forze armate e alle esigenze che ne derivano […]” (articolo 1346 [1] del COM);

– l’obbedienza come l’“[…] esecuzione pronta, rispettosa e leale degli ordini attinenti al servizio e alla disciplina, in conformità al giuramento prestato” (articolo 1347 [2] del COM).

La disciplina viene tutelata dall’ordinamento giuridico militare (per approfondire leggi qui!) in via crescente in relazione al livello di dannosità che la relativa violazione può comportare per il corretto funzionamento dell’apparato militare: ecco perché può essere sanzionata con una semplice sanzione disciplinare di corpo (per approfondire leggi qui!), ovvero con una sanzione penale vera e propria com’è, appunto, quella prevista dall’articolo 173 del codice penale militare di pace (CPMP).Tralasciando per ora i profili disciplinari della questione, andiamo a vedere cosa prevede la legge penale militare in tema di disobbedienza. Ebbene, l’articolo 173 del CPMP stabilisce al riguardo che “il militare, che rifiuta, omette o ritarda di obbedire a un ordine attinente al servizio o alla disciplina, intimatogli da un superiore, è punito con la reclusione militare fino a un anno […]” [3]. Appare evidente che tale reato tutela il rapporto gerarchico e la sua tipica manifestazione, cioè l’ordine dato dal superiore all’inferiore di grado (da non confondere con la consegna [4] – per approfondire leggi qui!).Tenete bene a mente che affinché possa integrarsi il reato di disobbedienza:

–  è necessaria l’esistenza di un rapporto di subordinazione, cioè di una relazione disciplinare giuridicamente rilevante tra superiore e inferiore di grado. Non è difatti sufficiente la mera differenza di grado, serve invece che si verifichi almeno una delle condizioni previste dall’articolo 1350 del COM:“le disposizioni in materia di disciplina militare, si applicano nei confronti dei militari che si trovino in una delle seguenti condizioni:

  1. svolgono attività di servizio;
  2. sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio;
  3. indossano l’uniforme;
  4. si qualificano, in relazione ai compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”;

– l’ordine che deve essere eseguito è solo quello “attinente al servizio o alla disciplina (articolo 173 del CPMP). In tale contesto, dato che “gli ordini devono, conformemente alle norme in vigore, attenere alla disciplina, riguardare le modalità di svolgimento del servizio e non eccedere i compiti di istituto” (articolo 1349 del COM), ogni militare mantiene il potere di controllarne la legittimità: l’obbedienza non è infatti cieca o assoluta [5]! L’articolo 729 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 90 del 2010 “Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare” (cosiddetto TUOM) prevede al riguardo che “il militare al quale è impartito un ordine che non ritiene conforme alle norme in vigore deve, con spirito di leale e fattiva partecipazione, farlo presente a chi lo ha impartito dichiarandone le ragioni, ed è tenuto a eseguirlo se l’ordine è confermato”.Questo è sostanzialmente il nocciolo della questione, ma prima di concludere è doveroso un breve accenno ai rapporti tra articolo 729 del TUOM (o articolo 751, comma 1, let. a, n. 22 del TUOM per la consegna di rigore – per approfondire leggi qui!) e l’articolo 173 del CPMP … detto altrimenti, come facciamo a distinguere la disobbedienza “penale” da quella che presenta invece meri risvolti disciplinari? La questione è tutt’altro che banale perché, in tema di disobbedienza, non è assolutamente agevole individuare il confine tra l’ambito penale e quello disciplinare. Proviamo a fare un paio di considerazioni che possano magari farci orientare meglio:

1. ai sensi dell’articolo 729 del TUOM “il militare deve eseguire gli ordini ricevuti con prontezza, senso di responsabilità ed esattezza, nei limiti stabiliti dal codice e dal regolamento, nonché osservando scrupolosamente le specifiche consegne e le disposizioni di servizio”. Potrà quindi essere punito con una sanzione disciplinare di corpo (diversa dalla consegna di rigore) il militare che, ad esempio, esegue l’ordine:

– senza la necessaria prontezza, lasciando cioè passare un eccessivo lasso di tempo nella relativa attuazione;

– dimostrando mancanza di senso di responsabilità, come potrebbe essere in caso di esecuzione pigra, svogliata o indolente;

– in modo inesatto, vale a dire non adottando le cautele essenziali al corretto adempimento di quanto dovuto;

2. ai sensi dell’articolo 751, comma 1, let. a, n. 22 del TUOM è sanzionabile con la consegna di rigore (per approfondire leggi qui!) il militare che manifesta “negligenza o imprudenza o ritardo nell’esecuzione di un ordine o nell’espletamento di un servizio secondo le modalità prescritte”. Appare evidente che le parole “negligenza”, “imprudenza” o “ritardo” usate all’articolo 751 del TUOM presentano, rispetto a quelle utilizzate all’articolo 729 del TUOM di cui al precedente punto 1., un disvalore maggiore nel comportamento tenuto dal militare e, conseguentemente, comportano un aggravamento della risposta sanzionatoria;

3. anche se senza “prontezza, senso di responsabilità ed esattezza” ovvero con “negligenza o imprudenza o ritardo” l’ordine, fino a questo punto, dovrebbe essere stato sostanzialmente eseguito, senza alcuna particolare lesione al corretto funzionamento della macchina militare nel perseguimento dei propri fini istituzionali. Conseguentemente, in tali casi, la risposta penale potrebbe essere eccessiva, risultando quindi sufficiente quella disciplinare.So benissimo che, anche con le considerazioni che precedono, il confine tra penale e disciplinare resta ancora molto incerto e scivoloso (basti pensare al “ritardo” che può essere sanzionato sia con la consegna di rigore che con la sanzione penale). La qualificazione giuridica dei fatti, soprattutto quando si è in presenza di reati che presentano deficit in termini di “tassatività”, non può però essere fatta in astratto ma deve essere necessariamente effettuata in concreto … caso per caso … avuto conto di tutte le circostanze. Il diritto non è la matematica: non è infatti detto che 1 + 1 sia uguale a 2, anzi 1 + 1 spesso non fa 2 proprio per niente. Al contrario, è necessario che si proceda ad interpretare il fatto, si arrivi a qualificarlo giuridicamente in modo da individuare la disciplina applicabile al caso concreto, cosa che nel nostro caso significa capire se il militare debba essere sottoposto a procedimento disciplinare di corpo oppure portato a processo per disobbedienza.

Prima di concludere penso sia opportuno chiarire un’ultima cosa. Da alcune e-mail mi sono infatti accorto che serpeggia tra alcuni di voi una stranissima convinzione. Lo dico chiaro: non è necessario che l’ordine venga ribadito dal superiore di grado perché si possa parlare di disobbedienza! Mi spiego meglio, se ad esempio ci viene impartito un ordine e, dopo aver chiesto al superiore di grado che lo ha impartito di rivederlo perché non lo riteniamo “conforme alle norme in vigore” (articolo 729 del TUOM), decidiamo autonomamente di non eseguirlo, ci sono gli estremi per essere denunciati per disobbedienza. Certo è che, in assenza di conferma, il vostro eventuale Avvocato avrebbe qualche cartuccia in più da sparare in vostra difesa:

– sostenendo che tale “conferma” era necessaria, avendo voi evidenziato profili di illegittimità dell’ordine che avrebbero dovuto ragionevolmente portare il superiore a rivedere la propria decisione originaria;

– argomentando che, essendo la disobbedienza un reato doloso – e, cioè, intenzionale –, l’incertezza creatasi a seguito della mancata “conferma” dell’ordine vi ha portato a disobbedire colposamente (mancando cioè di dolo, cioè dell’intenzione di disobbedire), ed ecco che il reato cadrebbe perché la disobbedienza non è punibile a titolo di colpa;

– arrivando a dimostrare che, dalla valutazione complessiva dei fatti, non emerge alcuna chiara coscienza e volontà di disobbedire o di contrapporsi al superiore che ha impartito l’ordine,

eccetera, eccetera, eccetera … ma … come abbiamo detto poco sopra ogni caso giuridico è a sé e come tale va trattato, perché in diritto non esiste alcuna equazione che possa risolvere il problema una volta per tutte.

Ci sarebbe molto altro da dire, ma preferisco fermarmi qui … ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 1346 del COM – Disciplina militare:“1. La disciplina del militare è l’osservanza consapevole delle norme attinenti allo stato di militare in relazione ai compiti istituzionali delle Forze armate e alle esigenze che ne derivano. Essa è regola fondamentale per i cittadini alle armi in quanto costituisce il principale fattore di coesione e di efficienza. 2. Per il conseguimento e il mantenimento della disciplina sono determinate le posizioni reciproche del superiore e dell’inferiore, le loro funzioni, i loro compiti e le loro responsabilità. Da ciò discendono il principio di gerarchia e quindi il rapporto di subordinazione e il dovere dell’obbedienza. 3. Il militare osserva con senso di responsabilità e consapevole partecipazione tutte le norme attinenti alla disciplina e ai rapporti gerarchici. Nella disciplina tutti sono uguali di fronte al dovere e al pericolo”.

[2]: art. 1347 del COM – Obbedienza:“1. L’obbedienza consiste nella esecuzione pronta, rispettosa e leale degli ordini attinenti al servizio e alla disciplina, in conformità al giuramento prestato. 2. Il dovere dell’obbedienza è assoluto, salvo i limiti posti dall’articolo 1349, comma 2 e dall’articolo 729 del regolamento”.

[3]: art. 173 del CPMP – Nozione del reato e circostanza aggravante:“Il militare, che rifiuta, omette o ritarda di obbedire a un ordine attinente al servizio o alla disciplina, intimatogli da un superiore, è punito con la reclusione militare fino a un anno. Se il fatto è commesso in servizio, ovvero a bordo di una nave o di un aeromobile, la reclusione militare è da sei mesi a un anno; e può estendersi fino a cinque anni, se il fatto è commesso in occasione d’incendio o epidemia o in altra circostanza di grave pericolo”.

[4]: la consegna viene peraltro tutelata differentemente. Essendo un “servizio dentro il servizio”, caratterizzato dall’inserimento del militare in un turno con precise prescrizioni, i reati contro la consegna vengono collocati nel codice penale militare di pace tra i “reati contro il servizio militare” mentre la disobbedienza, al contrario, è collocata tra i “reati contro la disciplina militare” (per approfondire leggi qui!).

[5]: anzi, esiste addirittura un dovere di disobbedienza e di immediata informazione dei superiori che scatta in presenza di un ordine “manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato”, cioè di un ordine eversivo o criminoso (articoli 729 del TUOM e 1349 del COM).

IL GRATUITO PATROCINIO

Il gratuito patrocinio (o patrocinio a spese dello Stato) è il diritto all’assistenza legale gratuita prevista a favore dei non abbienti [1]. Ai sensi dell’articolo 76 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002 “può essere ammesso al patrocinio chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a euro 9.296,22 [2]”, cifra soggetta a periodici aggiornamenti e che è stata portata oggi a euro 11.746,68 [3][4]. Ovviamente, se avanzate richiesta di gratuito patrocinio poi non potrere dare l’incarico a qualunque Avvocato: sarete difatti obbligati a sceglierlo da un apposito elenco degli Avvocati iscritti al patrocinio a spese dello Stato [5].

In ambito penale, per favorire le denunce, il comma 4 ter dell’articolo 76 del citato D.P.R. n. 115 del 2002 ha previsto che la persona offesa da alcuni specifici reati particolarmente odiosi come, ad esempio, i maltrattamenti contro familiari (articolo 572 del codice penale), le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (articolo 583 bis del codice penale), la violenza sessuale (articoli 609 bis, quater e octies) o gli atti persecutori (il cosiddetto stalking – articolo 612 bis del codice penale) possa essere ammessa al gratuito patrocinio in deroga ai previsti limiti redditi.

Abbiamo parlato finora di patrocinio a spese dello Stato, ma avete idea a quanto ammontano grossomodo queste spese? Beh, possiamo dire che tali spese corrispondono a grandissime linee a quelle che dovreste sostenere da soli nel caso in cui decideste di far causa e comprendono quindi quantomeno:

  • l’onorario del vostro Avvocato e, se perdete la causa, anche di quello della controparte. Ciò nonostante, tenete a mente che anche se avete vinto la causa il Giudice potrebbe comunque “compensare” le spese (in tal caso ognuno si pagherebbe quindi il proprio Avvocato);
  • costi vari quali quello per il contributo unificato (cioè la tassa prevista per poter iniziare una causa), il compenso per un eventuale consulente tecnico d’ufficio (cosiddetto CTU), eccetera. Peraltro, se i gradi di giudizio sono più di uno (come, ad esempio, Tribunale, Corte di Appello e Corte di Cassazione), tali costi lievitano e le spese potrebbero quindi anche moltiplicarsi.

Vi ho dato le nozioni fondamentali, credo sia meglio fermarmi qui … non mi resta quindi che salutarvi, ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 74 del D.P.R. n. 115 del 2002 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia” – Istituzione del patrocinio:“1. È assicurato il patrocinio nel processo penale per la difesa del cittadino non abbiente, indagato, imputato, condannato, persona offesa da reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria. 2. È, altresì, assicurato il patrocinio nel processo civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate”.

[2]: art. 76 del D.P.R. n. 115 del 2002 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia” – Condizioni per l’ammissione:“1. Può essere ammesso al patrocinio chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a euro 9.296,22. 2. Salvo quanto previsto dall’articolo 92, se l’interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso l’istante. 3. Ai fini della determinazione dei limiti di reddito, si tiene conto anche dei redditi che per legge sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ovvero ad imposta sostitutiva. 4. Si tiene conto del solo reddito personale quando sono oggetto della causa diritti della personalità, ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi. 4-bis. Per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli articoli 416-bis del codice penale, 291-quater del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, e 74, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, e per i reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai soli fini del presente decreto, il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti. 4-ter. La persona offesa dai reati di cui agli articoli 572, 583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di cui agli articoli 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice penale, può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dal presente decreto. 4-quater. Il minore straniero non accompagnato coinvolto a qualsiasi titolo in un procedimento giurisdizionale ha diritto di essere informato dell’opportunità di nominare un legale di fiducia, anche attraverso il tutore nominato o l’esercente la responsabilità genitoriale ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, e di avvalersi, in base alla normativa vigente, del gratuito patrocinio a spese dello Stato in ogni stato e grado del procedimento. Per l’attuazione delle disposizioni contenute nel presente comma è autorizzata la spesa di 771.470 euro annui a decorrere dall’anno 2017”.

[3]: art. 1 del Decreto del Ministero della Giustizia 23 luglio 2020 (in Gazzetta Ufficiale n. 24 del 30.01.2021).

[4]: art. 92 del D.P.R. n. 115 del 2002 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia” – Elevazione dei limiti di reddito per l’ammissione:“1. Se l’interessato all’ammissione al patrocinio convive con il coniuge o con altri familiari, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 76, comma 2, ma i limiti di reddito indicati dall’articolo 76, comma 1, sono elevati di euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi”.

[5]: art. 80 del D.P.R. n. 115 del 2002 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia” – Nomina del difensore:“1. Chi è ammesso al patrocinio può nominare un difensore scelto tra gli iscritti negli elenchi degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato, istituiti presso i consigli dell’ordine del distretto di corte di appello nel quale ha sede il magistrato competente a conoscere del merito o il magistrato davanti al quale pende il processo. 2. Se procede la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato, le sezioni riunite o le sezioni giurisdizionali centrali presso la Corte dei conti, gli elenchi sono quelli istituiti presso i consigli dell’ordine del distretto di corte di appello del luogo dove ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. 3. Colui che è ammesso al patrocinio può nominare un difensore iscritto negli elenchi degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato scelto anche al di fuori del distretto di cui ai commi 1 e 2”.

QUANDO SI PUÒ FARE A MENO DELL’ASSISTENZA DI UN AVVOCATO?

Che dire … domanda intelligente che merita un adeguato approfondimento. Iniziamo col dire che quando si va in tribunale la difesa tecnica è “quasi” sempre necessaria e obbligatoria [1]. Ciò nonostante, la legge prevede effettivamente diversi casi in cui si può fare a meno dell’Avvocato anche se, a mio parere, sia molto utile farsi almeno “consigliare” sul come comportarsi da chi è in possesso di un solido bagaglio tecnico-giuridico, non altro per aggirare le molteplici insidie processuali che potrebbero farvi “inciampare” e vanificare ogni sforzo. Ebbene, tornando al tema del post, sappiate che per quanto attiene all’attività processuale vera e propria potete stare in giudizio personalmente, senza cioè alcuna assistenza legale, nelle cause davanti:

  • al Giudice di pace di valore inferiore a 1100 euro [2] ovvero in caso di contestazione di multe stradali [3];
  • alle Commissioni tributarie di valore inferiore a 3000 euro [4];
  • al Giudice amministrativo “in materia di accesso e trasparenza amministrativa, in materia elettorale e nei giudizi relativi al diritto dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri [5].

Preciso che, per quanto attiene al procedimento penale, la difesa tecnica viene sempre considerata dalla legge come rigorosamente necessaria e obbligatoria alla luce delle pesanti conseguenze che tale specifica tipologia di processo può comportare per l’imputato: non troverete quindi nel codice di procedura penale (c.p.p.) alcuna eccezione a tale principio e non sarete conseguentemente mai ammessi a difendervi da soli davanti al Giudice penale!

Tanto premesso, esistono anche molte altre ipotesi di attività legale che, contrariamente a quanto comunemente si crede, possono autonomamente e direttamente essere svolte dall’autore, senza cioè l’assistenza di alcun Avvocato, come in caso di:

  • testamenti: il testamento, soprattutto quello olografo (per approfondire leggi qui!), non necessita difatti dell’intervento di alcun Avvocato. Ciò nonostante, nel caso in cui gli eredi siano molti, fossi in voi, mi farei una chiacchieratina con un legale di fiducia in  modo da evitare di ledere i diritti di alcuno e prevenire quindi eventuali contestazioni/ridurre il rischio di possibili contenziosi;
  • contratti: la redazione di un contratto non necessita per forza dell’intervento di un legale anche se, alla luce della “delicatezza” dei rapporti giuridici che può generare in capo alle parti, sarebbe a mio parere auspicabile rivolgersi ad un Avvocato quantomeno prima di firmare;
  • conciliazioni bancarie e finanziarie: in caso di controversie con istituti di credito, nonché degli altri intermediari in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari, ci si può rivolgere ad un arbitro bancario e finanziario, anche senza l’assistenza di un Avvocato;
  • mediazioni in materia di utenze: in caso di controversie in materia di utenze della luce, del telefono o del gas non è necessario l’intervento dell’Avvocato (cosa che invece, badate bene, è prevista per molti altri tipi di mediazione);
  • ricorsi al prefetto in caso di contestazione di multe stradali [6];
  • diffide: per fare una lettera di diffida non serve alcun Avvocato, anche se è intuibile come una diffida redatta su carta intestata di uno studio legale determini un impatto psicologico più incisivo in chi la riceve … venite cioè presi maggiormente sul serio anche in vista di un eventuale contenzioso;
  • lettere di messa in mora (articolo 1219 del codice civile): che dire, si trovano agevolmente su internet format di lettere di messa in mora fatte molto, ma molto bene … ricordatevi però di fare in modo che rimanga traccia dell’invio: speditele cioè per raccomandata con avviso di ricevimento ovvero per posta elettronica certificata (PEC – per approfondire leggi qui!);
  • accesso agli atti amministrativi (articolo 22 e seguenti della legge n. 241 del 1990): nonostante sia una materia stranota ai più, ancor oggi mi viene spesso chiesto di aiutare qualche collega a fare una semplice richiesta di accesso agli atti. Vi assicuro che non serve un Avvocato per chiedere di visionare o estrarre copia di documenti amministrativi, fermo restando che la rete è satura di format di richieste di accesso (spesso disponibili anche sui siti istituzionali delle Amministrazioni interessate) che vi invito a scaricare, compilare e presentare direttamente al vostro Comando di appartenenza, senza la necessità di alcun legale … credetemi, nulla di più semplice ed economico!

Certo, esistono ulteriori ipotesi in cui è possibile far da sé (come, ad esempio, in caso di sfratto, contestazioni del datore del lavoro davanti all’Ispettorato del lavoro, amministrazione di sostegno eccetera) ma credo sia meglio fermarmi qui: vorrei difatti spendere qualche parola per chiarire un paio di dubbi ricorrenti che riguardano direttamente noi militari:

  • la difesa del militare in ambito disciplinare: in tale specifico ambito non è di norma prevista l’assistenza di alcun Avvocato ma semmai, solo per i procedimenti disciplinari di stato [7] o di corpo per l’irrogazione della consegna di rigore, di un militare difensore (per approfondire leggi qui!). Sebbene il procedimento disciplinare militare (per approfondire leggi qui!) non presenti particolari “criticità”, non è da escludere che il supporto di un legale che conosce il diritto amministrativo possa aiutarvi a rilevare eventuali irregolarità procedurali in modo da escludere o, quantomeno mitigare, la vostra responsabilità disciplinare;
  • il ricorso gerarchico avverso le sanzioni disciplinari di corpo (per approfondire leggi qui!) ovvero avverso la documentazione caratteristica: anche se per la presentazione di un ricorso gerarchico non è necessaria l’assistenza di un Avvocato, non commettete mai l’errore di affidarvi totalmente ai consigli di un collega “praticone”, ma fatevi invece una sana chiacchierata con il vostro legale di fiducia. Peraltro, considerato che nel ricorso al TAR o straordinario al Presidente della Repubblica vengono di solito dichiarati inammissibili i motivi che non siano stati previamente proposti in sede gerarchica, il ricorso gerarchico va scritto bene e da subito … è cioè one shot! Se siete quindi decisi a impugnare una punizione e volete andare fino in fondo, vi consiglio vivamente di farvi aiutare da un Avvocato, anche nella stesura del ricorso gerarchico;
  • l’assistenza in attività stragiudiziale: per attività “stragiudiziale” intendiamo tutti quei casi in cui non c’è (ancora) alcun giudizio da instaurare e non è quindi necessario rivolgersi al giudice. Insomma, il militare può incaricare un Avvocato del libero foro di tutelare i propri diritti e i propri interessi di fronte ai superiori gerarchici e all’Amministrazione della Difesa in generale? Alla luce delle recenti novità giurisprudenziali in materia ho ritenuto di dedicare all’argomento uno specifico post (per approfondire leggi qui!)

Tanto detto non mi resta che salutarvi, ricordandovi sempre che “… se pensate che rivolgersi a un Avvocato serio costi troppi soldi, non avete idea di quanto potrebbe costarvi caro farvi assistere da quello sbagliato!”ad maiora!

TCGC

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[1]: infatti, la necessarietà e dell’obbligatorietà della difesa “tecnica” (quella cioè realizzata per il tramite del proprio Avvocato di fiducia che, quindi, è ben diversa dalla c.d. “autodifesa” nella quale ci si difende da sè) è prevista, con le eccezioni che vedremo nel proseguo del post, nel processo civile (art. 82 del codice di procedura civile – c.p.c.), nel processo amministrativo (art. 22 del D. Lgs. 104 del 2010 – codice del processo amministrativo), in quello tributario (art. 12 del D. Lgs. n. 546 del 1992 – codice del processo tributario), in quello contabile (art. 28 del D. Lgs. n. 174 del 2016 – codice della giustizia contabile), nonché nel processo penale (artt. 96 e 97 del codice di procedura penale – c.p.p.)!

[2]: art. 82 del codice di procedura civile – Patrocinio:“Davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio personalmente nelle cause il cui valore non eccede euro 1.100 […]”.

[3]: artt. 204 bis del D. Lgs. n. 285 del 1992 “Nuovo codice della strada” e 7 del D. Lgs. n. 150 del 2011 “Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69”.

[4]: art. 12 del D. Lgs. n. 546 del 1992 “Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413” – Difesa tecnica:“Per le controversie di valore fino a tremila euro le parti possono stare in giudizio senza assistenza tecnica. Per valore della lite si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste […]”.

[5]: art. 23 del D. Lgs.n. 104 del 2010 – codice del processo amministrativo (c.p.a.).

[6]: art. 203 del D. Lgs. n. 285 del 1992 “Nuovo codice della strada”.

[7]: a dire il vero nei procedimenti disciplinari di stato ci si può affidare anche ad un Avvocato: l’art. 1370 del Codice dell’Ordinamento Militare (cosiddetto COM) prevede infatti che:“[…] 3-bis. Nei procedimenti disciplinari di stato il militare inquisito, in aggiunta al difensore […] può farsi assistere, a sue spese, anche da un avvocato del libero foro”.

I REATI MILITARI DI INSUBORDINAZIONE E DI VIOLENZA, INGIURIA E MINACCIA A INFERIORE

Il diritto penale militare dedica ai reati contro il rapporto gerarchico una posizione di primissimo piano in ragione del fatto che la disciplina è uno degli aspetti fondamentali di ogni organizzazione militare che possa definirsi tale. Tanto premesso, sappiate che:

  • gli articoli 186 [1] e 195 [2] del codice penale militare di pace (CPMP) trattano rispettivamente dei reati militari di “insubordinazione con violenza” e di “violenza contro un inferiore” (vi ho integralmente postato il testo di tali articoli in nota);
  • gli articoli 189 [3] e 196 [4] del CPMP trattano invece dei reati di “insubordinazione con minaccia o ingiuria” e di “minaccia o ingiuria a inferiore” (troverete anche per questi reati il testo integralmente postato in nota!).

Come avete intuito, esiste un evidente parallelismo tra i reati militari che l’inferiore può compiere a danno del superiore (i reati di insubordinazione, appunto!) ed i reati che il superiore può compiere a danno dell’inferiore di grado (quelli che, per intendersi, si realizzano invece con abuso di autorità), al punto che le condotte punibili e le sanzioni applicabili sono sostanzialmente [5] speculari!

I reati contro il rapporto gerarchico non presentano particolari “criticità” dal punto di vista interpretativo e quindi, essendo inutile appesantire troppo il discorso, credo sia opportuno fermarmi qui. Ovviamente, qualora siate interessati a capire cosa di intenda nel codice penale militare di pace per:

Prima di lasciarci, ritengo però opportuno evidenziarvi che:

  • l’articolo 190 del CPMP prevede alcune aggravanti al reato di “insubordinazione con minaccia e ingiuria”. Tale articolo prevede infatti che “le pene stabilite dall’articolo precedente [cioè il 189 del CPMP sull’“insubordinazione con minaccia o ingiuria”] sono aumentate: 1) se la minaccia è usata per costringere il superiore a compiere un atto contrario ai propri doveri, ovvero a compiere o ad omettere un atto del proprio ufficio o servizio, ovvero per influire comunque sul superiore; 2) se il superiore offeso è il comandante del reparto o il militare preposto al servizio o il capo di posto; 3) se la minaccia è grave o ricorre alcuna delle circostanze indicate nel primo comma dell’articolo 339 [6] del codice penale. Se ricorre alcuna delle circostanze indicate nel secondo comma dello stesso articolo 339, si applica la reclusione militare da tre anni a quindici anni”;
  • l’articolo 198 del CPMP prevede l’attenuante della “provocazione”. Difatti, “se alcuno dei reati preveduti dai capi terzo e quarto [che trattano appunto dell’“insubordinazione” e della “violenza, minaccia o ingiuria a un inferiore”] è commesso nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto del superiore o dell’inferiore, e subito dopo di esso o subito dopo che il colpevole ne ha avuta notizia, alla pena dell’ergastolo è sostituita la reclusione non inferiore a quindici anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà”;
  • l’articolo 199 del CPMP, prevede infine l’“inapplicabilità” dei reati contro il rapporto gerarchico nel caso in cui le condotte siano state tenute per cause estranee al servizio o alla disciplina militare:“le disposizioni dei capi terzo e quarto [che trattano appunto dell’“insubordinazione” e della “violenza, minaccia o ingiuria a un inferiore”] non si applicano quando alcuno dei fatti da esse preveduto è commesso per cause estranee al servizio e alla disciplina militare, fuori dalla presenza di militari riuniti per servizio e da militare che non si trovi in servizio o a bordo di una nave militare o di un aeromobile militare”. Ovviamente, in tal caso quel che è successo tra superiore e inferiore di grado verrà “derubricato” a semplici percosse o lesioni (per approfondire leggi qui!) ovvero a mera minaccia (per approfondire leggi qui!) o ingiuria (per approfondire leggi qui!).

Penso di aver detto tutto ciò che volevo, non mi resta quindi che salutarvi … ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 186 del CPMP – Insubordinazione con violenza:“Il militare che usa violenza contro un superiore è punito con la reclusione militare da uno a tre anni. Se la violenza consiste nell’omicidio volontario, consumato o tentato, nell’omicidio preterintenzionale ovvero in una lesione personale grave, o gravissima, si applicano le corrispondenti pene stabilite dal codice penale. La pena detentiva temporanea può essere aumentata”.

[2]: art. 195 del CPMP – Violenza contro un inferiore:“Il militare, che usa violenza contro un inferiore, è punito con la reclusione militare da uno a tre anni. Se la violenza consiste nell’omicidio volontario, consumato o tentato, nell’omicidio preterintenzionale, ovvero in una lesione personale grave o gravissima, si applicano le corrispondenti pene stabilite dal codice penale. La pena detentiva temporanea può essere aumentata”.

[3]: art. 189 del CPMP – Insubordinazione con minaccia o ingiuria:“Il militare, che minaccia un ingiusto danno ad un superiore in sua presenza, è punito con la reclusione militare da sei mesi a tre anni. Il militare, che offende il prestigio, l’onore, o la dignità di un superiore in sua presenza, è punito con la reclusione militare fino a due anni. Le stesse pene si applicano al militare, che commette i fatti indicati nei commi precedenti mediante comunicazione telegrafica, telefonica, radiofonica o televisiva, o con scritti o disegni o con qualsivoglia altro mezzo di comunicazione, diretti al superiore”.

[4]: art. 196 del CPMP – Minaccia o ingiuria a un inferiore:“Il militare, che minaccia un ingiusto danno ad un inferiore in sua presenza, è punito con la reclusione militare da sei mesi a tre anni. Il militare, che offende il prestigio, l’onore o la dignità di un inferiore in sua presenza, è punito con la reclusione militare fino a due anni. Le stesse pene si applicano al militare che commette i fatti indicati nei commi precedenti mediante comunicazione telegrafica, telefonica, radiofonica o televisiva, o con scritti o disegni o con qualsivoglia altro mezzo di comunicazione, diretti all’inferiore. La pena è aumentata se la minaccia è grave o se ricorre alcuna delle circostanze indicate nel primo comma dell’articolo 339 del codice penale. Se ricorre alcuna delle circostanze indicate nel secondo comma dello stesso articolo 339, si applica la reclusione militare da tre a quindici anni”.

[5]: una evidente differenza si riscontra solo nel quarto comma dell’art. 196 del CPMP sulla “minaccia o ingiuria a inferiore” che non trova riscontro nel corrispondente art. 189 sull’“insubordinazione con minaccia o ingiuria” ma nel successivo art. 190 del CPMP.

[6]: art. 339 del c.p.:“Le pene stabilite nei tre articoli precedenti sono aumentate se la violenza o la minaccia è commessa nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte. Se la violenza o la minaccia è commessa da più di cinque persone riunite, mediante uso di armi anche soltanto da parte di una di esse, ovvero da più di dieci persone, pur senza uso di armi, la pena è, nei casi preveduti dalla prima parte dell’articolo 336 e dagli articoli 337 e 338, della reclusione da tre a quindici anni, e, nel caso preveduto dal capoverso dell’articolo 336, della reclusione da due a otto anni. Le disposizioni di cui al secondo comma si applicano anche, salvo che il fatto costituisca più grave reato, nel caso in cui la violenza o la minaccia sia commessa mediante il lancio o l’utilizzo di corpi contundenti o altri oggetti atti ad offendere, compresi gli artifici pirotecnici, in modo da creare pericolo alle persone”.

L’INGIURIA E LA DIFFAMAZIONE MILITARE AI TEMPI DI FACEBOOK E WHATSAPP

Come ben tutti sappiamo, negli ultimi anni i social network e le applicazioni di messaggistica istantanea hanno avuto una diffusione enorme, al punto che praticamente ognuno di noi ne possiede uno o più account. Conseguentemente, la portata lesiva di un post su facebook, di un messaggio su whatsapp o di un video su tik tok è oggi di molto amplificata rispetto a quanto non fosse nel passato! Ecco, quindi, che i contenuti pubblicati on line possano facilmente sfociare nell’“abuso” del diritto di libera manifestazione del pensiero (articolo 21 della Costituzione – per approfondire leggi qui!), esponendo l’autore a responsabilità disciplinare [1] se non, addirittura, ad un vero e proprio processo penale per ingiuria, diffamazione (per approfondire leggi qui!) o vilipendio (per approfondire leggi qui!).

Tanto premesso, la domanda che mi viene spesso fatta è la seguente: come è possibile che adesso debba trovarmi un Avvocato e andare a processo? Ho fatto tutto on line! Non pensavo che …

Ebbene, iniziamo subito col dire che i reati militari di ingiuria e diffamazione si consumano nel mondo virtuale esattamente come nel mondo reale! Non c’è proprio alcuna differenza … anzi, a dire il vero, per il solo fatto di aver diffamato un collega su un social network o all’interno di una chat potreste andare incontro ad una responsabilità penale “aggravata”: difatti, per quanto attiene specificamente al reato militare di diffamazione, “se l’offesa […] è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, [… come viene oggi pacificamente considerato l’utilizzo dello strumento telematico …] la pena è della reclusione militare da sei mesi a tre anni” che, come vedete, è ben più della “reclusione militare fino ai sei mesi” prevista per l’ipotesi base di cui al primo comma dell’articolo 227 [2] del codice penale militare di pace (CPMP) [3]!

A questo punto che dire … usate il buon senso e, soprattutto quando siete on line, non permettetevi leggerezze che potrebbero costarvi molto caro! Lo ripeto per esser ancora più chiaro: USATE IL BUON SENSO ANCHE QUANDO SIETE ON LINE E NON PERMETTETEVI LEGGEREZZE CHE POTREBBERO COSTARVI MOLTO CARO!

Senza appesantire troppo il discorso (potete infatti trovare on line una miriade di articoli sull’argomento estremamente dettagliati che, sono sicuro, possono togliervi ogni possibile dubbio [4]), cercherò ora di darvi qualche semplicissima indicazione finale per meglio orientarvi su internet. Dato che l’ingiuria on line è di facile comprensione … basta difatti che il messaggio offensivo venga direttamente indirizzato alla vittima con qualsiasi mezzo tecnologico, sia esso una e-mail, una PEC, un messaggio privato, uno “stato” eccetera … mi concentrerò solo su alcune peculiarità del reato di diffamazione per come sono state prese in considerazione dai Giudici: è stata infatti la giurisprudenza … sentenza dopo sentenza … a tracciarne i confini nella rete. Ebbene, considerate che il reato di diffamazione on line può realizzarsi anche:

  • con la mera pubblicazione di foto, video, illustrazioni o fotomontaggi;
  • con l’invio di una e-mail o di una PEC (per approfondire leggi qui!) a più destinatari, anche in copia nascosta, ovvero ad una sola casella di posta elettronica che sia però condivisa da più soggetti … ricordiamo che perché possa parlarsi di diffamazione è sempre necessaria la presenza di “più persone” (cioè almeno due – per approfondire leggi qui!);
  • quando il messaggio diffamatorio sia stato postato in un gruppo “chiuso” di facebook o in una chat di whatsapp. In tal senso, ad esempio, i Giudici amministrativi nel rigettare la domanda di annullamento di un provvedimento disciplinare hanno difatti rilevato che “i social network in particolare Facebook non possono essere considerati come siti privati, in quanto non solo accessibili ai soggetti non noti cui il titolare del sito consente l’accesso, ma altresì suscettibili di divulgazione dei contenuti anche in altri siti. In sostanza, la collocazione di una fotografia o di un testo su Facebook implica una sua possibile diffusione a un numero imprecisato e non prevedibile di soggetti e quindi va considerato, sia pure con alcuni limiti, come un sito pubblico” (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 562 del 2016);
  • a carico del titolare di un blog [5] che non elimina i contenuti diffamatori pubblicati da altri e di cui è venuto a conoscenza;
  • attraverso l’apposizione di un mero emoticon (cioè una di quelle “faccine” che esprimono un sentimento e che spopolano on line!) o di un semplice “mi piace” al messaggio diffamatorio pubblicato da altri … beh … a dire il vero tale ultimo punto è abbastanza controverso ma sappiate che non mancano casi in cui è stato contestato il concorso nel reato di diffamazione a chi ha apposto un emoticon o un like ad un messaggio dal contenuto diffamatorio o denigratorio.

Un’ultima cosa prima di concludere: che strumenti ha la vittima di ingiuria o diffamazione militare on line per difendersi? Beh, non essendo prevista dal codice penale militare di pace la possibilità per il militare di presentare querela (per approfondire leggi qui!), il militare vittima di diffamazione on line che ritiene di esser stato ingiuriato o diffamato da altro militare (non dimentichiamo infatti che nei reati militari di ingiuria e diffamazione militare sia chi offende che chi viene offeso deve essere un militare [6] – per approfondire leggi qui!) non resta che relazionare l’evento ai Carabinieri, alla Guardia di Finanza o – meglio – al proprio Comandante di corpo affinché, in qualità di Ufficiale di polizia giudiziaria militare, effettui gli adempimenti di competenza (per approfondire leggi qui!) in modo che venga perseguito l’autore del reato militare … anche al fine di veder riconosciute le proprie eventuali pretese risarcitorie! Ovviamente, perché possa essere accordato un risarcimento alla vittima è necessario:

  • costituirsi parte civile nel processo penale militare per il tramite di un Avvocato di fiducia (che costa e che è a carico della vittima);
  • dimostrare di aver subito un danno dal messaggio diffamatorio;
  • attendere la condanna del colpevole che ovviamente avviene solo al termine del processo penale militare (che ha una durata non trascurabile!).

Non bisogna poi dimenticare che:

  • il procedimento non di rado viene purtroppo archiviato stante l’impossibilità di risalire al nominativo dell’autore del reato … accade infatti frequentemente che non si riesca a risalire all’IP (Internet Protocol) da cui è partito il messaggio diffamatorio;
  • il Giudice penale militare non si pronuncia sempre sul risarcimento nella sentenza di condanna, rendendo conseguentemente necessario andare anche dal Giudice civile per avere il dovuto risarcimento (cioè partendo con una autonoma causa civile, sempre a spese della vittima e che dilata ulteriormente i tempi!)

Che dire, le cose funzionano a grandi linee così … non mi resta dunque che salutarvi, ad maiora!

TCGC

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[1]: sia di corpo che, eventualmente, di stato (per approfondire leggi qui!). In questi casi la responsabilità disciplinare scaturisce di solito dalla violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 90 del 2010Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare(cosiddetto TUOM), con particolare riguardo agli articoli:

712 TUOM – Doveri attinenti al giuramento:“1. Con il giuramento di cui all’articolo 621, comma 6, del codice il militare di ogni grado s’impegna solennemente a operare per l’assolvimento dei compiti istituzionali delle Forze armate con assoluta fedeltà alle istituzioni repubblicane, con disciplina e onore, con senso di responsabilità e consapevole partecipazione, senza risparmio di energie fisiche, morali e intellettuali affrontando, se necessario, anche il rischio di sacrificare la vita. 2. L’assoluta fedeltà alle istituzioni repubblicane è il fondamento dei doveri del militare”;

713 TUOM – Doveri attinenti al grado:“1. Il grado corrisponde alla posizione che il militare occupa nella scala gerarchica. 2. Egli deve astenersi, anche fuori servizio, da comportamenti che possono comunque condizionare l’esercizio delle sue funzioni, ledere il prestigio dell’istituzione cui appartiene e pregiudicare l’estraneità delle Forze armate come tali alle competizioni politiche, fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 1483 del codice. 3. Il militare investito di un grado deve essere di esempio nel compimento dei doveri, poiché l’esempio agevola l’azione e suscita lo spirito di emulazione”;

717 TUOM – Senso di responsabilità:“1. Il senso di responsabilità consiste nella convinzione della necessità di adempiere integralmente ai doveri che derivano dalla condizione di militare per la realizzazione dei fini istituzionali delle Forze armate”;

719 TUOM – Spirito di corpo:“1. Lo spirito di corpo è il sentimento di solidarietà che, fondato sulle tradizioni etiche e storiche del corpo, deve unire i membri di una stessa unità al fine di mantenere elevato e accrescere il prestigio del corpo cui appartengono. 2. Particolare impegno deve essere posto nell’illustrare la storia e le tradizioni del corpo ai militari che ne entrano a far parte. 3. Lo spirito di corpo, pur essendo fonte di emulazione tra le unità, non deve però intaccare lo spirito di solidarietà tra tutti i componenti delle Forze armate”;

720 TUOM – Uniforme:“[…] 5. L’uso dell’uniforme è vietato al militare: a) quando è sospeso dall’impiego, dal servizio o dalle funzioni del grado; b) nello svolgimento delle attività private e pubbliche consentite”;

721 TUOM – Dignità e decoro del militare:“1. L’aspetto esteriore del militare deve essere decoroso, come richiede la dignità della sua condizione e deve comunque essere tale da consentire il corretto uso dei capi di equipaggiamento previsti”;

722 TUOM – Doveri attinenti alla tutela del segreto e al riserbo sulle questioni militari:“1. Il militare, oltre a osservare scrupolosamente le norme in materia di tutela del segreto, deve:

a) acquisire e mantenere l’abitudine al riserbo su argomenti o notizie la cui divulgazione può recare pregiudizio alla sicurezza dello Stato, escludendo dalle conversazioni private, anche se hanno luogo con familiari, qualsiasi riferimento ai suddetti argomenti o notizie;

b) evitare la divulgazione di notizie attinenti al servizio che, anche se insignificanti, possono costituire materiale informativo;

c) riferire sollecitamente ai superiori ogni informazione di cui è venuto a conoscenza e che può interessare la sicurezza dello Stato e delle istituzioni repubblicane, o la salvaguardia delle armi, dei mezzi, dei materiali e delle installazioni militari”;

732 TUOM – Contegno del militare:“1. Il militare deve in ogni circostanza tenere condotta esemplare a salvaguardia del prestigio delle Forze armate. 2. Egli ha il dovere di improntare il proprio contegno al rispetto delle norme che regolano la civile convivenza. In particolare deve: a) astenersi dal compiere azioni e dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro; b) prestare soccorso a chiunque versi in pericolo o abbisogni di aiuto; c) consegnare prontamente al superiore o alle autorità competenti denaro o cosa che ha trovato o che gli sono pervenuti per errore; d) astenersi dagli eccessi nell’uso di bevande alcoliche ed evitare l’uso di sostanze che possono alterare l’equilibrio psichico; e) rispettare le religioni, i ministri del culto, le cose e i simboli sacri e astenersi, nei luoghi dedicati al culto, da azioni che possono costituire offesa al senso religioso dei partecipanti […]”;

733 TUOM – Norme di tratto:“1. La correttezza nel tratto costituisce preciso dovere del militare. 2. Nei rapporti, orali o scritti, di servizio tra militari di grado diverso deve essere usata la terza persona […]”;

746 TUOM – Uso dell’abito civile: “[…] 3. Il militare in abito civile non deve indossare alcun distintivo o indumento caratteristico dell’uniforme”.

[2]: art. 227 CPMP – Diffamazione:il militare, che, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende la reputazione di altro militare, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a sei mesi. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, o è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione militare da sei mesi a tre anni. Se l’offesa è recata a un corpo militare, ovvero a un ente amministrativo o giudiziario militare, le pene sono aumentate”.

[3]: ovviamente, il solo fatto che la pena vada dai sei mesi ai tre anni di reclusione militare preclude al Comandante di corpo di poter eventualmente richiedere (o meno) il procedimento ai sensi dell’art. 260 CPMP (per approfondire leggi qui!). Ciò significa, in poche parole, che al 100% dovrete affrontare un procedimento penale!

[4]: peraltro gli Stati Maggiori/Comandi Generali hanno pubblicato negli ultimi anni numerose direttive sull’argomento. In tale contesto, degna di menzione è a mio parere la pubblicazione “Linee guida per l’uso consapevole dei social network e trattazione sul web di materie istituzionali” (SMD – UGAG – 003/2019) dello Stato Maggiore della Difesa che è facile da reperire in rete ed offre un buon inquadramento generale della materia.

[5]: fermo restando che il titolare di un blog non è equiparato al Direttore di un giornale!

[6]: ovviamente, se l’autore del reato di ingiuria o diffamazione non è un militare, il militare-vittima potrà presentare una comune denuncia-querela (come un qualsiasi altro cittadino – per approfondire leggi qui!) all’Autorità giudiziaria ordinaria (ovvero alla Polizia giudiziaria) affinché si proceda ai sensi degli articoli 594 e 595 del codice penale “comune”.

I REATI MILITARI DI INGIURIA E DIFFAMAZIONE (ARTT. 226 E 227 CPMP)

Ho notato dalle vostre e-mail che i termini ingiuria e diffamazione vengano troppo spesso scambiati … utilizzati cioè l’uno al posto dell’altro [1]. Credo quindi necessario un piccolo … quanto doveroso … ripassino sull’argomento. Iniziamo subito col dire che i reati militari di ingiuria e diffamazione sono sostanzialmente speculari ai corrispondenti reati previsti agli articoli 594 [2] e 595 [3] dal codice penale comune. Ovviamente, affinché ci sia ingiuria o diffamazione militare (e si applichi cioè il codice penale militare di pace) è necessario che sia il soggetto attivo del reato (chi offende per intenderci) che quello passivo del reato (cioè chi viene offeso) siano militari [4]. Il codice penale militare di pace (CPMP) disciplina tali reati come segue:

  • ingiuria militare:“il militare, che offende l’onore o il decoro di altro militare presente, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a quattro mesi. Alla stessa pena soggiace il militare, che commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. La pena è della reclusione militare fino a sei mesi, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato” (articolo 226 del CPMP);
  • diffamazione militare:“il militare, che, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende la reputazione di altro militare, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a sei mesi. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, o è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione militare da sei mesi a tre anni. Se l’offesa è recata a un corpo militare, ovvero a un ente amministrativo o giudiziario militare, le pene sono aumentate(articolo 227 del CPMP).

Tanto premesso, senza addentrarci nel significato da dare alle parole “onore”, “decoro” e “reputazione” che mi appaiono abbastanza chiare e intuitive da comprendere [5], balza subito agli occhi la fondamentale differenza che esiste tra ingiuria e diffamazione, ovverosia:

  • la presenza della vittima nell’ingiuria;
  • l’assenza della vittima nella diffamazione ma … badate bene … con la contestuale previsione che l’offesa venga fatta alla presenza di più persone (cioè almeno due!).

Senza appesantire troppo il discorso (potete infatti trovare on line una miriade di articoli sull’argomento estremamente dettagliati e che, sono sicuro, possono togliervi ogni possibile dubbio!), cercherò ora di dare una risposta alle domande più frequenti che mi vengono rivolte sull’argomento. Ebbene:

  • considerato che l’oggetto di entrambi i reati è sostanzialmente un’offesa, perché ingiuria e diffamazione vengono punite in modo differente? Beh … a pensarci bene … non potrete che concordare con me sul fatto che l’assenza della vittima nella diffamazione renda tale reato più “insidioso” perché elimina alla radice ogni possibilità che la vittima possa ribattere e difendersi cioè da sola … ecco quindi che la diffamazione “aggredisce” la reputazione della vittima in modo maggiormente invasivo rispetto alla semplice ingiuria e da qui ne deriva il più severo regime sanzionatorio;
  • non rileva la verità del fatto … tali reati cioè si realizzano anche se si attribuisce alla vittima un fatto vero. Anzi, a dirla tutta, attribuire alla vittima un “fatto determinato” [6] inasprisce addirittura il regime sanzionatorio! Mi spiego meglio, se un nostro collega è stato condannato per furto con una sentenza passata in giudicato (per approfondire leggi qui!) e tutti sanno di tale condanna, ciò non ci autorizza comunque a dargli del ladro e anzi, se lo facciamo, rispondiamo ovviamente di ciò che abbiamo detto, perché la verità dell’affermazione non esclude il reato!
  • il codice penale militare di pace prevede dei “temperamenti”. L’articolo 228 del CPMP stabilisce infatti che “nei casi preveduti dall’articolo 226 [cioè in caso di ingiuria], se le offese sono reciproche, il giudice può dichiarare non punibili uno o entrambi gli offensori. Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 226 e 227 [cioè in caso di ingiuria e diffamazione] nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”;
  • è effettivamente vero che, nonostante la “depenalizzazione” del reato ordinario di ingiuria (articolo 594 [7] del codice penale che è stato abrogato dal Decreto Legislativo n. 7 del 2016), la Corte costituzionale abbia comunque mantenuto in vita il reato militare di ingiuria [8] [9] valorizzando quella “specialità” che è l’elemento caratterizzante di tutto l’ordinamento giuridico militare (per approfondire leggi qui!). Oggi funziona quindi grossomodo come segue: il comune cittadino che ingiuria rischia solo una mera sanzione pecuniaria da illecito civile, mentre il militare che ingiuria un altro militare continua invece a rischiare una sanzione penale detentiva che, nel massimo, può arrivare a diversi mesi di reclusione militare (per approfondire leggi qui!);
  • l’ingiuria può realizzarsi non solo attraverso espressioni verbali ma anche attraverso azioni che ledano il decoro della vittima (mi riferisco qui alla cosiddetta ingiuria reale). Non sono difatti mancati casi in cui i Giudici militari hanno ritenuto che, ad esempio, fare gesti sconci, sputare, emettere suoni oltraggiosi o anche solo cospargere il corpo di un collega con del lucido da scarpe, ledendone quindi materialmente il decoro, possano integrare il reato militare di ingiuria. Occhio quindi a fare “scherzi da caserma”: le conseguenze potrebbero essere molto molto serie e sgradevoli!

Un paio di cose prima di concludere:

  • essendo i reati militari di ingiuria (quantomeno nel primo e secondo comma dell’articolo 226 del CPMP) e di diffamazione (per l’ipotesi base prevista al primo comma dell’articolo 227 del CPMP) punibili con la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi, affinché ne possa scaturire un procedimento penale è necessaria la richiesta del Comandante di corpo (per approfondire leggi qui!);
  • dato che la gran parte dei procedimenti penali militari per ingiuria o diffamazione hanno oggi a che fare con fatti occorsi su social network (facebook, instagram, twitter eccetera) o servizi di messaggistica istantanea (tipo whatsapp per intenderci), ho ritenuto utile trattare l’argomento in uno specifico post (per approfondire leggi qui!).

Detto ciò, non mi resta che salutarvi … ad maiora!

TCGC

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[1]: a dire il vero, spesso si abusa anche dei termini di “vilipendio” e “calunnia”. Dato che per il vilipendio troverete su www.avvocatomilitare.com uno specifico post a cui ad ogni buon conto vi rimando (per approfondire leggi qui!), mi concentrerò qui sulla “calunnia”. Ebbene, con tale termine il codice penale “ordinario” punisce la condotta di “chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne o alla Corte penale internazionale, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se s’incolpa taluno di un reato pel quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave. La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo” (art. 368 c.p.). Abbiamo quindi a che fare con un reato molto grave che riguarda sostanzialmente chi denuncia una persona (alla Procura o alla Polizia Giudiziaria, come i Carabinieri, la Guardia di Finanza, la Polizia di Stato o anche al Comandante di corpo/Ufficiale di Polizia Giudiziaria Militare – per approfondire leggi qui!) che sa essere innocente ovvero la “incastra” simulando a suo carico le tracce di un reato … ben diverso quindi dall’ingiuria e dalla diffamazione e del quale non vi è alcuna traccia nel codice penale militare di pace.

[2]: art. 594 c.p. – Ingiuria:“Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a milletrentadue euro, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone”. Tale articolo è stato però abrogato dal Decreto Legislativo n. 7 del 2016 che lo ha depenalizzato. Ciò significa che l’ingiuria non è più un reato ma è diventato un mero illecito civile (detto altrimenti il colpevole non andrà più davanti a un giudice penale!) con sanzioni pecuniarie che vanno oggi dai 100 euro a salire.

[3]: art. 595 c.p.: Diffamazione:“Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.

[4]: a dire il vero, il reato militare di ingiuria viene comunemente integrato tra parigrado. Eccezionalmente, può essere integrato tra militari di grado diverso (quindi tra superiore e inferiore di grado) solo nel caso in cui, per cause estranee al servizio e alla disciplina (di cui all’articolo 199 CPMP), un determinato comportamento non possa essere sanzionabile a titolo di insubordinazione con ingiuria (articolo 189 CPMP – per approfondire leggi qui!) oppure di ingiuria a inferiore (articolo 196 CPMP– per approfondire leggi qui!) … ma preferisco sorvolare sulla questione dato che ci perderemmo in problemi troppo complessi avuto conto del taglio pratico che ho deciso di dare anche a questo post.

[5]: l’“onore”, il “decoro” e la “reputazione” vanno sostanzialmente intesi come valori sociali e morali della persona, propri della dignità dell’uomo (e a maggior ragione del militare!), avuto conto dell’ambiente sociale e del momento storico. Secondo la legge tali valori devono essere preservati da attacchi e aggressioni antisociali anche perché, per quanto di interesse, vanno a ledere (anche solo indirettamente) le esigenze di servizio e di disciplina che sono alla base dell’efficienza dello strumento militare.

[6]: l’art. 596 c.p. prevede al riguardo che “il colpevole del delitto previsto dall’articolo precedente [cioè la diffamazione «ordinaria»] non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa”. Peraltro, tale articolo prevede altresì che:“[…] quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la persona offesa e l’offensore possono, d’accordo, prima che sia pronunciata sentenza irrevocabile, deferire ad un giurì d’onore il giudizio sulla verità del fatto medesimo. Quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la prova della verità del fatto medesimo è però sempre ammessa nel procedimento penale:

  1. se la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni;
  2. se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale;
  3. se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito.

Se la verità del fatto è provata o se per esso la persona, a cui il fatto è attribuito, è [per esso] condannata dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’imputazione non è punibile, salvo che i modi usati non rendano per se stessi applicabile la disposizione dell’articolo 595, comma 1” del codice penale. Preciso che tale ultima previsione:

  • è caduta in quasi totale disuso soprattutto con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (e, in particolare, dell’articolo 21 sulla libera manifestazione del pensiero) che ne ha praticamente eliminato ogni utile margine di operatività;
  • secondo autorevole dottrina sarebbe comunque astrattamente applicabile anche al reato militare di diffamazione di cui all’art. 227 CPMP, sebbene la cosa non sia espressamente prevista per legge.

[7]: art. 594 c.p. – Ingiuria:“Chiunque offende l’onore o il decoro di una p ersona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a milletrentadue euro, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone”. Tale articolo è stato però abrogato dal Decreto Legislativo n. 7 del 2016 che lo ha depenalizzato. Ciò significa che l’ingiuria non è più un reato ma è diventato un mero illecito civile (detto altrimenti il colpevole non andrà più davanti a un giudice penale!) con sanzioni pecuniarie che vanno oggi dai 100 euro a salire.

[8]: la ragione di tale presa di posizione della Corte costituzionale risiede nelle peculiarità proprie dell’Organizzazione militare. In tale contesto, i Giudici costituzionali hanno difatti giustificato la permanenza dell’ingiuria militare nell’area penalmente rilevante (anche se motivata da cause estranee al servizio e alla disciplina militare), in considerazione della necessità di coesione delle Unità militari che è il primo presupposto della funzionalità e dell’efficienza dello strumento militare.

[9]: Corte costituzionale, sentenza 215/2017 – Pres. GROSSI, Red. ZANON.

IL REATO MILITARE DI MINACCIA (ART. 229 CPMP)

Un giovane collega mi ha chiesto dei chiarimenti in merito al reato militare di minaccia. In particolare, mi chiede cosa si intenda per “ingiusto danno” e se possa considerarsi minaccia solo la prospettazione di un futuro danno fisico (siano queste percosse o lesioni non importa – per approfondire leggi qui!) oppure ci possa essere dell’altro. Allora … iniziamo col dire che l’articolo 229 del codice penale militare di pace (CPMP) prevede che “Il militare, che minaccia ad altro militare un ingiusto danno, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a due mesi. Se la minaccia è grave, si applica la reclusione militare fino a sei mesi. Se la minaccia è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339 [1] del codice penale, la pena è della reclusione militare fino a un anno”. Che dire, gli elementi costitutivi del reato militare di minaccia coincidono esattamente con quelli del corrispondente reato comune di cui all’articolo 612 [2] del codice penale. La principale differenza è che per poter parlare di minaccia “militare” è necessario che sia il soggetto attivo (il minacciante, per intendersi!) che il soggetto passivo (cioè il minacciato) siano militari e parigrado. A dire il vero, il reato di minaccia militare potrebbe essere astrattamente integrato anche tra militari di grado diverso quando, per cause estranee al servizio e alla disciplina [3], un determinato comportamento non possa essere sanzionabile a titolo di “insubordinazione con minaccia” (articolo 189 CPMP – per approfondire leggi qui!) oppure di “minaccia a inferiore” (articolo 196 CPMP– per approfondire leggi qui!) … ma preferisco sorvolare sulla questione dato che ci perderemmo in problemi troppo complessi avuto conto del taglio pratico che ho deciso di dare anche a questo post.

Tanto premesso, cerchiamo di procedere ad una rapidissima disamina di alcuni elementi del reato militare di minaccia in modo da potervi offrire alcuni chiarimenti sull’argomento. Ebbene:

  • l’“ingiusto danno” di cui parla il codice altro non è se non l’intimidazione che il minacciante fa al minacciato di un male futuro (contro la legge e cioè non ammesso dall’ordinamento giuridico – per approfondire leggi qui!) per lui stesso o per una persona a questo legata (come, ad esempio, la moglie, il figlio eccetera). L’“ingiusto danno” prospettato deve poi ovviamente poter dipendere, direttamente o indirettamente, dalla volontà del minacciante (pensateci, non è possibile minacciare un collega di qualcosa che non si può fare come, ad esempio, di farlo condannare a morte!) e non è necessariamente “fisico” … come ipotizzava il nostro collega … e mi riferisco, in questo caso, a minacce che qui nella Capitale potrebbero suonare come: “aho, te spacco, te rompo! Te faccio vede io, se vedemo fori!!!”, eccetera. Difatti, la minaccia è penalmente rilevante anche allorquando il minacciante prospetti al minacciato la volontà di lederlo in meri interessi giuridici (quelli cioè ammessi e tutelati dall’ordinamento giuridico – per approfondire leggi qui!) anche diversi dalle mere percosse o lesioni fisiche (per approfondire leggi qui!) … mi spiego meglio, minacciare ad esempio qualcuno di rovinargli la carriera (o di farlo alla relativa moglie, figlio eccetera), di creargli dei problemi … di “fargliela pagare” insomma … può ben integrare il reato militare di minaccia, se questa è ragionevolmente credibile;
  • la “gravità” della minaccia non dipende esclusivamente dal tipo di intimidazione (come può essere ad esempio una minaccia di morte!), ma scaturisce anche dal “turbamento” che determina sul soggetto minacciato, avuto conto anche delle circostanze in cui il reato è stato commesso, nonché dalle qualità dei soggetti coinvolti … deve essere quindi seria, credibile e ragionevolmente verosimile, anche in considerazione di chi la effettua: una cosa è infatti che la minaccia sia di un collega notoriamente “calmo” che ha solo perso le staffe, una cosa ben diversa è invece che la minaccia provenga da un collega notoriamente “attaccabrighe”, che abbia magari scontato pene per reati violenti eccetera. Conseguentemente, durante il processo si terrà conto non solo del tipo di minaccia che è stata fatta, ma anche dei soggetti coinvolti e delle circostanze di tempo e luogo in cui è stata fatta.

Un paio di cosette prima di concludere:

  • la minaccia è di solito verbale ma nulla toglie che possa essere scritta (ad esempio in un messaggio, in una lettera se non sulla parete della casa della vittima) oppure consistere in un gesto (intimidatorio ovviamente!);
  • i meri insulti non sono di per sé minaccia ma rappresentano, qualora ne ricorrano i presupposti, un’ingiuria o una diffamazione (per approfondire leggi qui!);
  • non è necessario che il minacciato sia presente, essendo sufficiente che la minaccia gli pervenga in qualche modo;
  • la giurisprudenza appare orientata e ritenere che il “minacciare” un collega di far valere le proprie ragioni dinnanzi all’Autorità Giudiziaria (cioè, ad esempio, minacciando di denunciarlo!) non sia di norma penalmente rilevante;
  • essendo il reato militare di minaccia normalmente punibile con la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi (quantomeno nei primi due commi), affinché ne possa scaturire un procedimento penale è necessaria la richiesta del Comandante di corpo (per approfondire leggi qui!).

Detto ciò, non mi resta che salutarvi … ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 339 c.p. – Circostanze aggravanti:“Le pene stabilite nei tre articoli precedenti sono aumentate se la violenza o la minaccia è commessa nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte. Se la violenza o la minaccia è commessa da più di cinque persone riunite, mediante uso di armi anche soltanto da parte di una di esse, ovvero da più di dieci persone, pur senza uso di armi [anche se scariche aggiungerei io!], la pena è, nei casi preveduti dalla prima parte dell’articolo 336 e dagli articoli 337 e 338, della reclusione da tre a quindici anni, e, nel caso preveduto dal capoverso dell’articolo 336, della reclusione da due a otto anni. Le disposizioni di cui al secondo comma si applicano anche, salvo che il fatto costituisca più grave reato, nel caso in cui la violenza o la minaccia sia commessa mediante il lancio o l’utilizzo di corpi contundenti o altri oggetti atti ad offendere, compresi gli artifici pirotecnici, in modo da creare pericolo alle persone”.

[2]: art. 612 c.p. – Minaccia:“Chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a 1.032 euro. Se la minaccia è grave o è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339, la pena è della reclusione fino a un anno. Si procede d’ufficio se la minaccia è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339”.

[3]: art. 199 CPMP – Cause estranee al servizio o alla disciplina militare:“Le disposizioni dei capi terzo e quarto non si applicano quando alcuno dei fatti da esse preveduto è commesso per cause estranee al servizio e alla disciplina militare, fuori dalla presenza di militari riuniti per servizio e da militare che non si trovi in servizio o a bordo di una nave militare o di un aeromobile militare”.

I REATI MILITARI DI PERCOSSE E DI LESIONE PERSONALE (ARTT. 222 E 223 CPMP)

Un collega mi ha chiesto di chiarirgli un dubbio: perché il codice penale militare di pace (CPMP) sanziona le percosse e le lesioni … non basta difatti il codice penale “comune” dato che prevede espressamente [1] tali reati? Beh, a prescindere dal fatto che il discorso che sto per fare potrebbe essere allargato anche ad altri reati militari come, ad esempio, quelli di minaccia (per approfondire leggi qui!), di ingiuria o di diffamazione (per approfondire leggi qui!) … possiamo dire che la principale ragione di tale “duplicazione” è la seguente:

  • il codice penale “comune” prevede tali reati a tutela degli interessi “personali” della vittima … detto altrimenti, a tutela di un interesse privato della persona (sono difatti molto spesso perseguibili a querela della persona offesa – per approfondire leggi qui!);
  • il codice penale militare di pace prevede invece tali reati a tutela della compagine militare: la “persona” viene infatti tutelata dal CPMP non in quanto tale ma perché strumento attraverso il quale l’Organizzazione militare persegue i propri fini e interessi … in questo caso la tutela penale viene quindi accordata a tutela di un interesse essenzialmente pubblico! Da qui trova giustificazione anche il fatto che tali reati non sono perseguibili a querela della persona offesa (per approfondire leggi qui!) ma semmai, quando ne ricorrano i presupposti, su richiesta del Comandante di corpo (per approfondire leggi qui!).

Tanto premesso, non essendo tali reati particolarmente complessi da comprendere, mi limito a postare integralmente gli articoli di interesse:

  • articolo 222 del CPMP – Percosse:“Il militare, che percuote altro militare, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione militare fino a sei mesi. Tale disposizione non si applica, quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato”;
  • articolo 223 del CPMP – Lesione personale:“Il militare che, cagiona ad altro militare una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare da due mesi a due anni. Se la malattia ha una durata non superiore ai dieci giorni, e non ricorre alcuna delle circostanze aggravanti prevedute dagli articoli 583 [2] e 585 [3] del codice penale, si applica la reclusione militare fino a sei mesi[4].

Un’ultima cosa prima di concludere: cos’è una “percossa” e in cosa si differenzia da una “lesione”? Percuotere significa colpire, esercitare violenza fisica … detto altrimenti “far male” fisicamente a una persona ma senza provocare alcuna lesione, cioè senza determinare quella che il codice penale definisce una “malattia nel corpo o nella mente”, ovverosia una menomazione funzionale del corpo che possa essere rilevabile com’è ad esempio, nei casi meno gravi, un livido, una contusione, un’ecchimosi eccetera … cose insomma che se andate al pronto soccorso potrebbero giustificare qualche giorno di prognosi (preciso che la “prognosi” altro non è se non una previsione che il medico fa sul decorso/esito della malattia). Ecco quindi che il tirare i capelli, lo schiaffeggiare (anche piano, magari solo per umiliare!) o il “prendere per il collo” in modo tale da causare dolore, sono di solito percosse e non lesioni … in via di estrema approssimazione, possiamo dire che la percossa è dunque una violenza fisica meno grave di una lesione!

Penso di avervi detto quanto basta per inquadrare a grandi linee il problema … non mi resta che salutarvi, ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 581 del codice penale – Percosse:“Chiunque percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente è punito, a querela della persona offesa, salvo che ricorra la circostanza aggravante prevista dall’articolo 61, numero 11-octies), con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 309 […]”;

art. 582 del codice penale – Lesione personale:“Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente , è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti prevedute negli articoli 61, numero 11-octies), 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell’ultima parte dell’articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa”;

art. 583 del codice penale – Circostanze aggravanti:“La lesione personale è grave e si applica la reclusione da tre a sette anni: 1) se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni; 2) se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo; […]. La lesione personale è gravissima, e si applica la reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto deriva: 1) una malattia certamente o probabilmente insanabile; 2) la perdita di un senso; 3) la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella; […]”;

art. 585 del codice penale – Circostanze aggravanti:“Nei casi previsti dagli articoli 582, 583, 583 bis, 583 quinquies e 584, la pena è aumentata da un terzo alla metà, se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’articolo 576, ed è aumentata fino a un terzo, se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’articolo 577, ovvero se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite. Agli effetti della legge penale per armi s’intendono: 1) quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona; 2) tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo. Sono assimilate alle armi le materie esplodenti e i gas asfissianti o accecanti”.

[2]: art. 583 del codice penale – Circostanze aggravanti:“La lesione personale è grave e si applica la reclusione da tre a sette anni: 1) se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o unincapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni; 2) se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo; […]. La lesione personale è gravissima, e si applica la reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto deriva: 1) una malattia certamente o probabilmente insanabile; 2) la perdita di un senso; 3) la perdita di un arto, o una mutilazione che renda larto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella; […]”.

[3]: art. 585 del codice penale – Circostanze aggravanti:“Nei casi previsti dagli articoli 582, 583, 583 bis, 583 quinquies e 584, la pena è aumentata da un terzo alla metà, se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’articolo 576, ed è aumentata fino a un terzo, se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’articolo 577, ovvero se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite. Agli effetti della legge penale per armi s’intendono: 1) quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona; 2) tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo. Sono assimilate alle armi le materie esplodenti e i gas asfissianti o accecanti”.

[4]: articolo 224 del CPMP – Lesione personale grave o gravissima:“Se la lesione personale, commessa dal militare a danno di altro militare, è grave, si applica la reclusione da due a sette anni. Se la lesione personale è gravissima, si applica la reclusione da cinque a dodici anni”.

CHE VALORE HA IL PRECEDENTE GIUDIZIARIO?

Da molte delle e-mail che mi arrivano (ormai) quotidianamente, noto sempre più spesso l’abitudine che alcuni lettori di www.avvocatomilitare.com hanno di citare in modo disinvolto sentenze della Cassazione, del Consiglio di Stato, del tal Tribunale eccetera. Ieri mattina, ad esempio, un collega appartenente ad un Sindacato militare, nel chiedere chiarimenti su un argomento pensionistico mi ha citato una sentenza della Corte dei Conti in modo molto insistente, quasi fosse una legge approvata dal Parlamento! Mi è dunque sorto un dubbio: avete idea del valore che ha nel nostro Paese il precedente giudiziario? Per capirlo cerchiamo di dare una risposta alla seguente domanda: la sentenza emessa da un Giudice su una determinata questione è in qualche modo vincolante per un secondo Giudice che – in un momento successivo – è stato chiamato a sentenziare su un caso simile? La questione è tutt’altro che banale, in considerazione della pesante influenza che deriva dai telefilm americani (dove però la giustizia funziona molto diversamente!) e, soprattutto, del fatto che attribuire a un precedente giudiziario un valore che nella realtà (giuridica) non ha, può risultare fuorviante, portarci cioè fuori strada … e di molto!

Iniziamo ad affrontare il problema dicendo che, in Italia:

  • i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (articolo 101 della Costituzione) ed è proprio nell’atto di interpretarla e applicarla a un caso concreto che scaturiscono molteplici conflitti interpretativi;
  • il precedente giudiziario non è una fonte del diritto [1]. In tal senso la Costituzione (che non prende minimamente in considerazione il precedente!), nonché l’articolo 1 delle “disposizioni sulla legge in generale” o “disposizioni preliminari al codice civile” (le cosiddette “preleggi” [2]);
  • le sentenze svolgono esclusivamente la funzione di dirimere le controversie fra le parti (quelle cioè che grossomodo partecipano al processo [3]) e non, come accade invece in alcuni Paesi [4], quella di introdurre nell’ordinamento giuridico (per approfondire leggi qui!) nuovi principi di diritto vincolanti per tutti.

Da quanto precede, possiamo affermare che in Italia un Giudice è libero decidere in autonomia, a prescindere da quanto altri giudici hanno sentenziato in passato su casi simili.

Perché allora sentiamo spesso dire alla radio o alla televisione che la Cassazione ha stabilito una tal cosa oppure che il Consiglio di Stato ha interpretato una legge in una determinata maniera? Beh … a prescindere dall’autorevolezza indiscussa delle sentenze della Corte di Cassazione o del Consiglio di Stato, ogni ordinamento giuridico (per approfondire leggi qui!) tende alla propria stabilità, in ossequio al principio di “certezza del diritto” [5]. Noi tutti abbiano difatti bisogno di certezza giuridica: abbiamo cioè il sacrosanto diritto di sapere in anticipo quali possano essere le possibili conseguenze legali delle nostre azioni o delle nostre scelte, senza doverci per forza piegare ai mutamenti (spesso repentini) della giurisprudenza. Da tale sentita esigenza deriva il fatto che l’“autonomia” del Giudice nel decidere, proprio quella a cui abbiamo fatto riferimento poco sopra, si è negli anni incrinata al punto da non essere oggigiorno poi così assoluta [6] come molti credono. La cosa risulta ancor più evidente se consideriamo poi che:

  • quando un caso simile è stato oggetto di una precedente sentenza dalla motivazione persuasiva, convincente e solida dal punto di vista logico-giuridico (ancor più se emessa da una Corte autorevole coma la Cassazione), è difficile che non venga esaminata, citata e presa quindi in considerazione … e la cosa vale ovviamente non solo per noi tutti, ma anche per i Giudici, gli Avvocati e gli operatori del diritto in generale;
  • la Corte Suprema di Cassazione non si limita a decidere ma svolge anche la cosiddetta funzione “nomofilattica” [7] che, per quanto di interesse, si concretizza nel perseguimento di un’uniforme interpretazione della legge su tutto il territorio nazionale [8]. Difatti, l’articolo 65 dell’Ordinamento giudiziario (Regio Decreto n. 12 del 1941) prevede che “la corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità, del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge”.

Ovviamente quanto appena detto delinea solo una tendenza di fondo del nostro sistema giuridico che, in un certo senso, si sta lentamente avvicinando alla realtà processuale che vediamo nei telefilm americani. Non me ne vogliano i colleghi giuristi ma mi sto ora rivolgendo a chi giurista non è … ricordate la teoria della “tettonica a zolle” che si studiava alle scuole medie? Certo che sì … quella teoria secondo la quale sulla crosta terrestre ci sono delle “placche” che sostanzialmente “galleggiano” sul mantello terrestre e che effettuano dei movimenti impercettibili che, con lo scorrere degli anni, determinano fenomeni geofisici quali i terremoti, l’orogenesi eccetera. Pensate che a livello giuridico le cose funzionano grossomodo così: i sistemi giuridici di civil law (come sono quello tedesco, francese o italiano dove, come abbiamo visto, il precedente giudiziario non è vincolante come una legge!) si stanno progressivamente avvicinando a quelli di common law (quello statunitense o quello britannico per intenderci, dove il precedente giudiziario è invece fonte del diritto!). Nonostante tale tendenza sia sotto gli occhi di tutti, nella sostanza però oggi in Italia il precedente giudiziario, seppur autorevole, non è autoritativo … detto altrimenti non ha ancora acquisito una cogenza apprezzabile, tale cioè da renderlo obbligatorio e vincolante!

Certo ci sarebbe molto altro da dire ma preferisco fermarmi … se siete poi arrivati a legger fino a qui significa che ho in qualche modo solleticato la vostra curiosità … e questa è una cosa più che positiva! Potete dunque continuare ad approfondire le sentenze che trovate on line, ma nella consapevolezza del reale valore legale di cui esse sono portatrici nel nostro ordinamento giuridico! So benissimo che abbiamo affrontato un argomento complesso, ma solo affrontando i problemi complessi si cresce e si evita di uscire fuori strada … ecco perché vi lascio con questo aforisma di Harlan Ellison … “Non si ha il diritto di avere una opinione. Si ha il diritto [e il dovere, aggiungerei io!] di avere un’opinione informata”.

Ad maiora!

TCGC

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[1]: tale concetto è magistralmente spiegato nell’enciclopedia Treccani a cui vi invito a dare quantomeno un’occhiata (per approfondire leggi qui!).

[2]: articolo 1 delle “preleggi”- Indicazione delle fonti:“sono fonti del diritto: 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) abrogato 4) gli usi”.

[3]: in tal senso art. 2909 del codice civile in base al quale “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.

[4]: nei sistemi di common law, come sono ad esempio quello statunitense o quello britannico, il precedente giudiziario la fa infatti da padrone: diversamente da quanto accade in Italia è infatti una fonte del diritto in tutto e per tutto, assimilabile alla legge e, conseguente, che innova il diritto ed pienamente vincolante per il futuro. Ciò significa che il Giudice che deve decidere su un caso deve preliminarmente cercare un precedente giudiziario che risolva la questione e, nel caso che tale precedente esista, ha il dovere di attenervisi obbligatoriamente!

[5]: principio magistralmente spiegato nell’enciclopedia Treccani a cui vi invito a dare quantomeno un’occhiata (per approfondire leggi qui!).

[6]: Considerate, ad esempio, che:

  • quando la Cassazione accoglie un ricorso decidendo nel merito (per approfondire leggi qui!) e rinviando la causa ad un altro giudice, quest’ultimo “deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte” (articolo 384 del codice di procedura civile);
  • il ricorso in Cassazione è inammissibile “quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa” (articolo 360 del codice di procedura civile);
  • se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso” (articolo 374 del codice di procedura civile).

[7]: funzione che, entro certi limiti, viene svolta anche dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato e dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti per le materie di propria competenza.

[8]: peraltro, in una notissima sentenza, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono arrivate a “includere nel concetto di nuovo «elemento di diritto», […] anche il mutamento giurisprudenziale che assume, specie a seguito di un intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, carattere di stabilità e integra il «diritto vivente»” (SSUU sentenza n. 18288 del 13 maggio 2010).

LE INCHIESTE MILITARI PER EVENTI DI PARTICOLARE GRAVITÀ O RISONANZA: L’INCHIESTA SOMMARIA E L’INCHIESTA FORMALE

Con le inchieste sommarie e le inchieste formali vengono accertate le cause che hanno determinato eventi di particolare gravità o risonanza in modo che l’Amministrazione possa adottare le contromisure idonee ad evitare il ripetersi di tali accadimenti e sanzionare gli eventuali responsabili. In tal senso, l’articolo 530 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM) che prevede infatti che “il Ministero della difesa dispone le inchieste sommarie e formali volte ad accertare le cause soggettive e oggettive che hanno determinato eventi di particolare gravità o risonanza nell’ambito dell’Amministrazione della difesa, allo scopo di valutare l’opportunità di adottare le misure correttive di carattere organizzativo o tecnico necessarie a evitare il ripetersi degli eventi dannosi e di dare l’avvio ai procedimenti rivolti a individuare eventuali responsabilità penali, disciplinari, amministrative, in merito alla causazione dell’evento”.

Tanto premesso, il Decreto del Presidente della Repubblica n. 90 del 2010 “Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare(cosiddetto TUOM) chiarisce alcuni aspetti fondamentali della questione e, in particolare:

1. la differenza tra inchiesta sommaria e inchiesta formale, rilevando che “si intendono per:

  • inchieste sommarie quelle disposte nell’immediatezza dell’evento e condotte secondo modalità semplificate, anche allo scopo di evitare la dispersione degli elementi utili per gli eventuali ulteriori accertamenti [1];
  • inchieste formali quelle disposte quando la gravità dell’evento richiede nell’immediato un approfondito esame, ovvero sia necessario, sulla base dei risultati dell’inchiesta sommaria, esperire indagini più articolate e complesse, al fine di accertare le cause dell’evento” (articolo 552 TUOM);

2. la nozione di evento di particolare gravità o risonanza, chiarendo che tali sono da considerarsi:

  • gli avvenimenti dannosi che interessano personale, mezzi o beni del Ministero della difesa, quali, a titolo esemplificativo, incidenti e infortuni rilevanti connessi all’impiego operativo, all’attività addestrativa e comunque al servizio, furti, smarrimenti o danneggiamenti di materiali e apparati particolarmente delicati e importanti, come a esempio armi e munizionamenti, ed eventi relativi alla situazione sanitaria nei reparti;
  • gli accadimenti che potrebbero avere riflessi negativi sull’opinione pubblica per la loro delicatezza o per il numero di persone coinvolte;
  • i sinistri marittimi, intesi come qualsiasi evento dannoso accaduto, in navigazione o in porto, a unità navali appartenenti all’Amministrazione della difesa o a persone o beni a bordo (articolo 553 TUOM) [2] ”.

A) L’INCHIESTA SOMMARIA

Ai sensi dell’articolo 557 del TUOM, l’Autorità competente ad ordinare l’inchiesta sommaria [3]nomina, entro quindici giorni dal ricevimento della notizia dell’evento, un ufficiale inquirente per l’esecuzione dell’inchiesta”. Il successivo articolo 559 del TUOM ci chiarisce poi a cosa consista tale inchiesta, ovverosia:“a) nell’acquisizione della relazione del comandante di corpo, ovvero del titolare del comando, ente, unità o ufficio interessati all’evento; b) nella raccolta di tutte le notizie relative all’evento quali: località, data, ora, circostanze, generalità del personale coinvolto, beni della difesa interessati dall’evento, dinamica e probabili cause, provvedimenti adottati, eventuali interventi dell’autorità giudiziaria, documenti o altri mezzi di prova, nonché ogni altro elemento di informazione utile; c) nella raccolta di dichiarazioni testimoniali di personale militare e civile della Difesa, nonché di persone estranee all’Amministrazione della difesa in grado di fornire notizie utili ai fini dell’inchiesta, le cui attestazioni sono verbalizzate a cura dell’ufficiale inquirente e sottoscritte dal dichiarante; d) nella compilazione di un rapporto riassuntivo dell’evento, recante i risultati delle indagini e le considerazioni sulle cause dell’evento”. Tale “rapporto riassuntivo dell’evento” deve essere inviato, entro 90 giorni, all’Autorità che ha ordinato l’esecuzione dell’inchiesta sommaria che a sua volta lo trasmetterà nei successivi 30 giorni, corredato di un proprio motivato parere e l’indicazione degli eventuali provvedimenti adottati, allo Stato Maggiore della Difesa, al Segretariato Generale della Difesa, allo Stato Maggiore di Forza Armata ovvero al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri a seconda dell’area di appartenenza dell’Ente coinvolto nell’evento negativo (articolo 560 [4] TUOM).

B) L’INCHIESTA FORMALE

Ai sensi dell’articolo 561 del TUOM, successivamente all’inchiesta sommaria (ovvero a volte anche a prescindere da questa), può essere disposta una inchiesta formale qualora [5]:

  • dall’inchiesta sommaria non siano emerse le cause dell’evento;
  • si sia verificato un evento grave o gravissimo che abbia determinato la morte, lesioni gravi o gravissime a persone ovvero la perdita o il grave danneggiamento di beni di rilevante valore o particolare importanza [6] ;
  • venga ritenuto opportuno procedere ad una inchiesta formale in ragione della rilevanza degli eventi (e questo, quindi, anche in assenza di una preventiva inchiesta sommaria!).

A differenza di quanto avviene per le inchieste sommarie, l’inchiesta formale non viene eseguita da un singolo Ufficiale inquirente, bensì da una Commissione d’inchiesta formale che, ai sensi dell’articolo 563 del TUOM:

  • è costituita da “a) un presidente di grado superiore o, se pari grado, più anziano del comandante di corpo o titolare del comando, ente, unità o ufficio presso cui si è verificato l’evento; b) due o quattro membri di grado superiore o, se pari grado, più anziani del comandante di corpo o del titolare del comando, ente, unità o ufficio presso cui si è verificato l’evento, di cui uno con funzioni di segretario”;
  • ha facoltà di avvalersi, qualora ritenuto utile ai fini dell’inchiesta, di personale appartenente all’Amministrazione della difesa, ovvero di consulenti tecnici esterni […]”;
  • procede: a) all’esame degli atti dell’inchiesta sommaria, ove precedentemente effettuata; b) all’esecuzione di accertamenti, rilievi e sopralluoghi, qualora necessari anche esterni rispetto all’ente o al reparto presso cui si è verificato l’evento; c) all’acquisizione di eventuali ulteriori documenti e dichiarazioni testimoniali di personale militare e civile della Difesa, nonché di persone estranee all’Amministrazione della difesa; d) all’esame delle relazioni dei consulenti, qualora nominati; e) all’effettuazione di ogni altra attività ritenuta utile ai fini dell’inchiesta”;
  • conclude i propri lavori con “con un rapporto finale, corredato di tutta la documentazione acquisita agli atti, contenente: a) una circostanziata ricostruzione dell’evento; b) deduzioni, considerazioni di ordine giuridico e tecnico; motivazioni; c) il parere chiaro ed esplicito sulle cause che hanno provocato l’evento; d) data e sottoscrizione di tutti i componenti della commissione”.

Infine, ai sensi del successivo articolo 564 [7] del TUOM, entro 120 giorni la Commissione “rimette all’autorità che ha ordinato l’inchiesta gli atti conclusivi dell’inchiesta formale, la quale adotta, entro 180 giorni (badate bene … decorrenti dal momento in cui l’inchiesta formale è stata disposta), “con decisione motivata, i provvedimenti ritenuti necessari”.

Se siete arrivati a leggere fino a questo punto, credo che abbiate inquadrato l’argomento in modo sufficientemente chiaro … non mi resta quindi che salutarvi, ad maiora!

TCGC

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[1]: per quanto attiene specificamente alle inchieste sommarie, l’articolo 555 TUOM stabilisce inoltre che, nell’immediatezza dell’evento, “i comandanti di corpo, i titolari di comandi, enti, unità o uffici nel cui ambito si è verificato l’evento di particolare gravità o risonanza, provvedono a:

a) impedire la dispersione o alterazione di cose, documenti e in genere di tutti gli elementi utili per i successivi adempimenti;

b) dare tempestiva comunicazione dell’evento, attraverso la linea gerarchica, all’autorità competente a disporre l’inchiesta sommaria, ai sensi dell’articolo 556, comma 1, nonché allo Stato maggiore della difesa, per gli eventi occorsi nell’area tecnico-operativa, o al Segretariato generale della difesa, per gli eventi verificatisi nell’area tecnico-amministrativa e tecnico-industriale;

c) redigere una relazione tecnica, recante l’indicazione delle circostanze in cui si è verificato l’evento, della dinamica di svolgimento dei fatti, dei provvedimenti adottati, nonché le eventuali valutazioni, trasmettendola, entro cinque giorni, all’autorità competente a disporre l’inchiesta sommaria, di cui alla lettera b), per la medesima via gerarchica, ovvero entro dieci giorni per gli eventi verificatisi nel corso di operazioni all’estero;

d) inoltrare, se l’evento si è verificato nell’ambito di operazioni o esercitazioni internazionali, multinazionali o NATO a carattere interforze, la comunicazione di cui alla lettera b) anche allo Stato maggiore della Forza armata o al Comando generale dell’Arma di carabinieri a cui appartengono il personale, i beni o i mezzi coinvolti”.

[2]: non sono considerati eventi di particolare gravità e risonanzagli incidenti automobilistici, nei quali sono rimasti coinvolti automezzi isolati e che non hanno comportato gravi lesioni fisiche o perdite di vite umane” (art. 530, comma 3, del COM).

[3]: ai sensi dell’articolo 556 del TUOM, sono competenti ad ordinare l’inchiesta sommaria:

a) il Capo di stato maggiore della difesa quando: 1) gli eventi sono avvenuti nell’ambito di enti e organismi, in Italia o all’estero, dipendenti direttamente dalla predetta autorità o dal Sottocapo di stato maggiore della difesa o dal Comandante del Comando operativo di vertice interforze; 2) gli eventi sono avvenuti nell’ambito di operazioni, missioni o esercitazioni per le quali tale autorità esercita o ha delegato le funzioni di comando e controllo;

b) il Segretario generale della difesa, quando gli eventi sono avvenuti nell’ambito del Segretariato generale;

c) i superiori gerarchici del comando, ente, unità e ufficio coinvolti nell’evento, il cui livello ordinativo è individuato, in via generale, con decreto del Ministro della difesa, in base all’assetto organizzativo delle aree tecnico-operativa, tecnico-amministrativa e tecnico-industriale del Ministero della difesa, nonché alla capacità ad acquisire, con la necessaria tempestività, gli elementi necessari per valutare l’opportunità di disporre l’inchiesta sommaria e ad adottare o proporre le misure correttive, sulla base dei risultati dell’indagine, fermo restando quanto disposto dal codice della navigazione in materia di sinistri marittimi […]” (art. 556 del TUOM).

[4]: art. 560 del TUOM – Invio degli atti dell’inchiesta sommaria:

1. Gli atti dell’inchiesta sommaria sono inviati, al più presto e comunque entro novanta giorni dalla data in cui è stata disposta, all’autorità che ne ha ordinato l’esecuzione e da questa trasmessi, nei successivi trenta giorni, con motivato parere e con l’indicazione degli eventuali provvedimenti adottati, allo Stato maggiore della difesa, al Segretariato generale della difesa, agli Stati maggiori di Forza armata, ovvero al Comando generale dell’Arma dei carabinieri, in relazione all’area di appartenenza del Comando, ente, unità o ufficio presso i quali si è verificato l’evento.

2. Lo Stato maggiore della difesa, il Segretariato generale, gli Stati maggiori di Forza armata e il Comando generale dell’Arma dei carabinieri, ricevuti gli atti dell’inchiesta sommaria, procedono al loro esame da concludersi, con decisione motivata dell’autorità di vertice dei predetti organismi, entro centocinquanta giorni dalla data in cui essa è stata disposta. Tale autorità di vertice può ordinare, se ritenuto necessario, l’esecuzione di ulteriori indagini, i cui risultati sono valutati entro i successivi trenta giorni.

3. Una sintetica scheda informativa sugli esiti dell’inchiesta sommaria è inviata, senza ritardo, a cura dei citati Stati maggiori o del Segretariato generale o del Comando generale dell’Arma dei carabinieri, al Ministro della difesa. Gli Stati maggiori di Forza armata e il Comando generale dell’Arma dei carabinieri informano, altresì, degli esiti dell’inchiesta lo Stato maggiore della difesa”.

[5]: art. 561 del TUOM – Autorità competenti a ordinare l’inchiesta formale:

1. Sulla base delle risultanze dell’inchiesta sommaria, il Capo di stato maggiore della difesa, il Segretario generale della difesa, i Capi di stato maggiore di Forza armata e, per l’Arma dei carabinieri, il Comandante generale, se lo ritengono necessario ai fini dell’accertamento delle cause dell’evento, dispongono con provvedimento motivato la nomina della commissione d’inchiesta formale.

2. L’inchiesta formale è sempre disposta nel caso di evento grave che abbia comportato la perdita di vite umane o lesioni gravi o gravissime a una o più persone, ovvero perdite o grave danneggiamento di beni di rilevante valore o di particolare importanza, salvo il caso in cui appaia evidente, dall’esito dell’inchiesta sommaria, che l’evento si è verificato in conseguenza di caso fortuito o di forza maggiore, ovvero che l’autorità competente a ordinare l’inchiesta formale abbia verificato che l’inchiesta sommaria svolta ha compiutamente esaurito ogni possibile accertamento.

3. L’inchiesta formale può essere disposta anche in mancanza di una precedente inchiesta sommaria, se le autorità di cui al comma 1, valutano opportuno, in relazione alla natura e alla gravità dei fatti da accertare, avvalersi della commissione di inchiesta formale. Tale facoltà può essere esercitata esclusivamente dal Capo di stato maggiore della difesa quando gli eventi sono avvenuti nell’ambito di operazioni, missioni o esercitazioni per le quali esercita o ha delegato le funzioni di comando e controllo.

4. L’autorità che dispone l’inchiesta fissa il termine, non superiore a centoventi giorni, per la conclusione dei lavori della commissione. Il termine di conclusione dell’inchiesta formale è di centottanta giorni, a decorrere dalla data in cui è disposta”.

[6]: tranne ovviamente nel caso in cui, a seguito dell’inchiesta sommaria, non risulti possibile esperire alcun ulteriore accertamento/verifica ovvero sia stato dimostrato che l’evento si è verificato per caso fortuito o forza maggiore.

[7]: art. 564 del TUOM – Invio degli atti dell’inchiesta formale:

1. Nei termini di cui all’articolo 561, comma 4, la commissione rimette all’autorità che ha ordinato l’inchiesta gli atti conclusivi dell’inchiesta formale, la quale adotta, con decisione motivata, i provvedimenti ritenuti necessari.

2. Una dettagliata scheda informativa sugli esiti dell’inchiesta formale è inviata, senza ritardo, a cura degli Stati maggiori o del Segretariato generale o del Comando generale dell’Arma dei carabinieri, al Ministro della difesa. Gli Stati maggiori di Forza armata e il Comando generale dell’Arma dei carabinieri informano, altresì, degli esiti dell’inchiesta lo Stato maggiore della difesa”.

L’INCHIESTA DI SICUREZZA MILITARE

L’inchiesta di sicurezza è quel tipo di inchiesta che viene condotta a seguito della “compromissione” [1] di una informazione classificata [2] (non quindi al verificarsi di una mera “violazione” delle norme poste a poste a tutela delle informazioni classificate [3]) e, cioè, allorquando tale informazione perviene a un soggetto non autorizzato, non in possesso di adeguato “nulla osta di sicurezza” (cosiddetto NOS [4] – per approfondire leggi qui!) oppure che non abbia la necessità di conoscerla. In tale eventualità, in analogia a quanto sostanzialmente avviene per le altre inchieste militari, vengono approfonditi i fatti in modo accertare il danno [5] verificatosi (tentando eventualmente di limitarlo!), adottare nell’immediatezza i provvedimenti che ne scongiurino il ripetersi ed individuare i possibili responsabili prevedendo anche, in considerazione dei possibili reati che possano essere stati commessi, l’intervento dell’Arma dei Carabinieri. Se mai entrerete a far parte dell’Organizzazione nazionale di sicurezza [6] verrete adeguatamente indottrinati sulle specifiche procedure da adottare per condurre un’inchiesta di sicurezza ma, fino ad allora, non potete far altro che accontentarvi dei contenuti di questo postad maiora!

TCGC

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[1]: la “compromissione di informazioni classificate” è, ai sensi del D.P.C.M. “Disposizioni per la tutela amministrativa del segreto di Stato e delle informazioni classificate e a diffusione esclusiva” (Decreto n. 5/2015), «la conseguenza negativa di violazione della sicurezza che deriva dalla conoscenza di informazioni classificate o coperte da segreto di Stato da parte di persona non autorizzata ovvero non adeguatamente abilitata ai fini della sicurezza o che non abbia la necessità di conoscerle».

[2]: l’“informazione classificata” è, ai sensi del D.P.C.M. “Disposizioni per la tutela amministrativa del segreto di Stato e delle informazioni classificate e a diffusione esclusiva” (Decreto n. 5/2015), «ogni informazione, atto, attività, documento, materiale o cosa, cui sia stata attribuita una delle classifiche di segretezza previste dall’art. 42, comma 3, della legge» n. 124 del 2007, ovverosia «segretissimo, segreto, riservatissimo, riservato» (per approfondire leggi qui!).

[3]: si parla invece di “violazione” allorquando si verifica una mera violazione delle norme poste a tutela delle informazioni classificate. In tal senso, il D.P.C.M. “Disposizioni per la tutela amministrativa del segreto di Stato e delle informazioni classificate e a diffusione esclusiva” (Decreto n. 5/2015) che definisce «“Violazione della sicurezza” [le] azioni od omissioni contrarie ad una disposizione in materia di protezione e tutela delle informazioni classificate o coperte da segreto di Stato, che potrebbero mettere a repentaglio o compromettere le informazioni stesse».

[4]: il “nulla osta di sicurezza” (NOS) è, ai sensi del D.P.C.M. “Disposizioni per la tutela amministrativa del segreto di Stato e delle informazioni classificate e a diffusione esclusiva” (Decreto n. 5/2015), «il provvedimento che legittima alla trattazione di informazioni classificate SEGRETISSIMO, SEGRETO o RISERVATISSIMO coloro che hanno la necessità di conoscerle».

[5]: il danno ovviamente è quello alla sicurezza dello Stato che deriva dalla rivelazione non autorizzata dell’informazione classificata.

[6]: l’“Organizzazione nazionale di sicurezza” è, ai sensi del D.P.C.M. “Disposizioni per la tutela amministrativa del segreto di Stato e delle informazioni classificate e a diffusione esclusiva” (Decreto n. 5/2015), «il complesso di Organi, Uffici, unità amministrative, organizzative, produttive o di servizio della Pubblica amministrazione e di ogni altra persona giuridica, ente, associazione od operatore economico legittimati alla trattazione di informazioni classificate, a diffusione esclusiva o coperte da segreto di Stato, le cui finalità consistono nell’assicurare modalità di gestione e trattazione uniformi e sicure, nonché protezione ininterrotta alle informazioni classificate, a diffusione esclusiva o coperte da segreto di Stato».

I RAPPORTI TRA IL PROCEDIMENTO PENALE E QUELLO DISCIPLINARE: IL RINVIO E LA SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE MILITARE (LA C.D. PREGIUDIZIALE PENALE)

Si può aprire un procedimento disciplinare (per approfondire leggi qui!) nei confronti di un militare che è contemporaneamente sottoposto a procedimento penale? La risposta è si, quantomeno a partire dal 2015 [1]! L’articolo 1393 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare(cosiddetto COM) stabilisce oggi infatti che “il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è avviato, proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni disciplinari di maggiore gravità, punibili con la consegna di rigore di cui all’articolo 1362 o con le sanzioni disciplinari di stato di cui all’articolo 1357, l’autorità competente, solo nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al militare, ovvero qualora, all’esito di accertamenti preliminari, non disponga di elementi conoscitivi sufficienti ai fini della valutazione disciplinare, promuove il procedimento disciplinare al termine di quello penale. Il procedimento disciplinare non è comunque promosso e se già iniziato è sospeso fino alla data in cui l’Amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza o del decreto penale irrevocabili, che concludono il procedimento penale, ovvero del provvedimento di archiviazione, nel caso in cui riguardi atti e comportamenti del militare nello svolgimento delle proprie funzioni, in adempimento di obblighi e doveri di servizio […]”.

Per quanto precede, a differenza di quanto avveniva passato [2], la regola generale da seguire oggi è quindi che il procedimento disciplinare che abbia a oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’Autorità giudiziaria, venga proseguito e concluso anche in pendenza di procedimento penale. È cioè venuta meno la cosiddetta “pregiudiziale [3] penale”!

Tale regola generale conosce, però, due rilevanti eccezioni che hanno come presupposto:

  1. le infrazioni di “maggiore gravità” (quelle che possono cioè teoricamente portare all’irrogazione di una sanzione di stato o della consegna di rigore – per approfondire leggi qui!) per le quali sia particolarmente complesso l’accertamento dei fatti e delle responsabilità ovvero quando l’Amministrazione versi nell’indisponibilità di elementi conoscitivi;
  2. gli atti e comportamenti compiuti dal militare nello svolgimento delle proprie funzioni, in adempimento di obblighi e doveri di servizio.

Da quanto detto sino ad ora emerge chiaramente che per le infrazioni di minore gravità (quelle cioè che possono in teoria portare all’irrogazione di una mera sanzione di corpo diversa dalla consegna di rigore) o per quelle estranee al rapporto di servizio, non è ammessa alcuna sospensione o rinvio del procedimento disciplinare!

La procedura da seguire è abbastanza semplice e, quantomeno per Esercito, Marina Militare e Aeronautica Militare, prevede che il Comandante di corpo che vuole rinviare o sospendere il procedimento disciplinare rediga una relazione sui fatti con proposta motivata di rinvio dell’esame disciplinare che trasmette all’Autorità competente ai sensi dell’art. 1378 COM [4] [5]. È poi quest’ultima che dispone il rinvio del procedimento disciplinare ovvero, se questo ha già avuto inizio, ne ordina la sospensione.

Un’ultima cosa prima di concludere e se poi il militare viene assolto? Beh, questi potrà proporre istanza di riapertura del procedimento disciplinare, entro il termine di decadenza di 6 mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale [6] e, a questo punto, l’Autorità competente a riaprire il procedimento disciplinare potrà, in relazione all’esito del giudizio penale, modificarne o confermarne l’atto conclusivo (cioè il provvedimento disciplinare).

TCGC

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[1]: difatti la legge n. 124 del 7 agosto 2015 e, successivamente, il Decreto Legislativo n. 91 del 26 aprile 2016, riformando l’art. 1393 del COM, hanno modificato anche nell’Ordinamento militare il rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale.

[2]: il “vecchio” art. 1393 prevedeva difatti che: “se per il fatto addebitato al militare è stata esercitata azione penale […] il procedimento disciplinare non può essere promosso fino al termine di quello penale […] e, se già iniziato, deve essere sospeso”.

[3]: il termine “pregiudiziale” significa infatti, secondo il vocabolario Treccani, quella questione che deve essere trattata, esaminata, decisa prima di deliberare intorno a qualsiasi altra azione o decisione (per approfondire leggi qui!).

[4]: l’Autorità competente ai sensi dell’art. 1378 COM, quella cioè che ha il potere di rinviare o sospendere il procedimento, è quella competente a ordinare l’inchiesta formale che, per quanto di interesse, si identifica nella stragrande maggioranza dei casi nel Comandante “di Forza Armata, di livello gerarchico pari a generale di Corpo d’Armata o gradi corrispondenti”.

[5]: per gli appuntati e carabinieri in servizio le cose sono leggermente differenti. La competenza a rinviare/sospendere il procedimento disciplinare spetta difatti “ai rispettivi comandanti di corpo […], o in caso diverso o in mancanza di tale dipendenza, al comandante territoriale di corpo competente in ragione del luogo di residenza dell’interessato. In caso di corresponsabilità tra più appuntati e carabinieri provvede il comandante di corpo del più elevato in grado o del più anziano”.

[6]: art. 1393 COM:“[…] 2. Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l’irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale è definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il militare non lo ha commesso, l’autorità competente, ad istanza di parte, da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale”. L’art. 1393 COM prevede, inoltre, che nel caso in cui “il procedimento disciplinare si conclude senza l’irrogazione di sanzioni e il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’autorità competente riapre il procedimento disciplinare per valutare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare può comportare la sanzione di stato della perdita del grado per rimozione, ovvero la cessazione dalla ferma o dalla rafferma, mentre è stata irrogata una diversa sanzione”.

LA NOZIONE DI “LUOGO MILITARE” NEL CODICE PENALE MILITARE DI PACE

Quando può parlarsi di “luogo militare” ai fini dell’applicazione della legge penale militare? Iniziamo col dire che, come abbiamo spesso avuto modo di vedere in altri post presenti su avvocatomilitare.com, è tutto scritto … basta sapere dove andare a cercare! In questo caso ci viene in aiuto l’articolo 230 [1] del codice penale militare di pace (CPMP) che, sebbene disciplini il reato di “furto militare”, ci chiarisce che “agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di luogo militare si comprendono le caserme, le navi, gli aeromobili, gli stabilimenti militari e qualunque altro luogo, dove i militari si trovano, ancorché momentaneamente, per ragione di servizio”. Ebbene, a prescindere dai luoghi militari che sono evidenti … mi riferisco a caserme, aeromobili, navi o stabilimenti militari … tale articolo è interessante perché ci chiarisce che è altresì luogo militare “[…] qualunque altro luogo, dove i militari si trovano, ancorché momentaneamente, per ragione di servizio”. Ciò implica che i luoghi militari possano essere i più disparati come, ad esempio, un seggio elettorale (per i militari che vi svolgono servizio durante le elezioni), l’autovettura di servizio in uso a una pattuglia della Guardia di Finanza, il bivacco allestito in un bosco nel corso di una esercitazione eccetera. Ritenendo di aver esaurito l’argomento, non mi resta che salutarvi … ad maiora

TCGC

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[1]: art. 230 del CPMP – Furto militare: “Il militare, che, in luogo militare, si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola ad altro militare che la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione militare da due mesi a due anni. Se il fatto è commesso a danno della amministrazione militare, la pena è della reclusione militare da uno a cinque anni. La condanna importa la rimozione. Agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di luogo militare si comprendono le caserme, le navi, gli aeromobili, gli stabilimenti militari e qualunque altro luogo, dove i militari si trovano, ancorché momentaneamente, per ragione di servizio”.

COS’È LA CONSEGNA MILITARE?

Un collega mi chiede di chiarire un concetto semplice quanto complesso allo stesso tempo: la consegna. Beh … ai sensi dell’articolo 730 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 90 del 2010 “Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare” (cosiddetto TUOM), “la consegna è costituita dalle prescrizioni generali o particolari, permanenti o temporanee, scritte o verbali impartite per l’adempimento di un particolare servizio […]”.Tutto chiaro? … Sicuri? Allora vi faccio una domanda che sicuramente incrinerà alcune delle vostre certezze: in cosa la consegna si distingue da un ordine o dal semplice conferimento di un incarico? La domanda non è banale e merita un approfondimento, soprattutto perché la consegna viene tutelata dal codice penale militare di pace (CPMP), tra l’altro, agli articoli 118 “Abbandono di posto o violata consegna da parte di un militare in servizio di sentinella, vedetta o scolta [1] ”, 120 “Abbandono di posto o violata consegna da parte di militare di guardia o di servizio [2] ”, 140 “Forzata consegna [3] ” e 141 “Resistenza, minaccia o ingiuria a sentinella, vedetta o scolta [4] ”. Per farmi capire cercherò di volare basso … procederò “terra terra” come si dice a Roma … non me ne vogliano i colleghi giuristi ma questo post non è stato scritto per loro; per lo stesso motivo mi asterrò dal fare esempi perché, se è vero che l’esempio aiuta a chiarire la norma, è altrettanto vero che quando si trattano argomenti “evanescenti” come questo, l’esempio può trasformarsi in norma agli occhi di “mastica” poco il diritto, ingenerando non pochi dubbi!

Ebbene, iniziamo col dire che la consegna indica le modalità di esecuzione di un determinato servizio; inoltre, si distingue dagli ordini o dagli incarichi in quanto tassativa … mi spiego meglio … caratteristica peculiare della consegna è la tassatività della condotta voluta (cioè disposta) dal superiore che l’ha emanata … tassatività che toglie (quasi) totalmente ogni discrezionalità al militare che svolge il servizio regolato da consegna!

Tanto premesso, è ora forse più agevole distinguere la consegna dall’ordine o dal semplice conferimento al militare di uno specifico incarico. Infatti:

  • nello svolgimento di un incarico, il militare mantiene quella necessaria discrezionalità per poter utilmente adempiere all’incarico ricevuto. Questa è la ragione per cui difficilmente possono essere regolati da consegna, ad esempio, gli incarichi d’ufficio prettamente burocratici … sarebbe difatti assai arduo riuscire a coniugare l’elasticità necessaria per lo svolgimento di lavori d’ufficio con la tassatività propria della consegna;
  • l’esecuzione di un ordine è meno “rigorosa” rispetto all’esecuzione di una consegna: la consegna può esser difatti modificata solo dal superiore che l’ha emanata mentre, al contrario, l’ordine può esser modificato anche da un altro superiore. In tale ultimo caso, l’unica incombenza per il militare è quella di “far presente, se sussiste, l’esistenza di contrasto con l’ordine ricevuto da altro superiore; obbedire al nuovo ordine e informare, appena possibile, il superiore dal quale aveva ricevuto il precedente ordine” (articolo 729 del TUOM).

Mi fermo qui, augurandomi di esser riuscito a farvi inquadrare a grandi linee il problema … ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 118 del CPMP – Abbandono di posto o violata consegna da parte di un militare in servizio di sentinella, vedetta o scolta:“Il militare, che, essendo di sentinella, vedetta o scolta, abbandona il posto o viola la consegna, è punito con la reclusione militare fino a tre anni. La reclusione militare è da uno a cinque anni, se il fatto è commesso: 1) nella guardia a rimesse di aeromobili o a magazzini o depositi di armi, munizioni o materie infiammabili o esplosive; 2) a bordo di una nave o di un aeromobile; 3) in qualsiasi circostanza di grave pericolo”.

[2]: art. 120 del CPMP – Abbandono di posto o violata consegna da parte di militare di guardia o di servizio:“Fuori dei casi enunciati nei due articoli precedenti, il militare, che abbandona il posto ove si trova di guardia o di servizio, ovvero viola la consegna avuta, è punito con la reclusione militare fino a un anno. Se il colpevole è il comandante di un reparto o il militare preposto a un servizio o il capo di posto, ovvero se si tratta di servizio armato, la pena è aumentata”.

[3]: art. 140 del CPMP – Forzata consegna:“Il militare, che in qualsiasi modo forza una consegna, è punito con la reclusione militare da sei mesi a due anni. Se il fatto è commesso in alcuna delle circostanze indicate nel secondo comma dell’articolo 118, la pena è della reclusione militare da due a sette anni. Se il fatto è commesso con armi, ovvero da tre o più persone riunite, o se ne è derivato grave danno, la pena è aumentata”.

[4]: art. 141 del CPMP – Resistenza, minaccia o ingiuria a sentinella, vedetta o scolta:“Il militare, che non ottempera all’ingiunzione fatta da una sentinella, vedetta o scolta, nella esecuzione di una consegna ricevuta, è punito con la reclusione militare fino a un anno. Il militare, che minaccia o ingiuria una sentinella, vedetta o scolta, è punito con la reclusione militare da uno a tre anni”.

LA NOZIONE DI “VIOLENZA” NEL CODICE PENALE MILITARE DI PACE

Un collega mi chiede chiarimenti in merito alla nozione di “violenza” cui viene fatto riferimento nel codice penale militare di pace (CPMP). In particolare, mi è stato chiesto di chiare se un semplice “maltrattamento” possa rilevare ai fini dell’applicazione della legge penale militare. Beh, la risposta è semplice! Difatti, l’articolo 43 del codice penale militare di pace (CPMP), titolato proprio “nozione di violenza”, stabilisce che “agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di violenza si comprendono l’omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti, e qualsiasi tentativo di offendere con armi”. Conseguentemente i “maltrattamenti” nel CPMP, a differenza di quanto accade nel codice penale (ordinario), vengono assimilati a una violenza vera e propria e, conseguentemente, possono rilevare ai fini della commissione di reati militari quali, ad esempio, l’“insubordinazione con violenza” (articolo 186 [1] del CPMP) ovvero la “violenza a inferiore” (articolo 195 [2] del CPMP). Per sapere poi quali caratteristiche devono però presentare tali maltrattamenti per poter essere penalmente rilevanti … e, soprattutto, per capire se voi stessi siete stati oggetto di maltrattamenti … vi consiglio ad andare dal vostro avvocato di fiducia … sono convinto che analizzarà il vostro caso meglio di quanto possa fare io in questo post … e con questo vi saluto, ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 186 del CPMP – Insubordinazione con violenza:“Il militare che usa violenza contro un superiore è punito con la reclusione militare da uno a tre anni. Se la violenza consiste nell’omicidio volontario, consumato o tentato, nell’omicidio preterintenzionale ovvero in una lesione personale grave, o gravissima, si applicano le corrispondenti pene stabilite dal codice penale. La pena detentiva temporanea può essere aumentata”.

[2] art. 195 del CPMP – Violenza contro un inferiore:“Il militare, che usa violenza contro un inferiore, è punito con la reclusione militare da uno a tre anni. Se la violenza consiste nell’omicidio volontario, consumato o tentato, nell’omicidio preterintenzionale, ovvero in una lesione personale grave o gravissima, si applicano le corrispondenti pene stabilite dal codice penale. La pena detentiva temporanea può essere aumentata”.

LA SCIABOLA E LO SPADINO MILITARE DEVONO ESSERE DENUNCIATI?

Diversi colleghi mi hanno chiesto se la sciabola o lo spadino militare (quelli delle Accademie/Scuole militari per intenderci) debbano essere denunciati al pari di ogni altra arma … ovviamente non stiamo parlando di semplici “simulacri” (di per sé inidonei a recare offesa alla persona e per i quali non sussiste in linea di principio alcun problema) ma di qualcos’altro che per materiali di costruzione e, soprattutto, per caratteristiche intrinseche sia astrattamente classificabile come un’“arma” o, quantomeno, come “strumento atto a offendere”. Beh … a prescindere da ogni mia personale considerazione sull’argomento … iniziamo col dire il Ministero dell’Interno (cioè il Ministero competente in materia) mi risulta approcciare il problema grossomodo come segue: se è vero che sciabole e spadini militari sono comuni accessori dell’uniforme, è comunque altresì vero che sono normalmente provvisti di “punta” e/o “taglio” e quindi ragionevolmente assimilabili a vere e proprie “armi” o, quantomeno, a “strumenti atti a offendere”. Conseguenza pratica di tale approccio è che, almeno nel caso in cui presentino le caratteristiche di “arma”, dovrebbero quantomeno [1] essere denunciati all’Ufficio locale di Pubblica Sicurezza ai sensi dell’articolo 38 [2] del Regio Decreto n. 773 del 1931 “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” (il cosiddetto T.U.L.P.S.). Ebbene … ragionandoci sopra, se da un lato è effettivamente inusuale che il “taglio” di una sciabola o di uno spadino militare sia stato affilato (vengono infatti solitamente venduti senza alcun “filo”), dall’altro è comunque innegabile che una sciabola (meno spesso uno spadino militare) venga normalmente prodotta in acciaio e commercializzata munita almeno di “punta”, condizione quest’ultima ritenuta sufficiente per potersi tecnicamente parlare di “arma” o, quantomeno, di “strumento atto a offendere” con tutte le conseguenze legali e amministrative che ciò comporta. In tal senso, tra gli altri:

  • l’articolo 30 del T.U.L.P.S. che considera armi “quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona”;
  • l’articolo 585 del codice penale che prevede che “agli effetti della legge penale per armi s’intendono: 1) quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona; 2) tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo”;
  • l’articolo 45 del Regio Decreto n. 635 del 1940 “Regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773” che chiarisce infine che “per gli effetti dell’art. 30 della legge [cioè il T.U.L.P.S. per intenderci], sono considerati armi gli strumenti da punta e taglio, la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona, come pugnali, stiletti e simili” … fermo restando che tale elencazione è solo indicativa, facendo quindi ragionevolmente ricadere nella fattispecie anche le sciabole e, qualora ne ricorrano i presupposti, gli spadini militari.

Certo … il discorso da fare sarebbe molto più articolato ma, visto il taglio “pratico” del post, ritengo di aver detto abbastanza per permettervi di inquadrare il problema … almeno a grandi linee! Non posso però concludere senza un breve cenno su cosa si rischia a non effettuare la prevista denuncia di un’arma all’Ufficio di P.S.: l’articolo 697 del codice penale, titolato proprio “detenzione abusiva di armi”, prevede al riguardo che “chiunque detiene armi o caricatori soggetti a denuncia ai sensi dell’articolo 38 del testo unico di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni, o munizioni senza averne fatto denuncia all’Autorità, quando la denuncia è richiesta, è punito con l’arresto da tre a dodici mesi o con l’ammenda fino a euro 371. Chiunque, avendo notizia che in un luogo da lui abitato si trovano armi o munizioni, omette di farne denuncia alle autorità, è punito con l’arresto fino a due mesi o con l’ammenda fino a euro 258[3].

Come avete intuito, la legge considera quindi la vostra sciabola (o il vostro spadino militare) un’“arma”, un mero “strumento atto a offendere” oppure no, solo in base alle caratteristiche materiali che presenta … ecco perché vi consiglio quantomeno di prendere informazioni presso l’Ufficio di Pubblica Sicurezza territorialmente competente, non altro per evitare il rischio di rimanere coinvolti in spiacevoli, costosi e soprattutto evitabili inconvenienti legali.

Ad maiora!

TCGC

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[1]: ho usato il termine “quantomeno” proprio perché quando presentano le caratteristiche di un’“arma”, dovrebbero essere vendute/cedute solo a soggetto munito di nulla osta all’acquisto o di porto d’armi (articolo 35 T.U.L.P.S.) e trasportate solo previo avviso all’Autorità di Pubblica Sicurezza (articolo 34 T.U.L.P.S.). Qualora, invece, presentino le caratteristiche di mero “strumento atto a offendere”, non potrebbero esser portati fuori dalla propria abitazione: infatti, ai sensi dell’ articolo 4 della legge n. 110 del 1975, non possono portarsi “senza giustificato motivo […] fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona“, fermo restando che la partecipazione in alta uniforme (e quindi con la propria sciabola o con il proprio spadino) ad una cerimonia militare rappresenti, a mio modesto parere, un motivo più che valido!

[2]: articolo 38 del T.U.L.P.S.:“Chiunque detiene armi, parti di esse, di cui all’articolo 1 bis, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 527, munizioni finite o materie esplodenti di qualsiasi genere, deve farne denuncia entro le 72 ore successive alla acquisizione della loro materiale disponibilità, all’ufficio locale di pubblica sicurezza o, quando questo manchi, al locale comando dell’Arma dei carabinieri, ovvero anche per via telematica ai medesimi uffici o alla questura competente per territorio attraverso trasmissione al relativo indirizzo di posta elettronica certificata […]”.

[3]: a dire il vero, conseguenze pesanti ci sono anche in caso di “porto abusivo di armi”. L’articolo 699 del codice penale stabilisce infatti che:“chiunque, senza la licenza dell’Autorità, quando la licenza è richiesta, porta un’arma fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, è punito con l’arresto fino a diciotto mesi. Soggiace all’arresto da diciotto mesi a tre anni chi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, porta un’arma per cui non è ammessa licenza. Se alcuno dei fatti preveduti dalle disposizioni precedenti, è commesso in luogo ove sia concorso o adunanza di persone, o di notte in un luogo abitato, le pene sono aumentate”.

L’ORGANIZZAZIONE GIUDIZIARIA MILITARE: TRIBUNALI E PROCURE MILITARI

Vista l’incertezza che traspare da alcune delle vostre email, ritengo utile dedicare questo brevissimo post all’Organizzazione giudiziaria militare. Ebbene sappiate che, almeno dal 2008, gli Uffici giudiziari militari si distinguono in:

  • requirenti – Procura generale militare presso la Suprema Corte di Cassazione (con sede in Roma), Procura generale presso la Corte militare di Appello (con sede in Roma) e Procure militari presso i Tribunali militari (con sedi in Verona, Roma e Napoli);
  • giudicanti – Corte militare di Appello (con sede in Roma), Tribunali militari (con sedi in Verona, Roma e Napoli) e Tribunale militare di sorveglianza (con sede in Roma). Non esiste quindi alcun magistrato militare giudicante alla Suprema Corte di Cassazione!

Presso ogni Tribunale militare – organo giudiziario di primo grado, inoltre, è istituito un Ufficio del Giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) e uno del Giudice dell’udienza preliminare (G.U.P.), in analogia a quanto avviene grossomodo nei Tribunali ordinari. Organo di secondo grado è la Corte militare d’Appello che giudica, tra l’altro, sull’appello proposto avverso i provvedimenti emessi dai Tribunali militari. Il Tribunale militare di sorveglianza è invece competente a vigilare sull’esecuzione delle pene militari.

La Magistratura militare italiana ha giurisdizione per i reati militari commessi dagli appartenenti alle Forze Armate sia in tempo di pace che di guerra sulla base di quanto previsto dai codici penali militari di pace o di guerra (per approfondire leggi qui!), secondo la competenza stabilita dal Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM – per approfondire leggi qui!), utilizzando il rito previsto dal codice di procedura penale (che, per intenderci, è lo stesso che si utilizza nelle aule di tribunale ordinario).

Spero che queste poche e generalissime nozioni sulla giustizia militare possano esservi utili a capire meglio … Ad maiora!

TCGC

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GIUDICE DI MERITO O DI LEGITTIMITÀ?

Un lettore mi ha chiesto di chiarire un argomento semplice ma che non di rado crea problemi interpretativi, soprattutto a chi si sta ancora avvicinando al mondo del diritto. Infatti, leggendo i testi giuridici si trovano spesso riferimenti alla giurisprudenza “di merito” e alla giurisprudenza “di legittimità”, ai giudici “di merito” e ai giudici “di legittimità” … ma cosa significano tali espressioni? Cosa vogliono esattamente dire?

Non me ne vogliano i colleghi giuristi ma questo post non è proprio stato scritto per loro … beh, azzardiamo iniziando a dire che i giudici di merito (come, ad esempio, i giudici del Tribunale o quelli della Corte di Appello) sono quei giudici che acquisiscono i fatti, li analizzano e decidono applicando la legge al caso concreto … decidono cioè sia sulle questioni di fatto che su quelle di diritto. Mi spiego meglio: una volta presi i documenti, sentiti i testimoni, esaminate le perizie acquisite nel corso del processo … ricostruiti insomma i fatti (ecco perchè si parla di “questioni di fatto”), il giudice di merito interpreta le pretese delle parti secondo la legge, valuta i fatti inquadrandoli dal punto di vista giuridico (affronta cioè le cosiddette “questioni di diritto”) per poi decidere (con sentenza) sulla controversia … dice cioè chi ha ragione e chi ha torto entrando appunto “nel merito” della questione! I giudici di legittimità (cioè quelli della Suprema Corte di Cassazione) partono invece dando i fatti per provati per come emergono dalla sentenza impugnata (la Cassazione, infatti, entra in gioco solo quando si impugna una sentenza di merito), limitandosi al mero esame giuridico della controversia: decidono cioè sulle sole questioni di diritto, sia sostanziali che processuali. Infatti, quando un processo arriva in Cassazione, nella normalità dei casi ciò significa che si sono già svolti due gradi di giudizio (di solito davanti al Tribunale in primo grado ed alla Corte di Appello in secondo grado) nel corso dei quali le parti hanno già avuto modo di produrre documenti, far sentire testimoni o consulenti, contestare quello che afferma la controparte eccetera …di provare insomma i fatti! Il giudice di legittimità svolge quindi la fondamentale funzione di esaminare il lavoro del giudice di merito controllando se la relativa sentenza sia logica e, soprattutto, rappresenti il risultato della corretta applicazione/interpretazione le norme … detto altrimenti, controlla la sentenza di merito per appurare se la legge che è stata applicata sia proprio quella che doveva essere applicata al caso e, soprattutto, se sia stata correttamente interpretata. Al termine di tale giudizio la Suprema Corte confermerà la sentenza di merito se la riterrà esente da errori oppure, in caso contrario, la “casserà”  (il termine “Cassazione” proviene proprio dall’atto di “cassare” che significa annullare, cancellare, eliminare … ):

  • “con rinvio” se deciderà di rimandare le carte al giudice di merito (non quello che ha emesso la sentenza annullata, ma uno diverso dello stesso grado) in modo che si decida nuovamente sul caso, seguendo però le indicazioni fornite dalla Cassazione stessa;
  • “senza rinvio” se invece riterrà opportuno decidere direttamente, mettendo quindi fine definitivamente alla controversia.

Spero di esser riuscito a farvi afferrare il problema … ad maiora!

TCGC

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È VERO CHE ANCHE I “NON” MILITARI POSSONO SCONTARE LA PROPRIA PENA PRESSO IL CARCERE MILITARE?

Anche se si è istintivamente portati a pensare che il Carcere militare sia riservato ai soli detenuti militari, in realtà non è affatto così! Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, gli “ospiti” di un Carcere militare sono dei “non” militari che, con ogni probabilità, hanno commesso reati comuni (cioè reati non militari). Facendo un poco di ordine sappiate che, ai sensi del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM), i detenuti “ricevibili” nel Carcere militare sono:

Tanto premesso, bisogna però considerare (e qui viene il bello!) che, ai sensi dell’articolo 79 [3] della legge 121 del 1981 “Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza”, possono scontare la propria condanna presso il Carcere militare anche gli appartenenti alle Forze di Polizia [4], su esplicita richiesta e qualsiasi sia il tipo di reato commesso … ed eccovi così svelato il mistero della presenza dei detenuti “non” militari nel Carcere militare!

Alcune brevi considerazioni prima di concludere:

  • è il COM, agli artt. 76 e seguenti, che indica le attività e le operazioni condotte all’interno degli “Stabilimenti militari di pena” sia in termini di Ordinamento penitenziario militare, sia di specifico carattere organizzativo [5];
  • quando a un militare detenuto presso il Carcere militare (in espiazione di pena militare o comune, non importa) viene applicata anche la pena accessoria della “degradazione” (per approfondire leggi qui!), questi non potrà più restarci: dovrà infatti essere trasferito presso un Istituto di detenzione non militare [6].

TCGC

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[1]: art. 80 del Codice dell’Ordinamento Militare – Detenuti custoditi nelle carceri giudiziarie militari:“1. Nelle carceri giudiziarie militari sono custoditi i militari detenuti in attesa di giudizio, a disposizione dell’autorità giudiziaria militare od ordinaria. 2. Resta fermo quanto disposto dall’ articolo 79, comma 2, della legge 1° aprile 1981, n. 121”.

[2]: art. 82 del Codice dell’Ordinamento Militare – Reclusori militari:“1. I reclusori militari sono istituiti per custodirvi i militari che espiano la pena della reclusione militare o, a loro richiesta, le pene detentive comuni; resta fermo quanto disposto dall’articolo 79, comma 1, della legge 1° aprile 1981, n. 121 […]”.

[3]: art. 79 della legge n. 121 del 1981 “Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza” – Esecuzione delle pene detentive e delle misure restrittive della libertà personale:“A richiesta del condannato, la pena detentiva inflitta per qualsiasi reato agli appartenenti alle forze di polizia di cui all’articolo 16 è scontata negli stabilimenti penali militari. La disposizione del comma precedente si applica anche nei casi in cui i soggetti ivi contemplati sono posti in stato di custodia o carcerazione preventiva. In questi casi la richiesta può essere proposta agli ufficiali o agenti della polizia giudiziaria o della forza pubblica nel processo verbale di cui all’articolo 266 del codice di procedura penale”.

[4]: ai sensi dell’art. 16 della legge n. 121 del 1981 “Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza”, “[…] oltre alla polizia di Stato sono forze di polizia, fermi restando i rispettivi ordinamenti e dipendenze:

a) l’Arma dei carabinieri, quale forza armata in servizio permanente di pubblica sicurezza;

b) il Corpo della guardia di finanza, per il concorso al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Fatte salve le rispettive attribuzioni e le normative dei vigenti ordinamenti, sono altresì forze di polizia […] Corpo degli agenti di custodia e il Corpo forestale dello Stato”.

[5]: peraltro, ai sensi dell’art. 531 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 90 del 2010 “Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare” (cosiddetto TUOM): “1. L’Amministrazione fornisce ai graduati e ai militari di truppa, tradotti nelle carceri militari in attesa di giudizio, gli oggetti di corredo stabiliti, per gli appartenenti a ciascuna Forza armata, dal regolamento per l’organizzazione penitenziaria militare, e distribuisce altresì al personale militare arrestato e tradotto nelle carceri militari dopo la latitanza gli oggetti necessari per completare il vestiario. 2. Gli ufficiali e i sottufficiali, in attesa di giudizio nelle carceri militari, sono tenuti al pagamento del valore in denaro della razione viveri nell’importo stabilito dalle disposizioni vigenti in materia. Tale importo è trattenuto sugli assegni spettanti e versato in tesoreria quale provento riassegnabile. Nel caso di proscioglimento le trattenute sono rimborsate. 3. I condannati alla reclusione militare sono avviati alle carceri militari con gli oggetti di corredo forniti dai reparti di appartenenza. Al termine della reclusione, i militari sono trasferiti agli organismi di destinazione con i predetti oggetti di corredo. 4. Gli ufficiali, i marescialli e i sergenti maggiori condannati alla reclusione militare cessano, dal giorno successivo alla data della sentenza di condanna, di appartenere al proprio organismo e sono assunti in forza dalle carceri militari fino all’ultimo giorno di detenzione nel carcere militare. 5. Al personale appartenente alle Forze di polizia detenuto nelle carceri militari, ai sensi del combinato disposto degli articoli 16 e 79 della legge 1 aprile 1981, n. 121, è corrisposto lo stesso trattamento previsto per i militari delle Forze armate. Le spese di mantenimento del predetto personale sono rimborsate dalle amministrazioni da cui dipende, anche se tale personale detenuto sia stato espulso dai rispettivi corpi o comunque sia stato cancellato dai ruoli di appartenenza. A tal fine, il Ministero della difesa determina annualmente la misura dell’assegno giornaliero. L’amministrazione alla quale appartiene il personale delle Forze di polizia rimborsa anche le spese di viaggio per il ritorno del personale ai corpi o ai comuni di residenza al termine della detenzione, le somme addebitate ai detenuti per danni, e non recuperate, le perdite di materiali, nonché quelle dipendenti da altre cause. I detenuti conservano l’equipaggiamento individuale, a eccezione della divisa speciale, che è sostituita da oggetti di corredo personali”.

[6]: art. 83 del Codice dell’Ordinamento Militare – Degradazione:“1. Se la condanna pronunciata dal giudice militare a carico di militari detenuti in un carcere giudiziario militare importa la degradazione, il procuratore militare competente dà comunicazione della sentenza al Ministero della giustizia, perché’ venga indicato in quale stabilimento di pena il condannato deve essere tradotto. 2. Se la condanna che importa la degradazione è stata pronunciata da un giudice diverso da quello militare, il magistrato competente per l’esecuzione trasmette al comandante del carcere giudiziario militare, nel quale il condannato si trova detenuto, l’ordine di scarcerazione e quello di traduzione allo stabilimento al quale il condannato è assegnato. 3. Immediatamente prima di effettuare la traduzione allo stabilimento a cui il condannato è stato assegnato, il procuratore militare della Repubblica competente o, nel caso previsto dal comma 2, il magistrato competente per l’esecuzione, richiede all’autorità amministrativa militare competente l’esecuzione della degradazione”.

LA COMPETENZA DEL COMANDANTE MILITARE PER I REATI IN MATERIA DI STUPEFACENTI

Come sappiamo il Comandante di corpo è, ai sensi dell’articolo 301 del codice penale militare di pace (CPMP), Ufficiale di Polizia Giudiziaria Militare (con competenza, cioè, per i soli reati militari – per approfondire leggi qui!) … detto altrimenti è lui il primo soggetto che, al verificarsi di un reato militare, deve tra l’altro “prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale” (articolo 55 del codice penale). Ciò nonostante, tale competenza si “allarga” ai reati in materia di stupefacenti (che come sapete sono reati comuni e non militari!) quando commessi da militari in luogo militare. L’articolo 1499 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM) prevede infatti che “le funzioni di polizia giudiziaria ai fini della prevenzione e repressione dei reati previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 [il Testo Unico sugli stupefacenti per intenderci!], commessi da militari in luoghi militari, spettano ai soli comandanti di corpo con grado non inferiore a ufficiale superiore”.

TCGC

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SEI STATO SORTEGGIATO PER FARE IL GIUDICE MILITARE?

Un collega che ha appena saputo di essere stato sorteggiato per fare giudice militare mi chiede: è possibile che i giudici militari vengano scelti sulla base di una estrazione a sorte? Beh, si … piaccia o non piaccia funziona esattamente così … e questo a prescindere dal fatto che abbiate (o meno) la minima idea di come si svolga un processo! Il collegio giudicante del Tribunale militare è infatti composto [1] da 3 membri:

  • due magistrati di professione (i cosiddetti giudici “togati”, per intenderci!), dei quali uno svolge le funzioni di Presidente;
  • un giudice “militare” che viene estratto a sorte [2] tra gli Ufficiali [3] delle tre Forze Armate, dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Quest’ultimo, per il periodo in cui svolge le funzioni di giudice, ha le medesime prerogative dei primi … è cioè un giudice al 100%, anche se solo “a tempo determinato” … e questo a prescindere dal fatto che conosca o meno il diritto: in questo verrà sicuramente aiutato dagli altri due giudici “togati”, anche perchè la funzione principale che è stato chiamato a svolgere è quella di “esperto” della vita e dell’organizzazione militare, in modo da agevolare tutto il collegio giudicante nella comprensione dei fatti, cioè ad “inquadrare” il problema per poi valutare l’esistenza o meno di responsabilità penale.

L’articolo 54 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM) prevede infatti che:“il Tribunale militare giudica con l’intervento:

  • del presidente del Tribunale militare o del presidente di sezione del Tribunale militare che lo presiedono […] con funzioni di presidente;
  • di un magistrato militare in possesso dei requisiti previsti dal comma 1, lettera b), con funzioni di giudice;
  • di un militare dell’Esercito italiano, della Marina militare, dell’Aeronautica militare, dell’Arma dei Carabinieri o della Guardia di finanza di grado pari a quello dell’imputato e comunque non inferiore al grado di ufficiale, estratto a sorte, con funzioni di giudice. Nessun ufficiale può esimersi dall’assumere ed esercitare le funzioni di giudice”.

Penso di aver sufficientemente inquadrato l’argomento, non mi resta quindi che salutarvi … ad maiora!

TCGC

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[1]: il collegio giudicante della Corte Militare di Appello è composto invece da 5 membri: tre Magistrati “togati” e “due militari dell’Esercito italiano, della Marina militare, dell’Aeronautica militare, dell’Arma dei Carabinieri o della Guardia di finanza, di grado pari a quello dell’imputato e, comunque, non inferiore a tenente colonnello, estratti a sorte, con funzioni di giudice” (art. 57 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare”, il cosiddetto COM).

[2]: art. 54 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM):“[…] 3. L’estrazione a sorte dei giudici di cui al comma 2, lettera c), si effettua tra gli ufficiali, aventi il grado richiesto, che prestano servizio nella circoscrizione del Tribunale militare. 4. Le estrazioni a sorte, previo avviso affisso in apposito albo, sono effettuate, nell’aula di udienza aperta al pubblico, dal presidente, alla presenza del pubblico ministero, con l’assistenza di un ausiliario, che redige verbale. 5. I giudici estratti a sorte durano in funzione due mesi e proseguono nell’esercizio delle funzioni sino alla conclusione dei dibattimenti in corso. 6. L’estrazione a sorte avviene ogni sei mesi, distintamente per ognuno dei bimestri successivi. Sono estratti, per ogni giudice, due supplenti”.

[3]: ricordiamo infatti che gli Ufficiali estratti a sorte per far parte del collegio giudicante della Corte Militare di Appello devono invece aver il grado minimo di Tenente Colonnello (art. 57 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare”, il cosiddetto COM).

CHI È E COSA FA UN UFFICIALE DI POLIZIA GIUDIZIARIA MILITARE?

Un giovane collega mi chiede: chi è e cosa fa un Ufficiale di Polizia Giudiziaria Militare? Beh, iniziamo subito col dire che un Ufficiale di Polizia Giudiziaria Militare (UPGM), al pari di ogni altro soggetto che esercita le funzioni di Polizia Giudiziaria:

  • deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale” (articolo 55 del codice di procedura penale);
  • svolge ogni indagine e attività disposta o delegata dall’autorità giudiziaria” (articolo 55 del codice di procedura penale),

con l’unica differenza che è competente solo per i reati soggetti alla giurisdizione militare, detto altrimenti per i soli reati militari

Chiarito a grandi linee cosa faccia un Ufficiale di Polizia Giudiziaria, vediamo ora chi sia esattamente in ambito militare… ebbene, per quanto di interesse, iniziamo col dire che l’articolo 57 del codice di procedura penale, dopo aver individuato tutta una serie di soggetti che sono Ufficiali di Polizia Giudiziaria, precisa che “sono altresì ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio cui sono destinate e secondo le rispettive attribuzioni, le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall’articolo 55”. In tale contesto, l’articolo 301 del codice penale militare di pace (CPMP) stabilisce che “per i reati soggetti alla giurisdizione militare, […] le funzioni di polizia giudiziaria sono esercitate nell’ordine seguente:

  1. dai comandanti di corpo, di distaccamento o di posto delle varie Forze armate;
  2. dagli ufficiali e sottufficiali dei carabinieri e dagli altri ufficiali di polizia giudiziaria indicati nell’articolo 221 (ora 57) del codice di procedura penale.

Concorrendo più militari fra quelli rispettivamente indicati nei nn. 1 e 2, le funzioni sono esercitate dal più elevato in grado o, a parità di grado, dal più anziano […]”.

Da quanto avete appena letto emerge quindi chiaramente che, al verificarsi di un reato militare, le funzioni di Polizia Giudiziaria (militare) sono esercitate, oltre che dagli Ufficiali e Agenti di Polizia Giudiziaria previsti dall’articolo 57 del codice di procedura penale (… e con precedenza rispetto a questi!), dai Comandanti di corpo, distaccamento o posto delle varie Forze Armate.

Penso di aver risposto alla domanda, non mi resta quindi che salutarvi … ad maiora!

TCGC

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È VERO CHE TRA LE COMPETENZE DELLE FORZE DI POLIZIA RIENTRA ANCHE QUELLA DI PROVVEDERE ALLA BONARIA COMPOSIZIONE DEI DISSIDI PRIVATI?

Iniziamo col dire che è effettivamente più o meno così … ma con una importante precisazione: tale prerogativa è infatti riservata ai soli Ufficiali di Pubblica Sicurezza e non a tutti gli appartenenti alle Forze di Polizia [1]. Il Regio Decreto n. 773 del 1931 “Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza” (cioè il cosiddetto T.U.L.P.S.) prevede [2], al riguardo, che l’Autorità di Pubblica Sicurezza, quella cioè che “veglia al mantenimento dell’ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla tutela della proprietà, […] per mezzo dei suoi Ufficiali, ed a richiesta delle parti, provvede alla bonaria composizione dei dissidi privati” (articolo 1).

Tanto premesso, sappiate che l’opportunità di farsi assistere dal Polizia (o eventualmente dai Carabinieri) per risolvere problemi “privati” non va assolutamente sottovalutata … potrebbe infatti risultare assai utile soprattutto alla luce della recente depenalizzazione di molti reati minori (come sono, ad esempio, l’ingiuria o il danneggiamento): la vittima di un reato depenalizzato che vuole ottenere giustizia avrebbe altrimenti come unica opzione possibile quella imbarcarsi in un’azione civile per il risarcimento del danno, con tempi e costi assolutamente non trascurabili. Ecco quindi che, rispolverando il T.U.L.P.S. del 1931 e il relativo regolamento attuativo del 1940, scopriamo che un’alternativa c’è … e non da poco! Certo stiamo parlando di una regolamentazione “stagionata” che però … credetemi … è pienamente vigente e molto ben conosciuta da tutte le Forze di Polizia!

Come funziona la bonaria composizione dei dissidi? Beh, innanzitutto va dato un “impulso” a tutta la procedura … bisogna cioè presentare una specifica istanza alla competente Autorità di Pubblica Sicurezza che, ai sensi Regio Decreto n. 635 del 1940 “Regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773” (cioè, per intenderci, il regolamento attuativo del T.U.L.P.S.):

  • invita le parti a comparire dinanzi ad essa, in un termine congruo pel tentativo di conciliazione” (articolo 5);
  • chiarisce alle parti la questione di fatto e i principi di diritto ad essa applicabili senza imporre il suo giudizio e, salvi gli eventuali provvedimenti di competenza dell’autorità giudiziaria, adotta, ove sia il caso, o un provvedimento conservativo di soddisfazione delle parti in contesa o un temperamento di equità che valga a prevenire eventuali incidenti. Del seguito procedimento si prende nota negli atti di ufficio e si stende processo verbale, ove lo si ritenga necessario. Il processo verbale, firmato dalle parti e dal funzionario, può essere prodotto e fa fede in giudizio, avendo valore di scrittura privata riconosciuta. Se le parti non possono sottoscrivere, se ne fa menzione” (articolo 6).

Quanto avete appena letto significa sostanzialmente che si viene convocati dalla Polizia di Stato (o eventualmente dai Carabinieri), ci si mette intorno a un tavolo e si cerca una soluzione “pacifica” alla questione … tutto ciò senza dover pagare un legale e, soprattutto, ottenendo alla fine anche un verbale che potrebbe esserci molto utile in un futuro processo. Tale verbale, infatti, è una scrittura privata riconosciuta (per approfondire leggi qui!) che “cristallizza” la situazione e non di rado aiuta a fare in modo che l’accordo raggiunto venga rispettato, eventualmente anche di fronte al giudice di un successivo procedimento giudiziario … ricordiamoci infatti che, come abbiamo appena letto, “fa fede in giudizio”!

A chi va presentata l’istanza? Nella stragrande maggioranza dei casi al capo dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza del luogo e cioè al Questore se ci si trova nel Capoluogo di Provincia oppure al funzionario preposto al Commissariato di Polizia, se ci troviamo in un Comune diverso dal Capoluogo di Provincia. Ma se ci si trova in un Comune dove non c’è alcuna Autorità di Pubblica Sicurezza, dove cioè dove non c’è nemmeno un Commissariato di Polizia? Beh, in tal caso ci si rivolge al Sindaco, in qualità di ufficiale del Governo che, con ogni probabilità, chiederà il concorso di qualificato personale dell’Arma dei Carabinieri (in tal caso potreste inviare l’istanza al Sindaco, mettendo “per conoscenza” i Carabinieri del luogo … nulla lo vieta!).

Tanto detto, chi sono gli Ufficiali di Pubblica Sicurezza che dovrebbero procedere alla bonaria composizione dei dissidi? La domanda non è banale perché, come avete letto all’inizio del post, tale qualifica non spetta a tutti gli appartenenti alle Forze di Polizia! Facendo quindi un poco di ordine, sappiate che la qualifica di Ufficiale di Pubblica Sicurezza compete:

  • in primo luogo, al personale del ruolo dei dirigenti e dei commissari della Polizia di Stato (articolo 39 della legge n. 121 del 1981);
  • in secondo luogo, agli Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che “hanno le stesse attribuzioni e prerogative degli ufficiali di pubblica sicurezza” (articoli 51 del Regio Decreto n. 1169 del 1934 e 179 del Decreto Legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare”, il cosiddetto COM);
  • in terzo luogo, agli Ispettori Superiori e i Sostituti Commissari della Polizia di Stato [3] (articolo 26 del D.P.R. n. 335 del 1982 “Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia”), nonché ai Luogotenenti e Marescialli maggiori dell’Arma dei Carabinieri [4] (articolo 179 del citato COM) che, in caso di assenza o impedimento dei propri superiori gerarchici, assumono infatti anche la qualifica di Ufficiale di Pubblica sicurezza;
  • in ultima analisi, come abbiamo peraltro appena accennato, al Sindaco del Comune che risulti privo di un Ufficio di Pubblica Sicurezza e, cioè, dove non vi sia nessun Commissariato di Polizia [5] (ai sensi, tra gli altri, dell’articolo 36 del Decreto Legislativo n. 267 del 2000 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”).

Bisogna inoltre tener presente che la legge accorda alla Polizia di Stato una chiara preferenza nell’esercizio delle funzioni di Pubblica Sicurezza: infatti, “quando, nella esplicazione di mansioni inerenti all’esercizio di funzioni devolute dalle leggi di polizia agli ufficiali di P.S. concorrono contemporaneamente ufficiali dei [Carabinieri] e funzionari di P. S., la direzione del servizio è demandata a questi ultimi” (articolo 51 del Regio Decreto n.1169 del 1934) … è quindi alla Polizia di Stato che dovete rivolgervi in prima battuta! Tutti gli altri appartenenti alle Forze di Polizia sono meri Agenti di Pubblica Sicurezza e quindi non hanno alcun titolo a provvedere alla bonaria composizione dei dissidi privati.

Augurandomi che i contenuti di questo post possano risultarvi in qualche modo utili, non mi resta che salutarvi … ad maiora!

TCGC

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[1]: ai sensi dell’articolo 16 della legge n. 121 del 1981, “ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, oltre alla polizia di Stato sono forze di polizia, fermi restando i rispettivi ordinamenti e dipendenze: a) l’Arma dei carabinieri, quale forza armata in servizio permanente di pubblica sicurezza; b) il Corpo della guardia di finanza, per il concorso al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica. Fatte salve le rispettive attribuzioni e le normative dei vigenti ordinamenti, sono altresì forze di polizia e possono essere chiamati a concorrere nell’espletamento di servizi di ordine e sicurezza pubblica il Corpo degli agenti di custodia e il Corpo forestale dello Stato [anche se, come sappiamo, è ormai confluito nell’Arma dei Carabinieri]. Le forze di polizia possono essere utilizzate anche per il servizio di pubblico soccorso”.

[2]: peraltro, anche l’articolo 35 del Regio Decreto n. 690 del 1907 “Testo unico della legge sugli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza” (anch’esso tutt’ora vigente!) già vent’anni prima del T.U.L.P.S. aveva già previsto che “gli ufficiali di pubblica sicurezza prestano la loro opera a richiesta delle parti per comporre privati dissidi. Qualora lo credano necessario, possano estendere verbali delle seguite conciliazioni e dei patti relativi. Questi verbali, firmati da loro, dalle parti e da due testimoni, potranno essere prodotti e faranno fede in giudizio, avendo valore di scritture private riconosciute. Se le parti non possono sottoscrivere, se ne farà menzione”.

[3]: ai sensi dell’articolo 26 del D.P.R. n. 335 del 1982 “Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia”, gli Ispettori Superiori e i Sostituti Commissari della Polizia di Statosono sostituti ufficiali di pubblica sicurezza e sostituiscono i superiori gerarchici, ove non rivestano la qualità di autorità di pubblica sicurezza, in caso di assenza o impedimento di questi, assumendo anche la qualifica di ufficiale di pubblica sicurezza”.

[4]: ai sensi dell’articolo 179 del Decreto Legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare”, (cosiddetto COM), i Luogotenenti e Marescialli maggiori dell’Arma dei Carabinierisono sostituti ufficiali di pubblica sicurezza e sostituiscono i superiori gerarchici in caso di assenza o impedimento di questi, assumendo anche la qualifica di ufficiale di pubblica sicurezza”.

[5]: ai sensi della legge n. 121 del 1981, “Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza”, l’Autorità di Pubblica Sicurezza è organizzata a livello:

  • centrale, con la competenza del Ministero dell’Interno (art. 1 della legge n. 121 del 1981);
  • provinciale, con competenza del Prefetto o del Questore (artt. 13 e 14 della legge n. 121 del 1981);
  • locale, con competenza del Questore (nel capoluogo di Provincia), dei funzionari preposti a un Commissariato di Polizia (negli altri Comuni) ovvero dei Sindaci, nei Comuni dove non vi siano Commissariati di Polizia (art. 15 della legge n. 121 del 1981).

COME COMPORTARSI IN CASO DI INCIDENTE STRADALE

Un giovane collega mi chiede: “come ci si deve comportare in caso di incidente stradale?” Beh … non c’è molto da dire perché, come spesso abbiamo visto, è tutto scritto … basta quindi attenersi a quanto previsto al riguardo dal Decreto Legislativo n. 285 del 1992 “Nuovo codice della strada”. Se leggete l’articolo 189, titolato proprio “Comportamento in caso di incidente”, vedrete infatti che:“1. L’utente della strada, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento, ha l’obbligo di fermarsi e di prestare l’assistenza occorrente a coloro che, eventualmente, abbiano subito danno alla persona. 2. Le persone coinvolte in un incidente devono porre in atto ogni misura idonea a salvaguardare la sicurezza della circolazione e, compatibilmente con tale esigenza, adoperarsi affinché non venga modificato lo stato dei luoghi e disperse le tracce utili per l’accertamento delle responsabilità. 3. Ove dall’incidente siano derivati danni alle sole cose, i conducenti e ogni altro utente della strada coinvolto devono inoltre, ove possibile, evitare intralcio alla circolazione, secondo le disposizioni dell’art. 161. Gli agenti in servizio di polizia stradale, in tali casi, dispongono l’immediata rimozione di ogni intralcio alla circolazione, salva soltanto l’esecuzione, con assoluta urgenza, degli eventuali rilievi necessari per appurare le modalità dell’incidente. 4. In ogni caso i conducenti devono, altresì, fornire le proprie generalità, nonché le altre informazioni utili, anche ai fini risarcitori, alle persone danneggiate o, se queste non sono presenti, comunicare loro nei modi possibili gli elementi sopraindicati. 5. Chiunque, nelle condizioni di cui al comma 1, non ottempera all’obbligo di fermarsi in caso di incidente, con danno alle sole cose, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da € 303 a € 1.210 […]. 6. Chiunque, nelle condizioni di cui comma 1, in caso di incidente con danno alle persone, non ottempera all’obbligo di fermarsi, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni […].7. Chiunque, nelle condizioni di cui al comma 1, non ottempera all’obbligo di prestare l’assistenza occorrente alle persone ferite, è punito con la reclusione da un anno a tre anni […]. 9-bis. L’utente della strada, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento, da cui derivi danno a uno o più animali d’affezione, da reddito o protetti, ha l’obbligo di fermarsi e di porre in atto ogni misura idonea ad assicurare un tempestivo intervento di soccorso agli animali che abbiano subito il danno […]”.

Come avete appena visto, in caso di incidente bisogna quantomeno:

  1. fermarsi e prestare assistenza (chiamando i soccorsi in caso ci siano danni a persone o animali);
  2. fornire le proprie generalità alle persone danneggiate e mettersi a disposizione delle Forze di Polizia/Autorità Giudiziaria;
  3. salvaguardare la sicurezza della circolazione e, qualora possibile, adoperarsi affinché non venga modificato lo stato dei luoghi.

State certi che seguendo queste 3 semplici indicazioni limiterete la vostra responsabilità, civile e, eventualmente, penale [1] al solo incidente (d’altronde quel che è successo è successo … non si può purtroppo tornare indietro!) e potrete anche scongiurare il rischio di commettere qualche (ulteriore) reato come, ad esempio, quello di “fuga del conducente in caso di lesioni personali stradali[2] o di “omissione di soccorso[3].

Un paio di piccole precisazioni prima di concludere:

  • quando al primo comma dell’articolo 189 del Codice della strada leggete che “l’utente della strada, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento, ha l’obbligo di …” fare tutto quello che ormai ben sapete … non pensate che la cosa riguardi solo il “responsabile” dell’incidente: abbiamo infatti di fronte una definizione ben più ampia che va ad abbracciare tutte le persone che direttamente o indirettamente sono loro malgrado rimaste coinvolte nel sinistro;
  • ricordate … e qui mi riferisco soprattutto ai colleghi più giovani … che l’esser rimasti coinvolti in un incidente con gravi danni alle cose e alle persone è un evento che va comunicato al proprio Comando di appartenenza (per approfondire leggi qui!).

Ad maiora!

TCGC

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[1]: mi riferisco ad esempio ai reati di lesioni personali stradali gravi o gravissime (art. 590 bis del codice penale) o di omicidio stradale (art. 589 bis del codice penale).

[2]: art. 590 ter del codice penale – Fuga del conducente in caso di lesioni personali stradali:“Nel caso di cui all’articolo 590 bis [del codice penale, cioè l’articolo titolato “Lesioni personali stradali gravi o gravissime”], se il conducente si dà alla fuga, la pena è aumentata da un terzo a due terzi e comunque non può essere inferiore a tre anni”.

[3]: art. 593 – Omissione di soccorso:“Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un’altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all’Autorità è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a duemilacinquecento euro. Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne immediato avviso all’Autorità. Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata”.

 

LE NORME SULLA TUTELA DEL DIPENDENTE PUBBLICO CHE SEGNALA ILLECITI (IL C.D. “WHISTLEBLOWING”) SI APPLICANO ANCHE AI MILITARI?

Iniziamo subito col dire che la risposta è si! La normativa sul cosiddetto whistleblowing si applica anche al personale militare, quantomeno dal 2017, ovverosia dall’entrata in vigore della legge n. 179 del 2017 che ha modificato l’articolo 54 bis del Decreto Legislativo n. 165 del 2001 “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, rendendone i contenuti direttamente applicabili anche al personale in regime di diritto pubblico [1] e cioè – per quanto ci interessa direttamente – anche ai militari. Tanto detto, avete idea di quali tutele la legge offra oggi al dipendente che segnali condotte illecite di cui è venuto a conoscenza nell’esercizio delle proprie funzioni? No? Credo allora che sia il caso che diate quantomeno una sbirciatina all’articolo 54 bis del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”. Ebbene sappiate che tale articolo prevede, tra l’altro, che:

  • il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza […] ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. L’adozione di misure ritenute ritorsive, di cui al primo periodo, nei confronti del segnalante è comunicata in ogni caso all’ANAC dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L’ANAC informa il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza”;
  • ai fini del presente articolo, per dipendente pubblico si intende il dipendente delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, ivi compreso il dipendente di cui all’articolo 3 [cioè, come abbiamo già evidenziato all’inizio del post, il dipendente pubblico in regime di diritto pubblico, ivi inclusi quindi i militari!], il dipendente di un ente pubblico economico ovvero il dipendente di un ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico […]. La disciplina di cui al presente articolo si applica anche ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica”;
  • l’identità del segnalante non può essere rivelata. Nell’ambito del procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del codice di procedura penale [per approfondire leggi qui!]. Nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte dei conti, l’identità del segnalante non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria. Nell’ambito del procedimento disciplinare l’identità del segnalante non può essere rivelata, ove la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità”;
  • la segnalazione è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni”;
  • è a carico dell’amministrazione pubblica o dell’ente di cui al comma 2 dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa”;
  • gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall’amministrazione o dall’ente sono nulli. 8. Il segnalante che sia licenziato a motivo della segnalazione è reintegrato nel posto di lavoro […]”.

Ovviamente, prosegue l’articolo 54 bis del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, “le tutele di cui al presente articolo non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia di cui al comma 1 ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave”.

Una precisazione prima di concludere … per poter accedere alle tutele previste per il whistleblower è necessario che la segnalazione venga effettuata nel modo corretto! La segnalazione, infatti, deve quantomeno:

  • aver ad oggetto eventi o fatti di cui il dipendente sia venuto a conoscenza (anche casualmente) in occasione dello svolgimento delle proprie mansioni lavorative;
  • basarsi su elementi oggettivi e non su mere dicerie, voci o semplici sospetti come purtroppo spesso accade;
  • essere indirizzata a chi è competente a trattarla, normalmente il “Responsabile della prevenzione della corruzione e per la trasparenza”, figura presente in ogni Ministero e quindi anche presso il Ministero della Difesa. Per sapere chi svolge tale incarico consultate on line il “Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza” (RPCT) del Ministero della Difesa (ci troverete peraltro anche degli utili moduli di segnalazione!).

In passato è infatti accaduto più volte che alcuni giudici, preso atto del fatto che la segnalazione non fosse stata redatta nel modo giusto oppure inviata a chi non era competente a trattarla, non abbiano accordato al whistleblower le tutele previste dall’articolo 54 bis del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, soprattutto per quanto attiene la sottrazione all’accesso documentale, obbligando la Pubblica Amministrazione a esibire la segnalazione ricevuta e, quindi, a rendere conseguentemente noto il nominativo del whistleblower.

Ad maiora!

TCGC

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[1]: articolo 3 del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 – Personale in regime di diritto pubblico:“1. In deroga all’articolo 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché’ i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall’articolo 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n.691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n.281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n.287. 1-bis. In deroga all’articolo 2, commi 2 e 3, il rapporto di impiego del personale, anche di livello dirigenziale, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, esclusi il personale volontario previsto dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 2 novembre 2000, n. 362, e il personale volontario di leva, è disciplinato in regime di diritto pubblico secondo autonome disposizioni ordinamentali. 1-ter. In deroga all’articolo 2, commi 2 e 3, il personale della carriera dirigenziale penitenziaria è disciplinato dal rispettivo ordinamento. 2. Il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato, resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all’articolo 33 della Costituzione ed agli articoli 6 e seguenti della legge 9 maggio 1989, n.168, e successive modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992. n. 421”.

LA “FACOLTÀ DI NON RISPONDERE” (ART. 64 C.P.P.)

Il codice di procedura penale stabilisce che “prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che […] salvo quanto disposto dall’articolo 66 comma 1 [1], ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso” (articolo 64 c.p.p.). Ciò significa sostanzialmente che la persona sottoposta alle indagini, durante l’interrogatorio, non è obbligata a rispondere alle domande che gli vengono rivolte … può insomma legittimamente rimanere in silenzio. Ovviamente, si devono dare tutte le informazioni necessarie alla propria completa identificazione (cioè le proprie generalità eccetera), ma per il resto può serenamente tacere!

A questo punto vi starete probabilmente chiedendo come mai? Per quale ragione si accorda un “privilegio” del genere a chi è accusato di un reato … magari anche grave? Ebbene, dovete sapere che in uno stato di diritto (com’è il nostro) la “facoltà di non rispondere” trova la propria ragion d’essere principalmente nell’esigenza di evitare che un indagato, a prescindere dal reato di cui è accusato, sia obbligato a rispondere sempre e comunque al Pubblico Ministero/Polizia Giudiziaria. Se così fosse, si correrebbe infatti il serio rischio di poter essere fraintesi … “compromettendo” la propria posizione processuale con una dichiarazione che viene messa a verbale e che, conseguentemente, non è poi più possibile rettificare! Il nostro ordinamento giuridico cerca di evitare situazioni del genere partendo dal presupposto che tutti hanno diritto a un “giusto” processo … cosa che, per quanto ci interessa, significa sostanzialmente poter giocare “ad armi pari” quando ci si difende da un’accusa! Credo che a questo punto vi appaia più chiaro come la “facoltà di non rispondere” svolga la fondamentale funzione di riequilibrare i rapporti di forza che, altrimenti, risulterebbero troppo sbilanciati a favore della pubblica accusa, Pubblico Ministero o la Polizia Giudiziaria che sia.

Tanto premesso, nel caso foste interrogati dovete sempre avvalervi della “facoltà di non rispondere” e rimanere quindi in silenzio? Ovviamente no! Bisogna sempre agevolare il lavoro del Pubblico Ministero o della Polizia Giudiziaria … è infatti nel vostro interesse fare in modo che si faccia (velocemente) chiarezza sui fatti e sugli eventi che vi riguardano! Ciò nonostante, molto spesso l’interrogatorio avviene in una fase delle indagini durante la quale la Procura gioca sostanzialmente a “carte coperte” e può quindi accadere (e spesso accade!) di non avere la minima idea di quale sia l’oggetto dell’indagine che ci riguarda. Beh, in linea di principio, in tal caso è consigliabile avvalersi della “facoltà di non rispondere”, attendere la chiusura delle indagini preliminari (momento in cui si inizia cioè a giocare a “carte scoperte” – per approfondire leggi qui!) tenendo ben presente che, una volta che il vostro Avvocato di fiducia avrà finalmente accesso a tutta la documentazione e agli atti che vi riguardano, potrete entro 20 giorni “presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa ad investigazioni del difensore, chiedere al pubblico ministero il compimento di atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio” (art. 415 bis del codice di procedura penale) … fermo restando che se chiedete di “essere sottoposto ad interrogatorio il pubblico ministero deve procedervi”!

Un doveroso chiarimento prima di concludere: quanto detto vale solo per la persona sottoposta alle indagini, cioè per l’indagato. Il testimone, ad esempio, non può esercitare alcuna “facoltà di non rispondere” … anzi, ha al contrario il preciso obbligo di rispondere a tutte le domande che gli vengono fatte dal Pubblico Ministero o dalla Polizia Giudiziaria, non dimenticatelo!

Considerate quanto abbiamo appena detto una chiacchierata tra amici, le cose sono infatti molto più complicate di come può apparire ed è quantomai necessario farsi sempre “guidare” da un professionista del settore perché camminate su un terreno minato! Vi consiglio pertanto di affidarvi al vostro Avvocato di fiducia, soprattutto se magari siete in stato di fermo o, peggio, in custodia cautelare … sarà lui ad individuare la strategia processuale più adatta al vostro caso: ad ognuno il proprio mestiere! Vi lascio con un vecchio detto che fa più o meno così: “… se pensate che rivolgersi a un Avvocato serio costi troppi soldi, non avete idea di quanto potrebbe costarvi caro farvi assistere da quello sbagliato!” … pensateci sopra!

Ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 66, comma 1, c.p.p.:“nel primo atto cui è presente l’imputato, l’autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalità e quant’altro può valere a identificarlo, ammonendolo circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false […]”.

IL MILITARE PUÒ ACCETTARE REGALI?

Un collega mi ha scritto per trovare finalmente risposta a una domanda ricorrente. Si possono accettare regali da soggetti terzi, magari anche esterni all’Amministrazione della Difesa? Mi spiego meglio … può, ad esempio:

  • il Capo Ufficio Amministrazione di una Caserma accettare un regalo natalizio da parte di una Ditta che lavora nella Caserma stessa;
  • un Comandante accettare un regalo da parte di un dipendente che, ad esempio, viene trasferito al termine dell’addestramento?

Tanto detto, qual è, secondo voi, la risposta giusta? Si oppure No? Beh, come accade spesso, la risposta giusta è nel mezzo … i latini dicevano in medio stat virtus (cioè la virtù sta nel mezzo) e come al solito avevano ragione da vendere! Proprio per scongiurare il rischio di avere possibili problemi in futuro, sappiate allora che il dipendente pubblico (e quindi anche il militare!) non può accettare regali a meno che non siano di “modico valore”. Badate bene, ho usato il termine “accettare” e non “chiedere” o, ancora peggio, “sollecitare” o “pretendere”, perché così facendo si potrebbe incorrere in reati quali la concussione o la corruzione … ma questo non è il topic di questo post! Tornando quindi al nostro discorso, sappiate che l’articolo 54 [1] del Decreto Legislativo n. 165 del 2001 “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” prevede “per tutti i dipendenti pubblici il divieto di chiedere o di accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità, in connessione con l’espletamento delle proprie funzioni o dei compiti affidati, fatti salvi i regali d’uso, purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia”.

Ma quando un regalo si considera di “modico valore”? Vi dico subito che vengono considerati di “modico valore” i regali dal valore orientativo di 150 euro. Tale cifra è stata espressamente indicata all’articolo 4 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 62 del 2013 “Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”, titolato proprio “Regali, compensi e altre utilità”. Dato che siete arrivati a leggere fin qui e che tale articolo presenta dei contenuti interessanti, ve lo posto integralmente:“1. Il dipendente non chiede, né sollecita, per sé o per altri, regali o altre utilità. 2. Il dipendente non accetta, per sé o per altri, regali o altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore effettuati occasionalmente nell’ambito delle normali relazioni di cortesia e nell’ambito delle consuetudini internazionali. In ogni caso, indipendentemente dalla circostanza che il fatto costituisca reato, il dipendente non chiede, per sé o per altri, regali o altre utilità, neanche di modico valore a titolo di corrispettivo per compiere o per aver compiuto un atto del proprio ufficio da soggetti che possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio, né da soggetti nei cui confronti è o sta per essere chiamato a svolgere o a esercitare attività o potestà proprie dell’ufficio ricoperto. 3. Il dipendente non accetta, per sé o per altri, da un proprio subordinato, direttamente o indirettamente, regali o altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore. Il dipendente non offre, direttamente o indirettamente, regali o altre utilità a un proprio sovraordinato, salvo quelli d’uso di modico valore. 4. I regali e le altre utilità comunque ricevuti fuori dai casi consentiti dal presente articolo, a cura dello stesso dipendente cui siano pervenuti, sono immediatamente messi a disposizione dell’Amministrazione per la restituzione o per essere devoluti a fini istituzionali. 5. Ai fini del presente articolo, per regali o altre utilità di modico valore si intendono quelle di valore non superiore, in via orientativa, a 150 euro, anche sotto forma di sconto. I codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni possono prevedere limiti inferiori, anche fino all’esclusione della possibilità di riceverli, in relazione alle caratteristiche dell’ente e alla tipologia delle mansioni. 6. Il dipendente non accetta incarichi di collaborazione da soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico significativo in decisioni o attività inerenti all’ufficio di appartenenza. 7. Al fine di preservare il prestigio e l’imparzialità dell’amministrazione, il responsabile dell’ufficio vigila sulla corretta applicazione del presente articolo” (art. 4 del D.P.R. n. 62 del 2013).

Credo che a questo punto abbiate tutti gli strumenti per capire da soli se potete o meno accettare il regalo che vi è stato appena fatto … non mi resta quindi che salutarvi, ad maiora!

TCGC

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[1]: come modificato dalla legge n. 190 del 2012 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.

LA COMPETENZA TERRITORIALE DI TRIBUNALI E PROCURE MILITARI

La competenza territoriale di Tribunali e Procure Militari viene essenzialmente disciplinata dal Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM). L’articolo 55 del COM, titolato proprio “Circoscrizioni territoriali”, stabilisce infatti che:“1. I Tribunali militari e le Procure militari sono tre e hanno sede in Verona, Roma e Napoli. 2. Il Tribunale militare e la Procura militare di Verona hanno competenza in ordine ai reati militari commessi nelle regioni Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino Alto-Adige, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Emilia- Romagna. 3. Il Tribunale militare e la Procura militare di Roma hanno competenza in ordine ai reati militari commessi nelle regioni Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Sardegna. 4. Il Tribunale militare e la Procura militare di Napoli hanno competenza in ordine ai reati militari commessi nelle regioni Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia”.

Naturalmente, in ossequio a quanto previsto dall’articolo 8 del codice di procedura penale [1], tale competenza territoriale viene individuata sulla base del luogo dove è stato commesso il reato … mi spiego meglio: se la mia Unità ha sede nel nord Italia, ad esempio in Piemonte, ma io commetto un reato militare durante un campo addestrativo, ad esempio in Sardegna, la Procura Militare chiamata ad indagare sarà quella di Roma (nella cui area di competenza territoriale ricade la regione Sardegna) e non quella di Verona (anche se normalmente competente per i reati militari commessi presso la sede stanziale della mia Unità di appartenenza). La stessa cosa avverrà ovviamente per il Tribunale Militare: verrò cioè giudicato dal Tribunale Militare di Roma (e non da quello di Verona!).

Un’ultima cosa prima di concludere … e se il reato viene commesso all’estero, ad esempio in missione? Chi sarà competente? Nulla di complicato: come al solito è tutto scritto, basta solo sapere dove! Infatti, sia l’articolo 19 della legge n. 145 del 2016 che l’articolo 273, primo comma, del codice penale militare di pace (CPMP) prevedono in tal caso che la competenza sia del Tribunale Militare di Roma. La cosa non vale però per i reati commessi in corso di navigazione, su navi o aeromobili militari, perchè in tal caso è competente il “Tribunale militare del luogo di stanza dell’unità militare alla quale appartiene l’imputato” (art. 273, secondo comma, del CPMP).

Ovviamente le cose sono ben più complicate ma, in considerazione del taglio “pratico” che abbiamo deciso di dare ai post di avvocatomilitare.com, penso per il momento di non dover aggiungere altro … ad maiora!

TCGC

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[1]: articolo 8 del codice di procedura penale:“1. La competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato. 2. Se si tratta di fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice del luogo in cui è avvenuta l’azione o l’omissione. 3. Se si tratta di reato permanente, è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone. 4. Se si tratta di delitto tentato, è competente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto”.

È VERO CHE IL COMANDANTE DEVE “AFFONDARE” CON LA PROPRIA NAVE?

Un collega mi scrive per sapere se esiste davvero una norma che obblighi il Comandante di una nave ad “affondare” con essa (ad esempio in caso di naufragio). Beh … iniziamo subito col dire che la risposta è no! Dal punto di vista giuridico, infatti, non esiste un alcun obbligo del genere (fortunatamente direi!) sebbene nel passato, anche non lontanissimo, si siano effettivamente registrati episodi di eroismo del genere.

Tanto premesso, sappiate che dal punto di vista giuridico il Comandante ha però un particolare e qualificato dovere di esporsi al pericolo: infatti, il Codice della navigazione (R.D. n. 327 del 1942) prevede espressamente che “[…] il comandante deve abbandonare la nave per ultimo, provvedendo in quanto possibile a salvare le carte e i libri di bordo, e gli oggetti di valore affidati alla sua custodia” (articolo 303 del Codice della navigazione – Abbandono della nave in pericolo). Essendo, tra l’altro, il naturale organizzatore e controllore delle modalità di sbarco dell’equipaggio e dell’eventuale personale trasportato, deve logicamente essere l’ultimo ad abbandonare la propria nave e il mancato rispetto di tale obbligo (giuridico) viene addirittura sanzionato penalmente: infatti, sempre ai sensi del Codice della navigazione, “il comandante, che, in caso di abbandono della nave, del galleggiante o dell’aeromobile in pericolo, non scende per ultimo da bordo, è punito con la reclusione fino a due anni. Se dal fatto deriva l’incendio, il naufragio o la sommersione della nave o del galleggiante, ovvero l’incendio, la caduta o la perdita dell’aeromobile, la pena è da due ad otto anni. Se la nave o l’aeromobile è adibito a trasporto di persone, la pena è da tre a dodici anni” (articolo 1097 del Codice della navigazione – Abbandono di nave o di aeromobile in pericolo da parte del comandante).

Fa da contorno a quanto appena detto il successivo articolo 1098 del Codice della navigazione, titolato “Abbandono di nave o di aeromobile in pericolo da parte di componente dell’equipaggio”, ai sensi del quale “il componente dell’equipaggio, che senza il consenso del comandante abbandona la nave o il galleggiante in pericolo, è punito con la reclusione fino a un anno. Alla stessa pena soggiace il componente dell’equipaggio dell’aeromobile, che senza il consenso del comandante si lancia col paracadute o altrimenti abbandona l’aeromobile in pericolo. Se dal fatto deriva l’incendio, il naufragio o la sommersione della nave o del galleggiante ovvero l’incendio, la caduta o la perdita dell’aeromobile, la pena è da due ad otto anni. Se la nave o l’aeromobile è adibito a trasporto di persone, la pena è da tre a dodici anni”.

Non me ne vogliano i colleghi della Marina, so benissimo che c’è altro da dire ma questo post non è stato scritto per loro … ma per chi conosce meno la materia e cerca solo qualche spunto per approfondire!

TCGC

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LA GUARDIA COSTIERA – CAPITANERIA DI CORPO SVOLGE ANCHE FUNZIONI DI POLIZIA GIUDIZIARIA?

Iniziamo col dire che la risposta è si! Infatti, l’articolo 1235 del Codice della navigazione [1] (R.D. n. 327 del 1942) prevede che: “[…] sono ufficiali di polizia giudiziaria: 1) i comandanti gli ufficiali del Corpo delle capitanerie di porto, gli ufficiali del Corpo equipaggi militari marittimi appartenenti al ruolo servizi portuali, i sottufficiali del Corpo equipaggi militari marittimi appartenenti alla categoria servizi portuali, i direttori e i delegati di aeroporto, i delegati di campo di fortuna, riguardo ai reati previsti dal presente Codice, nonché riguardo ai reati comuni commessi nel porto o nell’aeroporto, se in tali luoghi mancano uffici di pubblica sicurezza. Negli aeroporti in cui non ha sede un ENAC o non risiede alcun delegato, le funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria: sono attribuite al ENAC nella cui circoscrizione l’aeroporto è compreso; 2) i comandanti delle navi o degli aeromobili, riguardo ai reati commessi a bordo in corso di navigazione, nonché riguardo agli atti di polizia giudiziaria ordinati e alle delegazioni disposte dall’autorità giudiziaria; 3) i consoli, riguardo ai reati previsti da questo Codice commessi all’estero, oltre che negli altri casi contemplati dalla legge consolare; 4) i comandanti delle navi da guerra nazionali per gli atti che compiono su richiesta dell’autorità consolare o, in caso di urgenza di propria iniziativa. I comandanti stessi vigilano sia in alto mare sia nelle acque territoriali di altro Stato sulla polizia giudiziaria esercitata dai comandanti delle navi nazionali. Sono agenti di polizia giudiziaria, riguardo ai reati previsti dal presente Codice, nonché riguardo ai reati comuni commessi nel porto, se in tale luogo mancano uffici di pubblica sicurezza, i sottocapi e comuni del Corpo equipaggi militari marittimi appartenenti alla categoria, servizi portuali. Assumono le funzioni di agenti di polizia giudiziaria i sottocapi e comuni di altre categorie del Corpo equipaggi militari marittimi destinati presso le capitanerie di porto e uffici marittimi minori, i funzionari e gli agenti dell’Amministrazione della navigazione interna, i funzionari e gli agenti degli aeroporti statali o privati, in seguito alla richiesta di cooperazione da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria. Sono inoltre agenti di polizia giudiziaria gli agenti degli uffici di porto ovvero di aeroporto statale o privato in servizio di ronda”.

Inoltre, ai sensi dell’articolo 137 del Decreto legislativo n. 66 del 2010Codice dell’ordinamento militare(cosiddetto COM), “il Corpo delle capitanerie di porto – Guardia costiera svolge, nell’ambito delle attribuzioni di polizia giudiziaria previste dall’articolo 1235 del codice della navigazione e da altre leggi speciali, nonché ai sensi dell’articolo 57, comma 3, del codice di procedura penale, le sottoelencate funzioni, riconducibili nelle più generali competenze di altri ministeri: a) esercita l’attività di polizia stradale, ai sensi dell’articolo 12, comma 3, lettera f), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285; b) presta, ai sensi dell’articolo 11 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, nell’ambito della struttura permanente presso il Dipartimento della protezione civile, la necessaria collaborazione operativa per la pianificazione e la gestione delle emergenze in mare; c) concorre nell’attività di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope, nei termini stabiliti dagli articoli 5 e 99 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309; d) concorre nell’attività di contrasto all’immigrazione illegale, ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lettera d), della legge 30 luglio 2002, n. 189; e) concorre alla vigilanza finalizzata all’individuazione e alla salvaguardia dei beni del patrimonio storico, artistico e archeologico, con particolare riguardo ai reperti archeologici sommersi; f) attua le competenze a esso demandate in materia di disciplina del collocamento della gente di mare”.

Mi fermo qui … penso infatti che l’argomento sia sufficientemente chiaro.

TCGC

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[1]: in combinato disposto con l’articolo 57, comma 3, del codice di procedura penale che prevede che “[…] sono altresì ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio cui sono destinate e secondo le rispettive attribuzioni, le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall’articolo 55”.

SIMULAZIONE DI REATO O CALUNNIA?

Simulazione di reato o calunnia? Beh … i due termini non sono intercambiabili ma fanno riferimento a due ben distinti reati! Facendo un poco di ordine in materia, tenete ben presente che il reato di:

  • simulazione di reato sanziona “chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, afferma falsamente essere avvenuto un reato, ovvero simula le tracce di un reato, in modo che si possa iniziare un procedimento penale per accertarlo, è punito con la reclusione da uno a tre anni” (articolo 367 del codice penale).
  • calunnia, punisce invece “chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne o alla Corte penale internazionale, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se s’incolpa taluno di un reato pel quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave. La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo” (articolo 368 del codice penale).

Come appare agevole intuire, entrambi i reati tutelano il corretto funzionamento della giustizia [1], ma si differenziano essenzialmente nel fatto che con:

  • la simulazione di reato viene solo diffusa una (falsa) notizia di reato (per approfondire leggi qui!) oppure vengono simulate delle tracce di un reato, tali cioè da far iniziare un procedimento penale per accertarlo;
  • la calunnia, invece, la notizia di reato (per approfondire leggi qui!) o la simulazione delle relative tracce viene “indirizzata” dal calunniatore verso un falso responsabile che si sa essere innocente … nella calunnia, a differenza della simulazione, il reato viene quindi attribuito ad una persona specifica, che può essere anche il calunniatore stesso (siamo nel caso dell’autocalunnia prevista e punita dall’articolo 369 [2] del codice penale)

L’articolo 370 del codice penale prevede un’attenuante speciale: infatti, “le pene stabilite negli articoli precedenti sono diminuite se la simulazione o la calunnia concerne un fatto preveduto dalla legge come contravvenzione” … stiamo qui sostanzialmente parlando dei reati previsti del codice penale dall’articolo 650 in poi.

Un piccola precisazione prima di concludere: entrambi i reati danno rilevanza alle denunce fatte in forma “anonima o sotto falso nome” e la cosa può risultare molto utile in un Paese dove le segnalazioni anonime o apocrife sono purtroppo all’ordine del giorno, in ogni settore. Mi spiego … se siete stati oggetto di uno scritto anonimo o apocrifo di cui viene poi individuato l’autore, sappiate che potete procedere nei relativi confronti per calunnia o simulazione di reato … non solo cioè per semplice diffamazione come accade di solito … parlatene con il vostro Avvocato di fiducia!

TCGC

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[1]: è doveroso fare qui un piccolo distinguo: la simulazione di reato, infatti, mira ad evitare “intralci” derivanti dall’instaurazione di procedimenti penali inutili, mentre la calunnia cerca invece di scongiurare il rischio che venga aperto un procedimento penale nei confronti di un innocente.

[2]: art. 369 del c.p. – Autocalunnia:“Chiunque, mediante dichiarazione ad alcuna delle Autorità indicate nell’articolo precedente, anche se fatta con scritto anonimo o sotto falso nome, ovvero mediante confessione innanzi all’Autorità giudiziaria, incolpa se stesso di un reato che egli sa non avvenuto, o di un reato commesso da altri, è punito con la reclusione da uno a tre anni”.

L’INDEBITA RIVELAZIONE DI SEGRETI PROCESSUALI

L’articolo 379 bis del codice penale prevede che “[…] chiunque rivela indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per avere partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso, è punito con la reclusione fino a un anno. La stessa pena si applica alla persona che, dopo aver rilasciato dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari, non osserva il divieto imposto dal pubblico ministero ai sensi dell’articolo 391 quinquies del codice di procedura penale”.

Il reato di rivelazione di segreti processuali può essere commesso da chiunque (quindi non necessariamente solo da agenti o ufficiali di Polizia Giudiziaria!) “riveli” notizie:

  • apprese perché si ha partecipato o anche solo assistito a qualche atto del procedimento penale in questione;
  • per le quali il Pubblico Ministero abbia vietato la divulgazione ai sensi dell’articolo 391 quinquies [1] del codice di procedura penale ovverosia notizie riguardanti l’attività di indagine per la quale si è stati sentiti.

Quanto precede solo per evidenziarvi che non è mai il caso di fare “chiacchiere da bar” quando l’oggetto delle nostre conversazioni verte su di un procedimento penale … e la cosa non è solo una questione di professionalità o di etica militare: una leggerezza del genere potrebbe infatti costarvi molto cara anche dal punto di vista penale!

TCGC

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[1]: art. 391 quinques c.p.p. – Potere di segretazione del pubblico ministero:“1. Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero può, con decreto motivato, vietare alle persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza. Il divieto non può avere una durata superiore a due mesi. 2. Il pubblico ministero, nel comunicare il divieto di cui al comma 1 alle persone che hanno rilasciato le dichiarazioni, le avverte delle responsabilità penali conseguenti all’indebita rivelazione delle notizie”. 

LE FALSE DICHIARAZIONI AL PUBBLICO MINISTERO

Cosa succede se, chiamati dal Pubblico Ministero (poco importa se militare o ordinario) a riferire su determinati fatti non si è “sinceri” al 100%? Mi spiego meglio, cosa accade si “dimentica” intenzionalmente di riferire su alcune cose (non stiamo ovviamente parlando di una semplice dimenticanza … di un qualcosa di cui cioè vi siete semplicemente scordati!) o, addirittura, si ha la malaugurata idea di dichiarare il falso? Beh, la questione non è da poco! Prescindendo dagli ovvii risvolti disciplinari (anche di stato!) che una situazione del genere potrebbe comportare per un militare, sappiate che si corre il rischio di passare dei guai molto seri. Infatti, l’articolo 371 bis del codice penale stabilisce che “chiunque, nel corso di un procedimento penale, richiesto dal pubblico ministero o dal procuratore della Corte penale internazionale di fornire informazioni ai fini delle indagini, rende dichiarazioni false ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito, è punito con la reclusione fino a quattro anni […]”.

Tale reato, collocato nel codice penale nella parte relativa ai “delitti contro l’attività giudiziaria”, mira ovviamente a preservare e garantire il corretto funzionamento della Giustizia durante le indagini. Ecco perché si punisce chi tace il vero, dice o certifica il falso al Pubblico Ministero … insomma … detto altrimenti, “inganni” intenzionalmente il Magistrato che sta svolgendo l’attività investigativa!

Ovviamente, le cose si complicano se poi si tace o si mente quando si deve riferire in qualità di testimone nel processo vero e proprio … quando cioè, come accade nei telefilm americani, si è “chiamati alla sbarra”. In tal caso, si commette infatti il reato di falsa testimonianza, previsto e punito dall’articolo 372 del codice penale, che prevede che “chiunque, deponendo come testimone innanzi all’Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione da due a sei anni”.

Come vedete, quanto detto non è molto complicato da capire … per questo motivo non mi ci soffermo troppo sopra. Prima di concludere, però, vi offro un paio di spunti ulteriori … dovete infatti sapere che:

  • il codice penale punisce anche chi “corrompe”, minaccia, usa violenza o anche solo “induce” (detto altrimenti istiga o incita) una persona a fare false dichiarazioni o a tacere all’Autorità Giudiziaria (articolo 377 [1] del codice penale);
  • esiste la possibilità di fare un passo indietro, cioè di “ritrattare” quello che si è detto o non si è detto al Pubblico Ministero … ma solo prima della fine del dibattimento! Non è infatti punibile chi “nel procedimento penale in cui ha prestato il suo ufficio o reso le sue dichiarazioni, ritratta il falso e manifesta il vero non oltre la chiusura del dibattimento”;
  • non esiste alcun reato di false dichiarazioni alla Polizia Giudiziaria. Ciò nonostante, fate molta attenzione perché dichiarando il falso o tacendo il vero alla PG potreste commettere il reato di favoreggiamento personale di cui all’articolo 378 [2] del codice penale.

TCGC

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[1]: art. 377 c.p. – Intralcio alla Giustizia:“Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni al difensore nel corso dell’attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371bis, 371ter, 372 e 373, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi ridotte dalla metà ai due terzi. La stessa disposizione si applica qualora l’offerta o la promessa sia accettata, ma la falsità non sia commessa. Chiunque usa violenza o minaccia ai fini indicati al primo comma, soggiace, qualora il fine non sia conseguito, alle pene stabilite in ordine ai reati di cui al medesimo primo comma, diminuite in misura non eccedente un terzo”.

[2]: art. 378 c.p. – Favoreggiamento personale:“Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’Autorità, comprese quelle svolte da organi della Corte penale internazionale, o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti, è punito con la reclusione fino a quattro anni. Quando il delitto commesso è quello previsto dall’articolo 416bis, si applica, in ogni caso, la pena della reclusione non inferiore a due anni. Se si tratta di delitti per i quali la legge stabilisce una pena diversa, ovvero di contravvenzioni, la pena è della multa fino a euro 516 […]”.

IL REATO DI OMESSA DENUNCIA ALL’AUTORITÀ GIUDIZIARIA

L’articolo 361 del codice penale prevede che “il pubblico ufficiale [per approfondire leggi qui!], il quale omette o ritarda di denunciare all’Autorità giudiziaria, o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da euro 30 a euro 516. La pena è della reclusione fino ad un anno, se il colpevole è un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria, che ha avuto comunque notizia di un reato del quale doveva fare rapporto […]”.

Il successivo articolo 362 del codice penale sanziona, invece, l’incaricato di un pubblico servizio [per approfondire leggi qui!], che omette o ritarda di denunciare all’Autorità indicata nell’articolo precedente [1] un reato del quale abbia avuto notizia nell’esercizio o a causa del servizio, è punito con la multa fino a euro 103 […]”.

Tali articoli sono molto intuitivi e semplici da comprendere, ecco perchè non mi ci sono dilungato troppo sopra … ma un paio di chiarimenti ritengo siano più che doverosi. Ebbene, tenete bene a mente che il reato di omessa denuncia, sia del pubblico ufficiale che dell’incaricato di pubblico servizio (per approfondire leggi qui!), si integra solo per i reati:

  • di cui si è venuti a conoscenza nell’esercizio o a causa delle funzioni/servizio svolto … ciò significa che non c’è alcuna omissione di denuncia se non viene denunciato un reato di cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ha preso conoscenza, ad esempio, in strada mentre tornava a casa a fine servizio oppure durante la riunione di condominio;
  • procedibili d’ufficio e, quindi, non si configura per i reati procedibili a querela della persona offesa (per approfondire leggi qui!).

Tanto detto, sappiate che il reato di omessa denuncia, quando commesso da un pubblico ufficiale che sia anche ufficiale o agente di Polizia giudiziaria, è aggravato! Infatti, ai sensi dell’articolo 361 del codice penale, comporta addirittura la reclusione fino ad un anno!

Se siete arrivati a leggere fin quì vi starete chiedendo … entro quando il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’ufficiale o l’agente di Polizia Giudiziaria devono denunciare/comunicare la notizia di reato all’Autorità Giudiziaria? Gli articoli 331 [2] e 347 [3] del codice di procedura penale parlano di “senza ritardo”, mentre gli articoli 301 [4] e 304 [5] del codice penale militare di pace (CPMP) usano il termine “immediatamente” … beh, in assenza di indicazioni temporali precise, diciamo che è meglio interessare il Pubblico Ministero il prima possibile, anche senza interrompere le indagini (naturalmente quando parlo di indagini sto facendo riferimento ai soli ufficiali o agenti di PG, dato che i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio non fanno alcuna indagine e si limitano a denunciare sic et simpliciter) … fermo restando che una semplice telefonata al Magistrato di turno in Procura può fugare ogni dubbio, scongiurando il rischio di incorrere in una qualche responsabilità penale!

Una precisazione prima di concludere … sappiate che quando l’omessa denuncia riguarda un reato contro la personalità dello Stato [6], tutte le pene si inaspriscono [7] … e di molto! Infatti, l’articolo 363 del codice penale, titolato proprio “omessa denuncia aggravata”, stabilisce che “se la omessa o ritardata denuncia riguarda un delitto contro la personalità dello Stato, la pena [per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio] è della reclusione da sei mesi a tre anni; ed è da uno a cinque anni, se il colpevole è un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria”.

TCGC

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[1]: cioè all’Autorità Giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne.

[2]: art. 331 c.p.p. – Denuncia da parte di pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio:“1. Salvo quanto stabilito dall’articolo 347, i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio che, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito. 2. La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria. 3. Quando più persone sono obbligate alla denuncia per il medesimo fatto, esse possono anche redigere e sottoscrivere un unico atto. 4. Se, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, emerge un fatto nel quale si può configurare un reato perseguibile di ufficio, l’autorità che procede redige e trasmette senza ritardo la denuncia al pubblico ministero”.

[3]: art. 347 c.p.p. – Obbligo di riferire della notizia di reato:“1. Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico Ministero, per iscritto, gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute, delle quali trasmette la relativa documentazione. 2. Comunica, inoltre, quando è possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti. 2-bis. Qualora siano stati compiuti atti per i quali è prevista l’assistenza del difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, la comunicazione della notizia di reato è trasmessa al più tardi entro quarantotto ore dal compimento dell’atto, salvo le disposizioni di legge che prevedono termini particolari. 3. Se si tratta di taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6), del presente codice, o di uno dei delitti previsti dagli articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies, 612 bis e 612 ter del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583 quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice penale, e, in ogni caso, quando sussistono ragioni di urgenza, la comunicazione della notizia di reato è data immediatamente anche in forma orale. Alla comunicazione orale deve seguire senza ritardo quella scritta con le indicazioni e la documentazione previste dai commi 1 e 2. 4. Con la comunicazione, la polizia giudiziaria indica il giorno e l’ora in cui ha acquisito la notizia”.

[4]: art. 301 CPMP – Persone che esercitano le funzioni di polizia giudiziaria militare:“Per i reati soggetti alla giurisdizione militare, […] le funzioni di polizia giudiziaria sono esercitate nell’ordine seguente: 1. dai comandanti di corpo, di distaccamento o di posto delle varie forze armate; 2. dagli ufficiali e sottufficiali dei carabinieri e dagli altri ufficiali di polizia giudiziaria indicati nell’articolo 57del codice di procedura penale. Concorrendo più militari fra quelli rispettivamente indicati nei nn. 1 e 2, le funzioni sono esercitate dal più elevato in grado o, a parità di grado, dal più anziano. I militari suddetti hanno la facoltà di richiedere la forza pubblica. In ogni caso, tutte le persone indicate nel primo comma, senza interrompere le indagini, devono informarne immediatamente il procuratore militare della Repubblica”.

[5]: art. 304 CPMP – Trasmissione degli atti e informazioni al procuratore militare della Repubblica:“Terminate le operazioni, le persone indicate nell’articolo 301 devono trasmettere immediatamente gli atti compilati e le cose sequestrate al procuratore militare della Repubblica. Le dette persone devono inoltre riferire al procuratore militare della Repubblica ogni notizia che loro successivamente pervenga, e compiere in qualsiasi momento gli atti necessari per assicurare le prove del reato”.

[6]: cioè quei reati che minacciano l’integrità, la sicurezza, l’ordine Costituzionale eccetera … il riferimento è agli articoli del codice penale che vanno grossomodo dal 241 al 313.

[7]: e possono riguardare anche il privato cittadino. Infatti, ai sensi dell’articolo 364 c.p., “il cittadino, che, avendo avuto notizia di un delitto contro la personalità dello Stato, per il quale la legge stabilisce l’ergastolo, non ne fa immediatamente denuncia all’Autorità indicata nell’articolo 361, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 103 a euro 1.032”.

DENUNCIA, INFORMATIVA DI PG, REFERTO O QUERELA?

Facciamo un poco di chiarezza perché la denuncia, l’informativa di Polizia Giudiziaria (PG), il referto e la querela non sono assolutamente dei sinonimi ma, al contrario, rappresentano quattro differenti modalità di comunicazione delle notizie di reato (per approfondire leggi qui!) al Pubblico Ministero e/o alla Polizia Giudiziaria che devono esser tenute ben distinte. Infatti:

  • la denuncia è quella segnalazione con la quale un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio (per approfondire leggi qui!) o un soggetto privato mettono a conoscenza Pubblico Ministero o la Polizia Giudiziaria che è stato commesso un reato perseguibile d’ufficio [1] [2]. Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio sono obbligati a fare “senza ritardo” denuncia [3], altrimenti possono incorrere nel reato di omessa denuncia (per approfondire leggi qui!). Per quanto riguarda i contenuti della denuncia, come emerge dalla lettura dell’articolo 332 del codice di procedura penale, questa “contiene la esposizione degli elementi essenziali del fatto e indica il giorno dell’acquisizione della notizia nonché le fonti di prova già note. Contiene inoltre, quando è possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona alla quale il fatto è attribuito, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti”;
  • l’informativa di PG o comunicazione della notizia di reato (ex art. 347 c.p.p. – per approfondire leggi qui!) è quella segnalazione che viene fatta al Pubblico Ministero direttamente dalla Polizia Giudiziaria nel caso in cui quest’ultima acquisisca una notizia di reato (per sapere quale sia la competenza territoriale delle Procure Militari leggi qui!). Tale informativa è grossomodo una denuncia “qualificata” in considerazione delle competenze e prerogative proprie degli ufficiali e degli agenti di PG [4]. Infatti, a differenza di quanto accade per la “semplice” denuncia effettuata da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, l’articolo 347 del codice di procedura penale prevede che la Polizia Giudiziaria (anche militare!) “acquisita la notizia di reato […], senza ritardo, riferisce al pubblico Ministero, per iscritto, gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute, delle quali trasmette la relativa documentazione. 2. Comunica, inoltre, quando è possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti. 2-bis. Qualora siano stati compiuti atti per i quali è prevista l’assistenza del difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, la comunicazione della notizia di reato è trasmessa al più tardi entro quarantotto ore dal compimento dell’atto, salvo le disposizioni di legge che prevedono termini particolari. 3. […] Alla comunicazione orale deve seguire senza ritardo quella scritta con le indicazioni e la documentazione previste dai commi 1 e 2. 4. Con la comunicazione, la polizia giudiziaria indica il giorno e l’ora in cui ha acquisito la notizia”;
  • il referto è, invece, quella segnalazione che un esercente una professione sanitaria (medico, veterinario, infermiere eccetera … anche militare ovviamente!) deve effettuare nel caso in cui abbia prestato la propria “assistenza o opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio” (articolo 365 del codice penale – per approfondire il reato di omesso referto leggi qui!). Il referto deve essere fatto “pervenire entro quarantotto ore o, se vi è pericolo nel ritardo, immediatamente al pubblico ministero o a qualsiasi ufficiale di polizia giudiziaria del luogo in cui ha prestato la propria opera o assistenza ovvero, in loro mancanza, all’ufficiale di polizia giudiziaria più vicino”. Per quanto riguarda i contenuti, credo sia sufficiente ricordare che il referto, ai sensi dell’articolo 334 del codice di procedura penale, deve contenere l’indicazione della “persona alla quale è stata prestata assistenza e, se è possibile, le sue generalità, il luogo dove si trova attualmente e quanto altro valga a identificarla nonché il luogo, il tempo e le altre circostanze dell’intervento; dà inoltre le notizie che servono a stabilire le circostanze del fatto, i mezzi con i quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o può causare […]. Se più persone hanno prestato la loro assistenza nella medesima occasione, sono tutte obbligate al referto, con facoltà di redigere e sottoscrivere un unico atto”;
  • la querela (che, badate bene, non esiste nel diritto penale militare perché tutti i reati sono procedibili d’ufficio!) è, ai sensi dell’articolo 336 [5] del codice di procedura penale, quell’atto mediante il quale un soggetto manifesta la volontà che venga perseguito un reato (procedibile a querela di parte appunto!) di cui è rimasto vittima. Secondo l’articolo 120 del codice penale, il diritto di querela sorge in capo a “ogni persona offesa da un reato per cui non debba procedersi d’ufficio o dietro richiesta o istanza […]”. Quando dovete presentare una querela ricordatevi che essa deve necessariamente contenere almeno questi due elementi: (1.) la notizia di reato (per approfondire leggi qui!) e (2.) la chiara ed inequivocabile volontà che si preceda penalmente in ordine a tale reato. Detto altrimenti, chi legge la vostra querela (Pubblico Ministero o Polizia giudiziaria che sia) deve capire che è stato commesso un reato ai vostri danni e che volete che venga perseguito il suo autore. Riguardo ai termini per presentare querela, l’articolo 126 del codice penale stabilisce che “il diritto di querela non può essere esercitato, decorsi tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato”, salvo nel caso del reato di violenza sessuale (articoli 609 bis e ter del codice penale) che prevede un termine maggiore per proporre querela pari a 12 mesi (articolo 609 septies del codice penale).

Spero di aver fatto un poco di chiarezza … ora penso che per voi sia sufficientemente semplice comprendere la differenza fondamentale che sussiste tra i:

  • reati procedibili d’ufficio, per i quali la mera segnalazione del reato fatta da chiunque al Pubblico Ministero o alla Polizia Giudiziaria (quindi, sotto forma di denuncia, informativa di PG o referto) è condizione sufficiente affinché il procedimento penale prenda automaticamente il via;
  • reati procedibili a querela di parte per i quali, invece, è necessario che la persona offesa del reato (cioè la vittima e questa soltanto!) manifesti la propria inequivocabile volontà che si proceda penalmente nei confronti dell’autore del reato stesso.

TCGC

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[1]: art. 331 c.p.p. – Denuncia da parte di pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio:“1. Salvo quanto stabilito dall’articolo 347, i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio che, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito. 2. La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria. 3. Quando più persone sono obbligate alla denuncia per il medesimo fatto, esse possono anche redigere e sottoscrivere un unico atto. 4. Se, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, emerge un fatto nel quale si può configurare un reato perseguibile di ufficio, l’autorità che procede redige e trasmette senza ritardo la denuncia al pubblico ministero”.

[2]: art. 333 c.p.p. – Denuncia da parte di privati:“1. Ogni persona che ha notizia di un reato perseguibile di ufficio può farne denuncia. La legge determina i casi in cui la denuncia è obbligatoria. 2. La denuncia è presentata oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria; se è presentata per iscritto, è sottoscritta dal denunciante o da un suo procuratore speciale […]”.

[3]: e, per alcuni reati, lo è anche il privato cittadino. Infatti, ai sensi dell’articolo 364 c.p., “il cittadino, che, avendo avuto notizia di un delitto contro la personalità dello Stato, per il quale la legge stabilisce l’ergastolo, non ne fa immediatamente denuncia all’Autorità indicata nell’articolo 361, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 103 a euro 1.032”.

[4]: art. 55 c.p.p. – Funzioni della Polizia giudiziaria:“1. La polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale. 2. Svolge ogni indagine e attività disposta o delegata dall’autorità giudiziaria. 3. Le funzioni indicate nei commi 1 e 2 sono svolte dagli ufficiali e dagli agenti di polizia giudiziaria”.

[5]: art. 336 c.p.p. – Querela:“La querela è proposta mediante dichiarazione nella quale, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, si manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato”.

IL REATO DI OMISSIONE DI REFERTO

L’art. 365 del codice penale stabilisce che “chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità indicata nell’articolo 361 [cioè all’Autorità Giudiziaria, o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne] è punito con la multa fino a cinquecentosedici euro”.

Il reato di omissione di referto si perfeziona quindi allorquando un esercente una professione sanitaria (quindi non solo il medico, ma anche il veterinario, il farmacista, l’infermiere eccetera … non importa poi se trattasi di militare o civile!) abbia acquisito, mentre prestava la propria assistenza o opera professionale, una notizia di reato (per approfondire leggi qui!) procedibile d’ufficio e non abbia trasmesso il relativo referto (per approfondire leggi qui!) al Pubblico Ministero o alla Polizia Giudiziaria entro le successive 48 ore [1].

Dato che siete arrivati a legger fino a quì, vi do una priccola informazione in più … ebbene, sappiate che il secondo comma del citato articolo 365 del codice penale prevede una speciale causa di non punibilità per l’esercente la professione sanitaria che scatta “quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale”.

Penso che non ci sia molto altro da aggiungere … passo quindi la palla al vostro Avvocato di fiducia per farvi dire il resto!

TCGC

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[1]: art. 334 c.p.p. – Referto:“1. Chi ha l’obbligo del referto deve farlo pervenire entro quarantotto ore o, se vi è pericolo nel ritardo, immediatamente al pubblico ministero o a qualsiasi ufficiale di polizia giudiziaria del luogo in cui ha prestato la propria opera o assistenza ovvero, in loro mancanza, all’ufficiale di polizia giudiziaria più vicino. 2. Il referto indica la persona alla quale è stata prestata assistenza e, se è possibile, le sue generalità, il luogo dove si trova attualmente e quanto altro valga a identificarla nonché il luogo, il tempo e le altre circostanze dell’intervento; dà inoltre le notizie che servono a stabilire le circostanze del fatto, i mezzi con i quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o può causare. 3. Se più persone hanno prestato la loro assistenza nella medesima occasione, sono tutte obbligate al referto, con facoltà di redigere e sottoscrivere un unico atto”.

LA NOTIZIA DI REATO

La notizia di reato (detta anche “alla latina” notitia criminis) è quell’elemento d’informazione attraverso il quale il Pubblico Ministero o la Polizia Giudiziaria vengono a conoscenza del fatto che è stato commesso un reato … essa rappresenta cioè il presupposto dell’attività di indagine! L’articolo 330 del codice di procedura penale stabilisce al riguardo che il “pubblico Ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate o trasmesse […]” da privati cittadini o da persone obbligate a farlo (per approfondire le diverse ipotesi di “segnalazione” leggi qui!) [1], come i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio (per approfondire leggi qui!).

In ossequio al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale previsto all’articolo 112 della Costituzione [2], possiamo dire a grandi linee che il Pubblico Ministero, una volta ricevuta la notizia di reato la iscrive (obbligatoriamente) in un apposito registro che si chiama registro delle notizie di reato [3], dove viene indicato il tipo di reato, il nominativo della persona cui questo è attribuito eccetera (N.B. se avete il dubbio di essere sotto indagine, sappiate che potete chiedere informazioni in merito direttamente in Procura – per approfondire leggi qui!). Ebbene, dal momento in cui avviene tale iscrizione si aprono le indagini preliminari e iniziano quindi a decorrere i relativi termini. Sappiate che i registri delle notizie di reato sono più di uno. Infatti, se la notizia di reato:

  • è a carico di persona nota, questa verrà iscritta nel “registro delle notizie di reato a carico di persone note” (modello 21);
  • è a carico di persona non nota, verrà invece iscritta nel “registro delle notizie di reato a carico di persone ignote” (modello 44);
  • rientra nella competenza del Giudice di pace, l’iscrizione verrà fatta nel “registro delle notizie di reato per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace” (modello 21 bis);
  • proviene da una denuncia anonima, la notizia di reato verrà infine iscritta nel “registro delle notizie anonime di reato” (modello 46),

e così via …

Un’ultimissima cosa prima di concludere: il Pubblico Ministero prende nota anche delle informazioni e delle segnalazioni che gli arrivano anche se non hanno, a suo parere, una immediata rilevanza penale, iscrivendoli nello specifico “registro degli atti che non costituiscono una notizia reato” (modello 45).

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[1]: art. 331 c.p.p. – Denuncia da parte di pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio:“1. Salvo quanto stabilito dall’articolo 347, i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio che, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito. 2. La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria. 3. Quando più persone sono obbligate alla denuncia per il medesimo fatto, esse possono anche redigere e sottoscrivere un unico atto. 4. Se, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, emerge un fatto nel quale si può configurare un reato perseguibile di ufficio, l’autorità che procede redige e trasmette senza ritardo la denuncia al pubblico ministero”.

[2]: art. 112 della Costituzione: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”.

[3]: art. 335 c.p.p. – Registro delle notizie di reato:“1. Il pubblico ministero iscrive immediatamente, nell’apposito registro custodito presso l’ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa nonché, contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito. 2. Se nel corso delle indagini preliminari muta la qualificazione giuridica del fatto ovvero questo risulta diversamente circostanziato, il pubblico ministero cura l’aggiornamento delle iscrizioni previste dal comma 1 senza procedere a nuove iscrizioni. 3. Ad esclusione dei casi in cui si procede per uno dei delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), le iscrizioni previste dai commi 1 e 2 sono comunicate alla persona alla quale il reato è attribuito, alla persona offesa e ai rispettivi difensori, ove ne facciano richiesta. 3-bis. Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero, nel decidere sulla richiesta, può disporre, con decreto motivato, il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore a tre mesi e non rinnovabile. 3-ter. Senza pregiudizio del segreto investigativo, decorsi sei mesi dalla data di presentazione della denuncia, ovvero della querela, la persona offesa dal reato può chiedere di essere informata dall’autorità che ha in carico il procedimento circa lo stato del medesimo”.

IL SEGRETO “ISTRUTTORIO”

L’articolo 329 del codice di procedura penale stabilisce che gli atti di indagine compiuti dal Pubblico Ministero e dalla Polizia Giudiziaria sono coperti dal segreto [1] fino a quando l’imputato non possa averne conoscenza, e comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Il Comandante di Corpo, quando opera in qualità di Ufficiale di Polizia Giudiziaria Militare, può quindi apporre il segreto su eventi di rilievo penale che si sono verificati presso il proprio Ente. La giurisprudenza considera comunque la sola notizia di reato cosa diversa dall’“atto di indagine” a cui viene fatto esplicito riferimento nel citato articolo 329: la notizia di reato, infatti, rappresenta il mero presupposto dell’atto di indagine (da intendersi come atto diretto al reperimento ed alla assicurazione delle fonti di prova) e, conseguentemente, non coincide con esso (per approfondire leggi qui!). Quindi, quando la linea gerarchica chiede al Comandante di corpo elementi di informazione su eventi di natura penale, non si viola normalmente alcun segreto “istruttorio” se ci si limita a ricostruire l’evento come mero riepilogo di cosa sia successo e cioè la condotta, l’evento, il nesso … insomma il fatto nella sua materialità (il cosiddetto “fatto storico”). Tanto detto, la comunicazione amministrativa alla linea gerarchica del mero fatto storico (ad esempio che si è verificato un furto in armeria) non pregiudica in linea di principio le indagini in corso ma consente però di risolvere/gestire altri problemi che possano presentarsi (come, ad esempio, l’individuazione di un armiere “infedele”, il fatto che l’allarme dell’armeria non funzioni, l’opportunità di revocare il NOS al consegnatario dell’armeria, la necessità di sanzionare disciplinarmente l’armiere eccetera) ovverosia di adottare provvedimenti amministrativi che normalmente nulla hanno a che fare con le indagini in corso. Naturalmente, una semplice telefonata preventiva al Pubblico Ministero titolare dell’indagine può fugare ogni dubbio, in modo da evitare il rischio di pregiudicare l’indagine e/o incorrere in una qualche responsabilità penale!

P.S. Ai militari piace moltissimo parlare di segreto “istruttorio” anche se tale termine non è tecnicamente corretto: di segreto “istruttorio” parlava difatti il vecchio codice di procedura penale (del 1930) che è stato abolito nel 1989. Il “nuovo” codice di procedura penale del 1989 parla invece di segreto “investigativo” o “delle indagini preliminari” … e la differenza non è di poco conto:

  • il segreto “istruttorio” (quello previsto fino al 1989 per intenderci), era infatti un segreto molto “rigido” che copriva le informazioni dell’indagine per tutta la durata dell’istruttoria (da qui appunto il termine);
  • il segreto “investigativo” o “delle indagini preliminari” (quello cioè attualmente previsto dal vigente codice di procedura penale) è invece un segreto molto più “elastico” del precedente in quanto decade per gli atti che il Pubblico Ministero porta a conoscenza dell’imputato e, soprattutto, non può durare oltre la chiusura delle indagini preliminari.

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[1]:art. 329 c.p.p. – Obbligo del segreto: “Gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari […]”.

LA TUTELA PENALE DEL PUBBLICO UFFICIALE

Il pubblico ufficiale (e, quindi, anche il militare dell’Esercito, della Marina o dell’Aeronautica che ad esempio opera a supporto delle Forze di Polizia nel controllo del territorio – per approfondire clicca qui), viene tutelato nell’esercizio delle proprie funzioni anche dal punto di vista penale. Infatti, il codice penale comune punisce, tra l’altro:

  • la violenza o minaccia a un pubblico ufficiale:“Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per costringere alcuna delle persone anzidette a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa” (articolo 336 del codice penale);
  • la resistenza a un pubblico ufficiale:“Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni” (articolo 337 del codice penale);
  • l’oltraggio a pubblico ufficiale:“Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Se la verità del fatto è provata o se per esso l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile. Ove l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima, il reato è estinto” (articolo 341 bis del codice penale).

Credo che i reati di violenza/minaccia e resistenza a pubblico ufficiale (che, peraltro, tutelano anche l’incarico di un pubblico servizio) siano sufficientemente intuitivi da comprendere: richiedono essenzialmente che la violenza [1] e la minaccia siano idonee a intimidire e coartare la volontà del pubblico ufficiale … cioè da “forzarla” al punto da impedire il compimento dell’atto d’ufficio. La differenza tra i due reati sta nel “tempo” della violenza o della minaccia che deve:

  • precedere il compimento dell’atto d’ufficio, nel reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale (articolo 336 del codice penale);
  • avvenire durante il compimento dell’atto d’ufficio, nel reato di resistenza a pubblico ufficiale (articolo 337 del codice penale).

Concentriamoci ora brevemente sul reato di oltraggio a pubblico ufficiale che è quello statisticamente più ricorrente e che presenta qualche piccola “criticità” in più. La domanda che spesso mi viene fatta è: come mai, nel terzo millennio, si puniscono penalmente comportamenti del genere? Ma non siamo tutti uguali? … se si … come è allora possibile che il pubblico ufficiale venga tutelato differentemente? Questo non si chiama “privilegio”? Invece di rispondervi, vi riporto a grosse linee il ragionamento che la giurisprudenza (anche costituzionale) ha seguito per spiegare e giustificare la cosa: la tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione, che è pur sempre un principio costituzionale (articolo 97 della Costituzione), si persegue anche tutelando il prestigio e l’onore dei singoli soggetti che esercitano pubbliche funzioni attraverso uno specifico reato che è più grave della comune ingiuria, anche se aggravata [2]. Tutto qui … così stanno attualmente le cose … andiamo dunque avanti con il nostro discorso!

Un paio di indicazioni “pratiche” [3]: non dimenticate che per aversi oltraggio a pubblico ufficiale, oltre ad esser ovviamente indispensabile la presenza di un pubblico ufficiale (per approfondire leggi qui), è necessario che l’oltraggio:

  • avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico … altrimenti saremmo di fronte a una semplice ingiuria aggravata [4];
  • si verifichi in presenza di più persone;
  • sia contestuale, che avvenga cioè “mentre [il pubblico ufficiale] compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni”.

In caso contrario non vi è alcun oltraggio … beh, potrebbe magari consumarsi qualche altro reato (come, ad esempio, il reato di oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, quello di diffamazione, di ingiuria eccetera), ma niente di più!

Non vi voglio appesantire troppo la materia e penso quindi che quanto detto fin’ora sia più che sufficiente … concedetemi però un’ultima cosa che potrebbe essere d’interesse: il pubblico ufficiale vittima di minaccia, violenza, resistenza o oltraggio ha diritto ad essere risarcito dall’autore del reato? Certo che ha diritto … e non solo a livello patrimoniale! Mi spiego meglio, essendosi verificato un reato, l’articolo 2059 del codice civile e l’articolo 185 del codice penale assicurano alla vittima il diritto ad un risarcimento “completo” sia dal punto di vista patrimoniale (cioè il danno oggettivamente patito, comprensivo del prezzo degli occhiali rotti dall’aggressore, delle visite fatte dall’ortopedico per rimettere a posto la spalla, delle sedute di fisioterapia cui ci si è dovuti sottoporre eccetera) che non patrimoniale (stiamo parlando della sofferenza psico-fisica conseguenza del reato subito … cosa che – badate bene – il più delle volte non può essere risarcita!) … chiedete al vostro Avvocato come comportarvi, sono convinto che saprà indirizzarvi al meglio per ottenere quanto vi spetta! Tanto detto, non mi resta che augurarvi un buon servizio e … ad maiora!

TCGC

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[1]: possiamo dire che la violenza sia “idonea” quando arriva al livello di percosse (art. 581 c.p.), reato che peraltro assorbe. Quando la violenza supera però il livello delle percosse, si entra nelle lesioni personali (art. 582 c.p.), reato che non viene assorbito e che quindi concorre autonomamente con quello di violenza o resistenza a pubblico ufficiale. Quanto appena detto significa, ad esempio, che chi resiste al pubblico ufficiale con modalità tali da causargli lesioni personali, risponde sia del reato di resistenza, sia di quello di lesioni personali.

[2]: è infatti una circostanza aggravante comune “l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, […] nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio” (articolo 61 c.p.).

[3]: per dovere di completezza, è giusto evidenziarvi che il:

  • secondo comma dell’articolo 341 bis del codice penale prevede una specifica causa di esclusione della pena. Infatti, quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, “se la verità del fatto è provata o se per esso l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile”;
  • terzo comma dell’articolo 341 bis del codice penale prevede una specifica causa di estinzione del reato, allorquando stabilisce che “ove l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima, il reato è estinto”.

[4]: è infatti una circostanza aggravante comune “l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, […] nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio” (articolo 61 c.p.).

OMISSIONE DI ATTI D’UFFICIO … E ACCESSO AGLI ATTI?

L’articolo 328 del codice penale punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio (clicca qui per approfondire) che:

  • indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo” (primo comma dell’art. 328 c.p.);
  • fuori dei casi previsti dal primo comma […] entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo”, precisando che “tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa” (secondo comma dell’art. 328 c.p.).

Come appare evidente, l’articolo 328 del codice penale disciplina due reati distinti: quella del rifiuto di atti d’ufficio (primo comma) e quella dell’omissione di atti d’ufficio (secondo comma). Dato che quest’ultimo è statisticamente molto più frequente (anche in ambito militare), ci concentreremo solo su di esso tralasciando per tanto il rifiuto di atti d’ufficio che, peraltro, è relativamente semplice ed intuitivo da comprendere. Ebbene, l’omissione di atti d’ufficio è un reato che:

  • prevede due condotte alternative, ovvero quella di non compiere l’atto entro 30 giorni dalla richiesta, oppure non esporre le ragioni del ritardo, sempre entro 30 giorni (il ritardo, ovviamente, si riferisce ad un termine già scaduto … mi spiego meglio: l’atto avrebbe già dovuto essere stato compiuto con i tempi del diritto amministrativo e, quindi, l’art. 328 del codice penale fa riferimento ad ulteriori 30 giorni che decorrono dal momento della richiesta);
  • si realizza solo se la richiesta viene avanzata in forma scritta da chi vi abbia interesse.

Vediamo ora un caso interessante che presenta elementi che stanno “a cavallo” tra il diritto penale e quello amministrativo, caso in cui il reato di omissione di atti d’ufficio entra in contatto con l’accesso agli atti. Come sapete, “decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta [di accesso agli atti], questa si intende respinta” (articolo 25, comma 4, della legge n. 241 del 1990), ma che parte può giocare l’omissione di atti d’ufficio in un caso del genere? Niente direte voi … d’altronde è la legge stessa che “autorizza” la Pubblica Amministrazione (PA) a non rispondere e, soprattutto, che la “non risposta” equivalga sostanzialmente ad un diniego (in questi casi si parla infatti di “silenzio-rigetto”)! Beh, non è proprio così … infatti al verificarsi della situazione appena descritta, in passato i giudici che si sono pronunciati sull’argomento hanno stabilito:

  • sia che la PA, al ricevimento di una domanda di accesso agli atti, abbia 30 giorni per provvedere e che, solo una volta che sono scaduti infruttuosamente tali 30 giorni (cioè la PA è rimasta in silenzio!), il richiedente possa eventualmente avanzare richiesta ai sensi dell’articolo 328 del codice penale … e a questo punto alla PA non resterebbe altro che l’alternativa secca di concedere l’accesso oppure esporre le ragioni del ritardo;
  • sia che il “silenzio-rigetto” della PA valga solo per il diritto amministrativo (anche ai fini di un eventuale ricorso al TAR o alla Commissione per l’accesso) e che, quindi, dal punto di vista penale si integri il reato di omissione di atti d’ufficio già allo scadere dei 30 giorni dalla domanda di accesso.

Anche se la Corte di Cassazione sembra propendere per la prima ricostruzione che vi ho appena dato, è giusto che sappiate comunque che le cose sono molto più complicate di quanto sembrino … ponete perciò sempre la massima attenzione alle pratiche che trattate: i rischi sono dietro l’angolo, al punto che un semplice accesso agli atti, qualora trattato nel modo sbagliato, è teoricamente in grado di avere addirittura sviluppi penali … chi lo avrebbe mai detto? Vero? Per quanto ci siamo appena detti mi raccomando … serietà, correttezza e testa sulle spalle! A questo punto non mi resta che augurarvi un buon lavoro e, come sempre, ad maiora!  

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L’ABUSO D’UFFICIO

L’articolo 323 del codice penale punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio (clicca qui per approfondire) che “nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni […]”.

Tale reato che è abbastanza semplice da capire perché persegue l’intento di garantire l’imparzialità ed il buon andamento della Pubblica Amministrazione (articolo 97 della Costituzione), sanzionando tutte quelle condotte “abusive” che sfociano in comportamenti discriminatori o preferenziali, tali da:

  • procurare all’autore del reato “o ad altri, un ingiusto vantaggio patrimoniale” (che sia economicamente valutabile … idoneo cioè ad accrescere il patrimonio del soggetto beneficiario);
  • arrecare “ad altri un danno ingiusto”.

Affinché si integri, il reato di abuso d’ufficio richiede:

  • lo svolgimento delle funzioni o del servizio da parte del pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio (clicca qui per approfondire). Ciò significa, ovviamente, che il semplice “abuso” della qualità dell’autore non integra alcun reato … serve proprio che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio stia esercitando la propria funzione istituzionale;
  • la violazione della norma di legge, di regolamento o l’inosservanza dell’obbligo di astensione;
  • l’ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o altri oppure un danno ingiusto arrecato a qualcun altro;
  • l’intenzionalità della condotta da parte dell’autore.

Ovviamente, come accade di frequente:

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IL PUBBLICO UFFICIALE E L’INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO

Chi è un pubblico ufficiale e in cosa si differenzia il pubblico ufficiale dall’incaricato di pubblico servizio? Tali domande appaiono semplici … quasi banali direi … ma nella realtà così non è affatto! Dobbiamo quindi fare un piccolo sforzo per entrare nella materia: l’argomento presenta difatti alcuni indubbi risvolti pratici che un militare non può assolutamente sottovalutare, soprattutto alla luce delle difficoltà lavorative che sempre più spesso si incontrano operando “sul campo” a stretto contatto con le Forze dell’ordine. I reati contro la Pubblica Amministrazione, ad esempio, presuppongono quasi sempre la presenza di un soggetto che riveste una specifica “qualifica” che, il più delle volte, è quella di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

Iniziamo a fare un poco di ordine … ebbene … sappiate che agli effetti della legge penale:

Semplice? No, assolutamente no! Credetemi, ciò che avete appena letto è tutt’altro che semplice … dovete infatti sapere che sebbene non sorgano particolari problemi interpretativi su cosa debba intendersi per funzione legislativa [1] o giudiziaria [2], non può purtroppo dirsi altrettanto per il concetto di “funzione amministrativa” che ha invece sempre creato dubbi e animato dibattiti: non è infatti per niente vero che dipendente pubblico = pubblico ufficiale … soprattutto oggi! Per sapere se si è davanti a un pubblico ufficiale o meno, bisogna difatti tralasciare la forma e concentrarsi sulla sostanza delle cose … mi spiego meglio: il nocciolo della questione non è il ruolo (formalmente) ricoperto dal soggetto, bensì la funzione (deliberativa, autoritativa o certificativa) dallo stesso oggettivamente svolta. Ecco quindi che ben può essere pubblico ufficiale un privato cittadino, naturalmente a patto che svolga concretamente una pubblica funzione amministrativa … indipendentemente da investiture formali. A cascata, ovviamente, analoghi problemi interpretativi sorgono per l’incaricato di pubblico servizio … ma il nostro obiettivo non credo sia quello addentrarci in complicate elaborazioni teoriche che preferisco lasciare ai professionisti del diritto!

Passiamo a noi … pur nell’assenza di definizioni univoche, sappiate che non è assolutamente azzardato considerare pubblico ufficiale il militare dell’Esercito, Marina o Aeronautica che esercita le proprie funzioni, ad esempio, a supporto delle Forze di Polizia nel controllo del territorio, a prescindere dal possesso della qualifica di agente di pubblica sicurezza … essere un pubblico ufficiale è importante perché vi tutela meglio nel vostro lavoro, soprattutto quando siete a contatto con la popolazione civile! L’essere un pubblico ufficiale (ma a volte anche un incaricato di un pubblico servizio) vi accorda, ad esempio, una specifica tutela penale che ritengo necessario voi conosciate, almeno per grosse linee (per approfondire clicca qui!).

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[1]: ovviamente quando si parla di funzione legislativa si fa riferimento ai parlamentari (Deputati e Senatori) ed ai Consiglieri regionali.

[2]: è intuitivo il riferimento ai giudici (sia giudicanti che requirenti) … si ritiene comunemente che la funzione giudiziaria abbracci comunque anche l’organizzazione amministrativa della giustizia, nonché le figure che coadiuvano il giudice nel suo lavoro come periti, traduttori, consulenti eccetera.

IL SEGRETO D’UFFICIO (MILITARE O COMUNE) VIENE TUTELATO PENALMENTE?

Iniziamo subito col dire che la risposta è si! Il segreto d’ufficio viene tutelato sia dal codice penale comune che dal codice penale militare di pace! Prima di vedere come, chiariamo immediatamente che non stiamo parlando di reati con finalità di spionaggio [1], non è questo l’argomento di questo post! Tanto premesso, sappiate che:

  • l’articolo 326 del codice penale punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio (clicca qui per approfondire) che “violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno […]”;
  • l’articolo 127 del codice penale militare di pace (CPMP) punisce invece “il militare, che rivela notizie concernenti il servizio o la disciplina militare in generale, da lui conosciute per ragione o in occasione del suo ufficio o servizio, e che devono rimanere segrete, è punito con la reclusione militare da sei mesi a tre anni. Se le notizie non sono segrete, ma hanno carattere riservato, per esserne stata vietata la divulgazione dall’autorità competente, si applica la reclusione militare fino a due anni.  Se il fatto è commesso per colpa, la pena è della reclusione militare fino a un anno”.

Essendo i reati in questione relativamente intuitivi e semplici da capire, mi limiterò a darvi solo alcune “coordinate” per farveli meglio inquadrare. Ebbene, come avete avuto modo di notare, tali reati hanno una struttura molto simile tanto che la condotta incriminata da entrambi consiste essenzialmente nel rivelare o agevolare la conoscenza di atti, attività, informazioni ovvero notizie dell’ufficio (o del servizio) cui è addetto il funzionario o il militare autore del reato. Tali notizie o informazioni sono però solo quelle che devono rimanere segrete o riservate per esserne stata vietata la divulgazione … considerate però che il concetto di segretezza cui stiamo facendo riferimento non coincide né con quello di segreto di stato né, tantomeno, con quello di informazione classificata [2]! Infatti, tale segreto ha ad oggetto solo quelle notizie che il pubblico funzionario o il militare ha il dovere (giuridico) di non rivelare perché così è stato previsto dalla legge, dai regolamenti, dall’ordine di un superiore se non anche dal generale obbligo di riserbo e riservatezza che grava su ogni pubblico dipendente e, a maggior ragione, su ogni singolo militare (per approfondire leggi qui!).

Tali reati, sebbene molto simili, presentano però delle differenze:

  • l’articolo 326 del codice penale, al contrario dell’articolo 127 CPMP, punisce infatti anche l’utilizzazione del segreto d’ufficio. I relativi terzo e quarto comma prevedono infatti che “il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni”;
  • la tutela penale offerta dall’articolo 127 CPMP è più ampia di quella garantita dall’articolo 326 del codice penale. Il CPMP, infatti, estende la punibilità anche alle notizie conosciute dal militare “in occasione del suo ufficio o servizio”.

Penso che a questo punto abbiate elementi sufficienti per evitare di mettervi nei guai. Non mi resta quindi che augurarvi un buon lavoro e … mi raccomando, acqua in bocca!

TCGC

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[1]: la cosa risulta particolarmente evidente nell’articolo 127 del codice penale militare di pace, allorquando specifica che le notizie segrete o riservate debbano riguardare “il servizio o la disciplina militare in generale”.

[2]: mi riferisco al segreto di stato o alle informazioni classificate di cui agli artt. 39-42 della legge n. 124 del 2007 “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto”.

LA PRESCRIZIONE DEL REATO

La prescrizione del reato è quel “meccanismo” giuridico attraverso il quale si estingue un reato in conseguenza del trascorrere di un determinato periodo di tempo. Mi spiego meglio: se un reato non viene punito entro un dato tempo dalla sua commissione, non è più possibile farlo e il relativo autore resta sostanzialmente impunito … perché il reato si è estinto! Il codice penale è chiaro in materia … ho integralmente riportato in nota [1] l’articolo 157 del codice penale perché è in grado di chiarire il 99% del vostri dubbi! Se poi non avete tempo (o voglia) è importante che ricordiate solo che “la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria […]” (articolo 157 del codice penale).

Quanto detto finora significa sostanzialmente che, nella normalità dei casi, un reato si prescrive nel tempo previsto come massimo della pena irrogabile e, comunque, in non meno di sei anni se il reato è un delitto [2] ovvero di quattro anni se il reato è una contravvenzione [3].

Un’ultimissima cosa prima di concludere, dal 1 gennaio 2020 l’articolo 159 del codice penale prevede che la prescrizione rimanga sospesa “dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna” … e ciò significa sostanzialmente che non si maturerà alcuna prescrizione se il processo penale è almeno arrivato ad una sentenza di primo grado … sia essa di condanna o di assoluzione, è indifferente!

TCGC

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[1]: art. 157 c.p. – Prescrizione. Tempo necessario a prescrivere:“La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante. Non si applicano le disposizioni dell’articolo 69 e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del secondo comma. Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva. Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni. I termini di cui ai commi che precedono sono raddoppiati per i reati di cui agli articoli 375, terzo comma, 449 e 589, secondo e terzo comma, e 589 bis, nonché per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale. I termini di cui ai commi che precedono sono altresì raddoppiati per i delitti di cui al titolo VI-bis del libro secondo, per il reato di cui all’articolo 572 e per i reati di cui alla sezione I del capo III del titolo XII del libro II e di cui agli articoli 609 bis, 609 quater, 609 quinquies e 609 octies, salvo che risulti la sussistenza delle circostanze attenuanti contemplate dal terzo comma dell’articolo 609 bis ovvero dal quarto comma dell’articolo 609 quater. La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato. La prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti”.

[2]: i delitti sono quei reati che vengono puniti più severamente in quanto sostanzialmente più gravi delle contravvenzioni. Il codice penale distingue i delitti dalle contravvenzioni dal punto di vista formale … cioè in base alle diverse pene che comportano: i delitti sono infatti puniti con l’ergastolo, la reclusione o la multa, mentre le contravvenzioni con l’arresto e l’ammenda. Anche se non tutti i reati sono ricompresi nel codice penale comune, sappiate che questo dedica ai delitti il libro secondo e, cioè, gli articoli dal 241 al 649. Ah, dimenticavo, tutti i reati militari sono delitti!

[3]: le contravvenzioni sono quei reati che vengono puniti meno severamente in quanto sostanzialmente meno gravi dei delitti. Il codice penale distingue i delitti dalle contravvenzioni dal punto di vista formale … cioè in base alle diverse pene che comportano: i delitti sono infatti puniti con l’ergastolo, la reclusione o la multa, mentre le contravvenzioni con l’arresto e l’ammenda. Anche se non tutti i reati sono ricompresi nel codice penale comune, sappiate che questo dedica alle contravvenzioni il libro terzo e, cioè, gli articoli dal 650 al 734 bis. Ah, dimenticavo, tutti i reati militari sono delitti!

DEGRADAZIONE, RIMOZIONE E ALTRE PENE MILITARI ACCESSORIE

Ai sensi dell’articolo 24 del codice penale militare di pace (CPMP) “le pene militari accessorie sono: 1) la degradazione; 2) la rimozione; 3) la sospensione dall’impiego; 4) la sospensione dal grado; 5) la pubblicazione della sentenza di condanna”. In particolare:

  • l’articolo 28 CPMP stabilisce che “la degradazione si applica a tutti i militari, è perpetua e priva il condannato: 1) della qualità di militare e, salvo che la legge disponga altrimenti, della capacità di prestare qualunque servizio, incarico od opera per le forze armate dello Stato; 2) delle decorazioni […]”. Per quanto di interesse, è evidente che la caratteristica fondamentale di tale pena militare accessoria sia quella di privare il condannato della qualità di militare … notate che tale caratteristica avvicina molto la degradazione all’interdizione perpetua dai pubblici uffici (articolo 28 del codice penale [1]);
  • l’articolo 29 CPMP prevede, invece, che “la rimozione si applica a tutti i militari rivestiti di un grado appartenenti a una classe superiore all’ultima; è perpetua, priva il militare condannato del grado e lo fa discendere alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe”. Tale pena accessoria trova la propria ragion d’essere, oltre che nel caso di condanna alla reclusione militare superiori a 3 anni, anche per alcuni specifici reati (indipendentemente dalla durata della condanna inflitta) come, ad esempio, il peculato militare (articoli 215-219 CPMP), il furto militare (articoli 230-232 CPMP), la truffa militare (articolo 234 CPMP) eccetera;
  • gli articoli 30 e 31 CPMP disciplinano la sospensione dall’impiego [2] e la sospensione dal grado [3] (da non confondersi con le sanzioni disciplinari di stato della sospensione disciplinare dall’impiego e della sospensione disciplinare dalle funzioni del grado!), che si applicano (la prima agli Ufficiali e la seconda ai Sottufficiali e ai Militari di Truppa) in caso di mancata applicazione della rimozione durante la reclusione militare;
  • l’articolo 32 CPMP contempla infine la pubblicazione della sentenza di condanna [4], in sostanziale analogia a quanto previsto dal corrispondente articolo del codice penale ordinario [5].

N.B.: le pene militari accessorie si applicano anche a seguito della condanna per reati previsti dal codice penale ordinario. Nello specifico, l’articolo 33 CPMP, titolato proprio “Pene militari accessorie conseguenti alla condanna per delitti preveduti dalla legge penale comune”, prevede infatti che “la condanna pronunciata contro militari in servizio alle armi o in congedo, per alcuno dei delitti preveduti dalla legge penale comune, oltre le pene accessorie comuni, importa: 1) la degradazione, se trattasi di condanna alla pena di morte o alla pena dell’ergastolo, ovvero di condanna alla reclusione che, a norma della legge penale comune, importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici; 2) la rimozione, se, fuori dei casi indicati nel numero 1, trattasi di delitto non colposo contro la personalità dello Stato, o di alcuno dei delitti preveduti dagli articoli 476 a 493, 530 a 537, 624, 628, 629, 630, 640, 643, 644 e 646 del codice penale, o di bancarotta fraudolenta; ovvero se il condannato, dopo scontata la pena, deve essere sottoposto a una misura di sicurezza detentiva diversa dal ricovero in una casa di cura o di custodia per infermità psichica, o alla libertà vigilata; 3) la rimozione, ovvero la sospensione dall’impiego o dal grado, secondo le norme stabilite, rispettivamente, dagli articoli 29, 30 e 31, in ogni altro caso di condanna alla reclusione, da sostituirsi con la reclusione militare a termini degli articoli 63 e 64. La dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, ovvero di tendenza a delinquere, pronunciata in qualunque tempo contro militari in servizio alle armi o in congedo, per reati preveduti dalla legge penale comune, importa la degradazione”.

Prima di concludere, un ultimissimo chiarimento dagli indubbi risvolti pratici … da quando decorrono le pene militari accessorie? Ebbene, ai sensi dell’articolo 34 CPMP “le pene della degradazione e della rimozione decorrono, a ogni effetto, dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. Le pene della sospensione dall’impiego e della sospensione dal grado decorrono dal momento in cui ha inizio l’esecuzione della pena principale”.

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[1]: art. 28 c.p. – Interdizione dai pubblici uffici:“L’interdizione dai pubblici uffici è perpetua o temporanea. L’interdizione perpetua dai pubblici uffici, salvo che dalla legge sia altrimenti disposto, priva il condannato: 1) del diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale, e di ogni altro diritto politico; 2) di ogni pubblico ufficio, di ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio, e della qualità ad essi inerente di pubblico ufficiale o d’incaricato di pubblico servizio; 3) dell’ufficio di tutore o di curatore, anche provvisorio, e di ogni altro ufficio attinente alla tutela o alla cura; 4) dei gradi e delle dignità accademiche, dei titoli, delle decorazioni o di altre pubbliche insegne onorifiche; 5) degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico; 6) di ogni diritto onorifico, inerente a qualunque degli uffici, servizi, gradi o titoli e delle qualità, dignità e decorazioni indicati nei numeri precedenti; 7) della capacità di assumere o di acquistare qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità, grado, titolo, dignità, decorazione e insegna onorifica, indicati nei numeri precedenti. L’interdizione temporanea priva il condannato della capacità di acquistare o di esercitare o di godere, durante l’interdizione, i predetti diritti, uffici, servizi, qualità, gradi, titoli e onorificenze. Essa non può avere una durata inferiore a un anno, né superiore a cinque. La legge determina i casi nei quali l’interdizione dai pubblici uffici è limitata ad alcuni di questi”.

[2]: art. 30 CPMP – Sospensione dall’impiego:“La sospensione dall’impiego si applica agli ufficiali, e consiste nella privazione temporanea dall’impiego. Fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente [e cioè in caso di rimozione], la condanna alla reclusione militare importa la sospensione dall’impiego durante l’espiazione della pena”.

[3]: art. 31 CPMP – Sospensione dal grado: “La sospensione dal grado si applica ai sottufficiali e ai graduati di truppa, e consiste nella privazione temporanea del grado militare. Fuori dei casi preveduti dall’articolo 29 [e cioè in caso di rimozione], la condanna alla reclusione militare importa la sospensione dal grado durante l’espiazione della pena”.

[4]: art. 32 CPMP – Pubblicazione della sentenza di condanna: “La sentenza di condanna alla pena di morte o alla pena dell’ergastolo è pubblicata per estratto mediante affissione nel comune dove è stata pronunciata, in quello dove il reato fu commesso e in quello dove ha sede il corpo o è ascritta la nave, a cui il condannato apparteneva. Il giudice, se ricorrono particolari motivi, può disporre altrimenti, o anche che la sentenza non sia pubblicata”.

[5]: art. 36 c.p. – Pubblicazione della sentenza penale di condanna:“La sentenza di condanna all’ergastolo è pubblicata mediante affissione nel Comune ove è stata pronunciata, in quello ove il delitto fu commesso, e in quello ove il condannato aveva l’ultima residenza. La sentenza di condanna è inoltre pubblicata nel sito internet del Ministero della giustizia. La durata della pubblicazione nel sito è stabilita dal giudice in misura non superiore a trenta giorni. In mancanza, la durata è di quindici giorni. La pubblicazione è fatta per estratto, salvo che il giudice disponga la pubblicazione per intero; essa è eseguita d’ufficio e a spese del condannato. La legge determina gli altri casi nei quali la sentenza di condanna deve essere pubblicata. In tali casi la pubblicazione ha luogo nei modi stabiliti nei due capoversi precedenti”.

LA RECLUSIONE MILITARE

La reclusione militare è l’unica pena detentiva attualmente prevista dal diritto penale militare [1] che, ai sensi dell’articolo 26 del codice penale militare di pace (CPMP), “si estende da un mese a ventiquattro anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro, secondo le norme stabilite dalla legge o dai regolamenti militari approvati con decreto del Presidente della Repubblica […]”. Essa si distingue quindi dalla reclusione ordinaria [2] per:

  • la misura minima che è fissata in 1 mese;
  • la previsione che venga scontata in un determinato stabilimento di pena, ovverosia presso il Carcere militare;
  • il fatto di non prevedere l’isolamento notturno del condannato.

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[1]: il codice penale (ordinario) è infatti più variegato: l’articolo 17 del codice penale stabilisce infatti che “le pene principali stabilite per i delitti sono:

  1. [la morte – ormai fortunatamente non più prevista!];
  2. l’ergastolo;
  3. la reclusione;
  4. la multa.

Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono:

  1. l’arresto;
  2. l’ammenda”.

[2]: art. 23 del codice penale – Reclusione:“La pena della reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno […]”.

IL REATO DI VILIPENDIO

Un notissimo vocabolario della lingua italiana definisce il vilipendio [1] come quella “[…] figura di reato prevista dal codice penale, consistente nell’offendere con parole, scritti o atti di grave e offensivo disprezzo valori ritenuti particolarmente degni di rispetto: (reato di) vilipendio alla nazione, alla bandiera nazionale; vilipendio della Repubblica, delle istituzioni, della religione, o di cadavere, di sepolture” … vilipendere, quindi, significa sostanzialmente disprezzare apertamente e con modalità molto offensive.

Il reato di vilipendio, nel diritto penale, si realizza in diversi modi … infatti il codice penale prevede, ad esempio, il reato di offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone o di cose (articoli 403 e 404 del codice penale), il vilipendio delle tombe (articolo 408 del codice penale), il vilipendio di cadavere (articolo 410 del codice penale) nonché – ed è questo l’oggetto del presente post – tutte quelle forme di “aggressione” all’Organizzazione repubblicana nel suo complesso com’è, ad esempio, il vilipendio al Presidente della Repubblica (articolo 278 del codice penale [2]), quello della Repubblica, delle Istituzioni repubblicane e delle Forze Armate (articolo 290 del codice penale [3]), della Nazione (articolo 291 del codice penale [4]) oppure della Bandiera (articolo 292 del codice penale [5]).

Vi starete chiedendo … ma in Italia non esiste il diritto di libera manifestazione di pensiero (articolo 21 della Costituzione) e, quindi, il diritto di critica? Beh, ovviamente si! Esistono però modalità di esercizio di tale diritto che possono rappresentare un “pericolo” per la tenuta generale del sistema e che, per tanto, vengono sanzionate penalmente. In una storica sentenza, la Corte costituzionale ha preso in esame proprio tale profilo, legittimando l’esistenza di un limite (giuridico) al diritto di libera manifestazione del pensiero, superato il quale si esce dal terreno del diritto per fare ingresso in quello dell’“abuso”. In tale occasione, la Corte affermò, tra l’altro, che “fra i beni costituzionalmente rilevanti, va annoverato il prestigio del Governo, dell’Ordine giudiziario e delle Forze Armate in vista dell’essenzialità dei compiti loro affidati. Ne deriva la necessità che di tali istituti sia garantito il generale rispetto anche perché non resti pregiudicato l’espletamento dei compiti predetti [6]”.

Come avete notato (vi ho appositamente postato i principali articoli in nota), ad eccezione del vilipendio al Presidente della Repubblica, le altre fattispecie sono ormai sostanzialmente punite con la sola pena pecuniaria … ma le cose cambiano sensibilmente se chi commette il reato è un militare: infatti, in tal caso si applica il codice penale militare di pace (CPMP) che prevede come pena la (sola) reclusione militare … ciò significa che, a differenza di quanto accade per in ambito “civile”, l’applicazione del diritto penale militare non lascia alcuno spazio per le pene pecuniarie e, conseguentemente, il vilipendio viene punito molto più severamente (vi ho messo in nota [7] i reati di vilipendio previsti dal CPMP!). Prima di concludere, mi preme evidenziarvi che:

  • i reati di vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali e delle Forze Armate (artt. 290 c.p. e 81 CPMP) e di vilipendio alla Nazione italiana (artt. 291 c.p. e 81 CPMP) richiedono ai fini della configurabilità che la condotta incriminata venga tenuta “pubblicamente” (e sappiate basta un post su facebook o instagram per mettersi seriamente nei guai!);
  • mentre l’articolo 290 del codice penale punisce il vilipendio alle Forze Armate in generale, l’articolo 81 CPMP estende la punibilità anche a “una parte di esse”, rendendo quindi penalmente rilevanti tutte quelle condotte offensive tenute dal militare nei confronti, ad esempio, di specifiche Armi (cavalleria, fanteria, artiglieria eccetera) o specialità (alpini, bersaglieri, paracadutisti eccetera) in cui può esser articolata una Forza Armata;

Tenete bene a mente, infine, che qualora il militare dia “sfogo” a esternazioni che non sono così gravi da essere penalmente rilevanti, cioè tali da non integrare veri e propri reati, ciò non significa che lo stesso non possa comunque essere sanzionato disciplinarmente, anche con la consegna di rigore (per approfondire leggi qui!)! Infatti:

  • l’articolo 713 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 90 del 2010 “Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare” (cosiddetto TUOM) prevede, ad esempio, che il militare debba “astenersi, anche fuori servizio, da comportamenti che possono comunque condizionare l’esercizio delle sue funzioni, ledere il prestigio dell’istituzione cui appartiene e pregiudicare l’estraneità delle Forze armate come tali alle competizioni politiche […]”;
  • l’articolo 714 TUOM, stabilisce che “i militari hanno il dovere di osservare le prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale e ha il comando delle Forze armate secondo l’articolo 87 della Costituzione
  • l’articolo 731 TUOM dispone che inoltre che il militare debba “in ogni circostanza tenere condotta esemplare a salvaguardia del prestigio delle Forze armate. 2. Egli ha il dovere di improntare il proprio contegno al rispetto delle norme che regolano la civile convivenza. 3. In particolare deve: a) astenersi dal compiere azioni e dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro […]”.

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[1]: http://www.treccani.it/vocabolario/vilipendio/

[2]: art. 278 c.p. – Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica:“Chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.

[3]: art. 290 c.p. – Vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali e delle Forze Armate:“Chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, ovvero il Governo o la Corte costituzionale o l’ordine giudiziario, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000. La stessa pena si applica a chi pubblicamente vilipende le Forze Armate dello Stato o quelle della liberazione”.

[4]: art. 291 c.p. – Vilipendio alla Nazione italiana:“Chiunque pubblicamente vilipende la nazione italiana è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000”.

[5]: art. 292 c.p. – Vilipendio o danneggiamento alla Bandiera o ad altro Emblema dello Stato:“Chiunque vilipende con espressioni ingiuriose la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000. La pena è aumentata da euro 5.000 a euro 10.000 nel caso in cui il medesimo fatto sia commesso in occasione di una pubblica ricorrenza o di una cerimonia ufficiale. Chiunque pubblicamente e intenzionalmente distrugge, disperde, deteriora, rende inservibile o imbratta la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato è punito con la reclusione fino a due anni. Agli effetti della legge penale per bandiera nazionale si intende la bandiera ufficiale dello Stato e ogni altra bandiera portante i colori nazionali”.

[6]: Corte costituzionale, sentenza n. 20 del 1974 (Pres. BONIFACIO – Rel. REALE).

[7]: art. 79 CPMP – Offesa all’onore ed al prestigio del Presidente della Repubblica:“Il militare che offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica, o di chi ne fa le veci, è punito con la reclusione militare da cinque a quindici anni”;

art. 81 CPMP – Vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali e delle Forze armate dello Stato:“Il militare, che pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, ovvero il Governo o la Corte costituzionale o l’ordine giudiziario, è punito con la reclusione militare da due a sette anni. La stessa pena si applica al militare che pubblicamente vilipende le Forze armate dello Stato o una parte di esse, o quelle della liberazione”;

art. 82 CPMP – Vilipendio alla Nazione italiana:“Il militare, che pubblicamente vilipende la nazione italiana, è punito con la reclusione militare da due a cinque anni. Se il fatto è commesso in territorio estero, si applica la reclusione militare da due a sette anni”;

art. 83 CPMP – Vilipendio alla Bandiera nazionale o ad altro Emblema dello Stato:“II militare, che vilipende la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato, è punito con la reclusione militare da tre a sette anni. Se il fatto è commesso in territorio estero, la pena è della reclusione militare da tre a dodici anni. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche al militare, che vilipende i colori nazionali raffigurati su cosa diversa da una bandiera”.

COS’È IL GIUDICATO?

Non me ne vogliano i colleghi ma questo post non è stato scritto per loro!

Come appiamo, ogni processo si conclude normalmente con una sentenza. Per fare in modo che la sentenza sia la più “giusta” e “corretta” possibile, si concede alle parti la possibilità di impugnarla, cioè di farla riesaminare da altri giudici affinché possano essere rimossi eventuali errori, valutate in modo diverse le prove, ribaltarne le conclusioni eccetera. Tale riesame della sentenza non può comunque essere portato avanti all’infinito e si arriva necessariamente ad un punto (perché, ad esempio, sono scaduti i termini per impugnare o sono stati già utilizzate tutte le possibili impugnazioni previste dalla legge) in cui il contenuto della sentenza non può essere più riesaminato e diventa definitivo, diventa cioè “cosa giudicata” … ovvero passa in giudicato”: ecco … pensate quindi al giudicato come a un sinonimo di definitivo! Se una parte, ciò nonostante, risolleva il problema, gli si può opporre il fatto che la sentenza è passata in giudicato (da qui il termine “giudicato”, appunto!) e la storia finisce lì.

Il giudicato riguarda normalmente il processo: l’articolo 324 del codice di procedura civile ci dice infatti che “si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell’articolo 395”. Il giudicato presenta comunque anche importanti aspetti “sostanziali”: infatti, se in una sentenza passata in giudicato è stato ad esempio riconosciuto il mio diritto di proprietà su un pezzetto di terra, il mio vicino di casa non solo non potrà più impugnarla, ma non potrà nemmeno iniziare un nuovo processo sull’argomento. Quel terreno ormai è mio, punto e basta! Ormai è stato accertato il mio diritto di proprietà e tale accertamento è definitivo … e la cosa vale anche per gli eventuali eredi o acquirenti della casa del mio vicino che volessero in futuro rimettere in discussione la cosa. L’articolo 2909 del codice civile è molto chiaro al riguardo: “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.

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FAI ATTENZIONE AD ANDARE IN GIRO CON UN COLTELLO! NON HAI IDEA DI COSA RISCHI E DI QUANTO POTREBBE COSTARTI CARO!

Iniziamo subito con lo sfatare un mito: non è assolutamente vero che se abbiamo un coltello con la lama corta possiamo portarcelo liberamente in giro! Tale “leggenda” ha però un fondo di verità, traendo probabilmente origine dall’articolo 80 [1] del Regio Decreto n. 635 del 1940 “Regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773” (cioè, per intenderci, il regolamento attuativo del T.U.L.P.S.) ai sensi del quale veniva considerato lecito il porto di coltelli o forbici con lama inferiore ai 4 cm di lunghezza … ebbene, da allora le cose sono però cambiate! Tale articolo è stato di fatto [2] abrogato dall’entrata in vigore della legge n. 110 del 1975 “Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi” ed ora la materia è regolata in modo molto più rigido: diciamo che oggi è sostanzialmente vietato andare in giro con qualsiasi tipo di coltello!

Prima di entrare nel vivo della questione permettetemi però di fare un doveroso chiarimento … ritengo infatti necessario farvi capire cosa si intenda per armi proprie e per armi improprie, perché se non afferriamo la differenza tra queste due categorie non andiamo molto lontano. Ebbene:

  • le armi proprie sono sostanzialmente “quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona” (articolo 30 del R.D. n. 773 del 1931 – T.U.L.P.S.) e che, pertanto, non possono circolare liberamente. Per quanto di interesse possiamo dire, anche sulla base di quello che dice la giurisprudenza in materia (cioè i giudici nell’interpretazione della legge, nelle loro sentenze per intenderci), che i coltelli sono armi proprie quando hanno la punta acuta e la lama a due tagli (quindi, per capirci meglio, come una baionetta, un pugnale e gran parte di quei coltelli che ciascuno di noi ha comprato all’inizio della propria carriera militare, magari al termine di qualche addestramento “speciale” o della prima missione all’estero);
  • le armi improprie sono invece tutti quegli strumenti che, anche se idonei a offendere una persona (cioè a ferirla, a procurarle delle lesioni insomma!), sono stati però creati per fare altro come può essere, ad esempio, un coltello da cucina, un coltellino svizzero, un rasoio eccetera. È semplice intuire che le armi improprie, a differenza di quelle proprie, possono circolare … sempre che vi sia un valido motivo per portarsele in giro!

N.B.: non dimentichiamo poi che l’articolo 585 del codice penale chiarisce che per armi, agli effetti penali,s’intendono: 1) quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona; 2) tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo”.

Tanto premesso, non commettere quindi l’errore di uscire con un’arma propria perché è assolutamente vietato! E questo a prescindere dal fatto che tu sia un militare che si sta addestrando per una gara di orientamento topografico, preparando per un corso di sopravvivenza, allenando in una palestra di ardimento eccetera … Naturalmente la cosa non vale per l’armamento individuale (com’è, ad esempio, la tua baionetta) che eventualmente porti addosso in occasione di un regolare addestramento militare! Trasgredire a tale divieto implica il serio rischio di prendersi una denuncia e affrontare un processo per porto abusivo di armi (articolo 699 [3] del codice penale), con pene che arrivano ai tre anni di arresto. Da non trascurare sono peraltro anche le conseguenze nel caso tu venga trovato in possesso di un’arma impropria (ad esempio un coltello da cucina o un semplice coltellino svizzero) senza un giustificato motivo: anche in questo caso, infatti, rischi una bella denuncia e un processo con pene che possono arrivare, nel massimo, fino ai due anni di arresto [4]!

La morale di questo post è semplice … usare la testa e fare moltissima attenzione a non andare in giro con un coltello! Se fino ad oggi ritenevi che la cosa fosse sostanzialmente “innocua”, ora non hai proprio più scuse … immagina solo gli effetti devastanti che può avere sulla tua vita e sulla tua carriera … pensaci sopra e ad maiora!

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[1]: l’articolo 80 del R.D. n. 635 del 1940 prevendeva, infatti, che:“Sono fra gli strumenti da punta e da taglio atti ad offendere, che non possono portarsi senza giustificato motivo a norma dell’art. 42 della legge è [cioè il Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773 “Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” – il cosiddetto T.U.L.P.S. per intenderci!]: i coltelli e le forbici con lama eccedente in lunghezza i quattro centimetri; le roncole, i ronchetti, i rasoi, i punteruoli, le lesine, le scuri, i potaioli, le falci, i falcetti, gli scalpelli, i compassi, i chiodi e, in genere, gli strumenti da punta e da taglio indicati nel secondo comma dell’articolo 45 del presente regolamento. Non sono, tuttavia, da comprendersi fra detti strumenti: a) i coltelli acuminati o con apice tagliente, la cui lama, pur eccedendo i quattro centimetri di lunghezza, non superi i centimetri sei, purché’ il manico non ecceda in lunghezza centimetri otto e, in spessore, millimetri nove per una sola lama e millimetri tre in più per ogni lama affiancata; b) i coltelli o le forbici non acuminati o con apice non tagliente, la cui lama, pur eccedendo i quattro centimetri, non superi i dieci centimetri di lunghezza”.

[2]: infatti, l’articolo 40 del R.D. n. 635 del 1940 era di fatto strumentale a quanto previsto ai primi due commi dell’articolo 42 del R.D. n. 773 del 1931 (il cosiddetto T.U.L.P.S. … sempre lui!) che sono stati esplicitamente abrogati dall’articolo 4 della legge n. 110 del 1975. Avete perso il filo del discorso? È normale! Non vi preoccupate … succede spesso anche a me!

[3]:art. 699 c.p. – Porto abusivo di armi:“Chiunque, senza la licenza dell’Autorità, quando la licenza è richiesta, porta un’arma fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, è punito con l’arresto fino a diciotto mesi. Soggiace all’arresto da diciotto mesi a tre anni chi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, porta un’arma per cui non è ammessa licenza. Se alcuno dei fatti preveduti dalle disposizioni precedenti, è commesso in luogo ove sia concorso o adunanza di persone, o di notte in un luogo abitato, le pene sono aumentate”.

[4]: art. 4 della legge n.110 del 1975 – Porto di armi od oggetti atti ad offendere:“Salve le autorizzazioni previste dal terzo comma dell’articolo 42 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni, non possono essere portati, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, armi, mazze ferrate o bastoni ferrati, sfollagente, noccoliere, storditori elettrici e altri apparecchi analoghi in grado di erogare una elettrocuzione. Senza giustificato motivo, non possono portarsi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona, gli strumenti di cui all’articolo 5, quarto comma, nonché i puntatori laser o oggetti con funzione di puntatori laser, di classe pari o superiore a 3b, secondo le norme CEI EN 60825- 1, CEI EN 60825- 1/A11, CEI EN 60825- 4. Il contravventore è punito con l’arresto da un mese ad un anno e con l’ammenda da lire cinquantamila a lire duecentomila. Nei casi di lieve entità, riferibili al porto dei soli oggetti atti ad offendere, può essere irrogata la sola pena dell’ammenda. La pena è aumentata se il fatto avviene nel corso o in occasione di manifestazioni sportive. È vietato portare armi nelle riunioni pubbliche anche alle persone munite di licenza. Il trasgressore è punito con l’arresto da quattro a diciotto mesi e con l’ammenda da lire centomila a lire quattrocentomila. La pena è dell’arresto da uno a tre anni e della ammenda da lire duecentomila a lire quattrocentomila quando il fatto è commesso da persona non munita di licenza. Chiunque, all’infuori dei casi previsti nel comma precedente, porta in una riunione pubblica uno strumento ricompreso tra quelli indicati nel primo o nel secondo comma, è punito con l’arresto da due a diciotto mesi e con l’ammenda da lire centomila a lire quattrocentomila. La pena prevista dal terzo comma è raddoppiata quando ricorre una delle circostanze previste dall’articolo 4, secondo comma, della legge 2 ottobre 1967, n. 895, salvo che l’uso costituisca elemento costitutivo o circostanza aggravante specifica per il reato commesso […]. Con la condanna deve essere disposta la confisca delle armi e degli altri oggetti atti ad offendere. Sono abrogati l’articolo 19 e il primo e secondo comma dell’articolo 42 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni. Non sono considerate armi ai fini delle disposizioni penali di questo articolo le aste di bandiere, dei cartelli e degli striscioni usate nelle pubbliche manifestazioni e nei cortei, né gli altri oggetti simbolici usati nelle stesse circostanze, salvo che non vengano adoperati come oggetti contundenti”.

L’ETÀ DEL VALIDO CONSENSO NEI RAPPORTI SESSUALI

Non avrei mai pensato di trattare questo argomento in un sito internet dedicato al diritto militare … peraltro non avrei neppure pensato di vivere una pandemia ed essere costretto in casa da due settimane per il rischio di prendermi il coronavirus … eppure eccomi qui … la vita non perde occasione per stupirmi! Mi scrive un giovanissimo collega appena maggiorenne chiedendomi sostanzialmente questo: posso fare l’amore con la mia fidanzata che ha 16 anni o, se mi scoprono, commetto un reato e posso quindi rovinarmi la fedina penale e, con questa, la carriera? Carissimo Romeo, il nome è naturalmente di fantasia anche perché il nostro Romeo non si è firmato, la risposta è si! Puoi tranquillamente fare l’amore con la tua Giulietta anche se tu sei maggiorenne e lei (ancora) minorenne. Prima di fare un poco di chiarezza sull’argomento, ritengo utile evidenziare che in questo post, in considerazione della “delicatezza” del tema, non parlerò di valori, etica o giustizia, mi limiterò ad esporre brevemente solo cosa preveda attualmente la legge (penale) in materia di rapporti sessuali con un minorenne, in modo assolutamente asettico e distaccato. Naturalmente mi riferisco a rapporti consenzienti e non a pagamento, altrimenti entriamo in ambiti penalmente rilevanti che esulano totalmente dalla presente trattazione e, soprattutto, non mi riferisco in alcun modo alla pedofilia, argomento che mi disgusta nel profondo al punto che non vi troverete mai alcuna traccia su avvocatomilitare.com!

Ebbene, iniziamo col dire che oggi in Italia l’età minima prevista per poter validamente esprimere il proprio consenso ad un rapporto sessuale è fissata a quattordici anni. Ciò significa che il minore:

  • al compimento dei 14 anni, può legittimamente disporre sessualmente del proprio corpo – in altre parole può fare l’amore -, senza che abbia alcuna rilevanza giuridica l’età o il sesso del partner, non fa cioè alcuna differenza se questo è minorenne o maggiorenne, dello stesso sesso o di altro sesso;
  • che non ha ancora compiuto i 14 anni è generalmente intangibile dal punto di vista sessuale e il partner che trasgredisce a questa semplice regola commette di fatto il reato di violenza sessuale con minorenne (articolo 609 quater del codice penale). Ciò significa che sotto i 14 anni il minore non può avere rapporti sessuali; ciò nonostante, l’articolo articolo 609 quater del codice penale prevede espressamente un’eccezione: infatti “non è punibile il minorenne che, al di fuori delle ipotesi previste nell’articolo 609 bis (cioè dai casi di violenza sessuale), compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni tredici, se la differenza di età tra i soggetti non è superiore a tre anni”.

Preciso al riguardo che non ha alcuna rilevanza l’eventuale errore sull’età del minore: il codice penale è molto chiaro sul punto, evidenziando infatti che chi intrattiene rapporti sessuali con un minorenne “non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa” (articolo 609 sexies del codice penale).

Questa è la regola generale, la normativa si ingarbuglia molto quando il partner sessuale del minore è “l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza”. In tal caso, infatti, l’età richiesta al minore per fornire un valido consenso (e non rendere di riflesso configurabile il reato di atti sessuali con minorenne) sale a sedici anni, salvo che il fatto non avvenga con “abuso di potere”, poiché in tal caso l’età sale ulteriormente ai 18 anni (articolo 609 quater del codice penale).

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SAI COSA SONO LE “FAKE NEWS” … SI? HAI PERÒ IDEA DEI RISCHI CHE SI POSSONO CORRERE NEL CREARLE O FARLE GIRARE?

Siamo ormai costantemente bombardati da tante di quelle informazioni che molto spesso fatichiamo (e non poco, direi!) a capire cosa sia reale e cosa non lo sia, quale notizia sia vera e quale invece rappresenti una “bufala” … Ma perché così tanta gente mette in giro notizie false, cosa gliene viene in tasca? … non si rischia proprio nulla a farlo?

La risposta alla prima domanda non è semplice … infatti c’è chi mette in giro fake news per aumentare il “traffico” di un sito internet (mi riferisco al ritorno economico che deriva da un aumento dei click degli utenti), per screditare un concorrente in affari, per condizionare l’opinione pubblica su un determinato argomento o solo per mera stupidità … le ragioni possono essere le più disparate e di difficile comprensione anche se, nella maggior parte dei casi, le fake news perseguono direttamente o indirettamente finalità economiche e/o politiche.

Molto più semplice è rispondere alla seconda domanda … cosa si rischia a creare delle fake news? Sebbene, dal punto di vista statistico, moltissime fake news perseguano normalmente finalità essenzialmente truffaldine (ed integrando quindi il reato di truffa – articolo 640 del codice penale [1]), sono molteplici i risvolti giudiziari che può avere una “bufala”, a seconda del fine effettivamente perseguito dal suo autore. Proviamo a fare qualche esempio per chiarirci le idee:

  • se si mettono in giro voci negative su di un concorrente in affari, o magari si scrive un articolo sui (falsi) difetti di un suo prodotto in commercio, è possibile che sia stato commesso il reato di diffamazione (articolo 595 del codice penale [2]) oppure quello di rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio (cosiddetto “aggiotaggio” – articolo 501 del codice penale), turbata libertà dell’industria o del commercio (articolo 513 del codice penale), manipolazione del mercato (articolo 185 del D. Lgsl. n. 58 del 1998 – Testo Unico della Finanza) eccetera;
  • se viene annunciato on line un imminente disastro o pericolo, è possibile che sia stato commesso il reato di pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico (articolo 656 del codice penale), di procurato allarme presso l’Autorità (articolo 658 del codice penale [3]) ovvero, qualora ne ricorrano i presupposti, quello di istigazione a delinquere (articolo 414 del codice penale [4]) o di istigazione di militari a disobbedire alle leggi (articolo 266 del codice penale [5]);
  • se si è militare e si cerca di suscitare in altri militari il malcontento, è possibile che si sia commesso il reato di attività sediziosa (articolo 182 del codice penale militare di pace [6]) ovvero, in tempo di guerra, quello di manifestazioni di codardia o di sbandamento (articoli 110 e 112 del codice penale militare di guerra);
  • se si abusa con malizia della buona fede della collettività, è possibile invece che si sia abusato della credulità popolare (articolo 661 del codice penale [7]);
  • se si confezionano, in tempo di guerra, fake news dai contenuti idonei a ingenerare negli altri sfiducia, è probabile che si sia commesso il reato di disfattismo politico, economico o militare (articoli 265 e 267 del codice penale ovvero articolo 86 del codice penale militare di guerra),

mi sono limitato ad accennarvi i primi reati che mi sono venuti in mente e, come potete vedere con i vostri occhi, la casistica è già molto variegata … include addirittura dei reati militari!

Un’ultima cosa prima di concludere … hai condiviso su internet una notizia che poi si è dimostrata una bufala e ti stai domandando cosa rischi? Tranquillizzati … ad occhio e croce molto poco, se non addirittura niente! Infatti, se hai condiviso in buona fede una notizia falsa non rischi sostanzialmente nulla dal punto di vista penale! Cosa differente si verifica invece se lo hai fatto conscio di condividere delle fake news perché, in tal caso, ti esponi grossomodo alla medesima responsabilità dell’autore! Fai quindi sempre molta attenzione alle news che ti rimbalzano addosso on line, controllane attentamente provenienza e attendibilità prima di postarle e condividerle … non altro per evitare il rischio di dove dimostrare la tua buona fede/estraneità da disegni criminosi di persone che magari nemmeno conosci. A questo punto non mi resta che augurarvi una buona navigazione on line … ma senza mai abbassare la guardia!

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[1]: art. 640 c.p. – Truffa:“Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da cinquantuno euro a milletrentadue euro. La pena è della reclusione da uno a cinque anni e della multa da trecentonove euro a millecinquecentoquarantanove euro: 1) se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare; 2) se il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità; 2-bis) se il fatto è commesso in presenza della circostanza di cui all’articolo 61, numero 5). Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o la circostanza aggravante prevista dall’articolo 61, primo comma, numero 7.

[2]: art. 595 c.p. – Diffamazione:“Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.

[3]: art. 658 c.p. – Procurato allarme presso l’Autorità:“Chiunque, annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme presso l’Autorità, o presso enti o persone che esercitano un pubblico servizio, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da dieci euro a cinquecentosedici euro”.

[4]: art. 414 c.p. – Istigazione a delinquere:“Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione: 1) con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti; 2) con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a euro 206, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni. Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti e una o più contravvenzioni, si applica la pena stabilita nel numero 1. Alla pena stabilita nel numero 1 soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti. La pena prevista dal presente comma nonché dal primo e dal secondo comma è aumentata se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. Fuori dei casi di cui all’articolo 302, se l’istigazione o l’apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità la pena è aumentata della metà. La pena è aumentata fino a due terzi se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”.

[5]: art. 266 c.p. – Istigazione di militari a disobbedire alle leggi: “Chiunque istiga i militari a disobbedire alle leggi o a violare il giuramento dato o i doveri della disciplina militare o altri doveri inerenti al proprio stato, ovvero fa a militari l’apologia di fatti contrari alle leggi, al giuramento, alla disciplina o ad altri doveri militari, è punito, per ciò solo, se il fatto non costituisce un più grave delitto, con la reclusione da uno a tre anni. La pena è della reclusione da due a cinque anni se il fatto è commesso pubblicamente. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso in tempo di guerra. Agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso: 1) col mezzo della stampa, o con altro mezzo di propaganda; 2) in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone; 3) in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata”.

[6]: art. 182 CPMP – Attività sediziosa:“Il militare, che svolge un’attività diretta a suscitare in altri militari il malcontento per la prestazione del servizio alle armi o per l’adempimento di servizi speciali, è punito con la reclusione militare fino a due anni”.

[7]: art. 661 c.p. – Abuso della credulità popolare:“Chiunque, pubblicamente, cerca con qualsiasi impostura, anche gratuitamente, di abusare della credulità popolare è soggetto, se dal fatto può derivare un turbamento dell’ ordine pubblico, alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 15.000”.

LA RICHIESTA DI PROCEDIMENTO DEL COMANDANTE DI CORPO (ART. 260 CPMP)

L’articolo 260, 2 comma, del codice penale militare di pace (CPMP), prevede che “I reati [militari], per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi, e quello preveduto dal n. 2 dell’articolo 171 sono puniti a richiesta del comandante del corpo o di altro ente superiore, da cui dipende il militare colpevole […]”. Vi starete ora domandando cosa significhi esattamente ciò che abbiamo appena letto … beh, l’articolo 260 CPMP ci dice sostanzialmente che per tutta una serie di reati militari lievi, quelli cioè puniti con pena “non superiore nel massimo a sei mesi”, il Comandante di corpo diventa sostanzialmente “arbitro” nel collocare (discrezionalmente) un fatto nell’area penale oppure in quella disciplinare … cioè, in altre parole, è lui che ha l’ultima parola nel decidere se un determinato fatto debba essere sanzionato (da lui stesso!) a livello disciplinare oppure dal giudice penale al termine di un processo vero e proprio.

La richiesta di procedimento funziona grossomodo così: il Comandante di corpo comunica al Procuratore militare che vuole procedere disciplinarmente oppure “richiede” che venga aperto un procedimento penale a carico del militare autore del fatto (tale “richiesta” svolge a grossomodo la stessa funzione della querela in ambito civile – per approfondire leggi qui!). Comandanti di corpo, mi rivolgo ora a voi, siate molto chiari con il Procuratore militare! L’articolo 260 CPMP è titolato “Richiesta di procedimento” … trattasi quindi di una semplice richiesta che fate al Procuratore militare … ecco perchè, senza troppi giri di parole, vi consiglio di scrivere una cosa tipo “ai sensi dell’articolo 260 CPMP richiedo (o non richiedo) il procedimento penale a carico di … per tutti i reati militari ravvisabili da codesta Procura Militare nel fatto e perseguibili a richiesta del Comandante di corpo … tutto qui, non dovete aggiungere altro! L’importante è essere chiari su quello che chiedete in modo da non lasciar alcun dubbio o poter essere in qualche modo fraintesi … e offrire facili “appigli” agli avvocati difensori che magari si stanno arrampicando sugli specchi! Semplice, vero? Ricordate che il termine per richiedere il procedimento è di un mese … che decorre dal giorno in cui avete avuto notizia del fatto che costituisce reato … superato il quale non è più possibile richiedere il procedimento e per il Procuratore militare si alza un muro invalicabile che si chiama “archiviazione” (per il cosiddetto difetto di una condizione di procedibilità [1]).

Mi sembra di avervi detto abbastanza … vi posto però alcuni doverosi chiarimenti prima di concludere:

  • nulla vieta che il Comandante di corpo richieda il procedimento penale ai sensi dell’articolo 260 CPMP contestualmente alla comunicazione della notizia di reato (per approfondire leggi qui!) anzi molto spesso viene fatto proprio così;
  • è bene procedere sempre e comunque alla comunicazione della notizia di reato, anche se non si ha alcuna intenzione di richiedere il procedimento penale. Tale comunicazione deve essere sempre effettuata perché il fatto, anche se lo si vorrebbe sanzionare solo disciplinarmente, integra comunque una fattispecie penale nella quale il Procuratore militare potrebbe intravedere ulteriori ipotesi di reato come, ad esempio, la violata consegna (articolo 120 CPMP) o altri reati che potrebbero far superare il limite dei 6 mesi e far quindi scattare il procedimento d’ufficio;
  • l’alternativa tra sanzione penale e sanzione disciplinare non è secca! Il Comandante di corpo che non richiede il procedimento penale non è poi obbligato a punire il militare autore del fatto: conserva infatti integro il proprio potere sanzionatorio [2] e, al termine del procedimento disciplinare, rimarrà conseguentemente libero di sanzionare oppure di non sanzionare affatto;
  • come mai esiste proprio nel diritto penale militare un istituto giuridico così particolare? La risposta è semplice: chi ha scritto il codice penale militare di pace, in considerazione della “specificità” del mondo militare e nell’ottica di preservare la preparazione, la forza e l’efficienza bellica (intesa in questo caso come disciplina e coesione interna dell’unità) ha ritenuto che una sanzione disciplinare potesse avere un maggiore effetto deterrente di una sentenza di condanna vera e propria (che magari arriva dopo anni) … ma tutto ciò solo per fatti lievi … da qui la ragione per cui la richiesta di procedimento sia riservata ai soli fatti puniti con pena “non superiore nel massimo a sei mesi”.

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[1]: infatti la richiesta di procedimento è tecnicamente una cosiddetta “condizione di procedibilità”, ovverosia un vero e proprio ostacolo all’esercizio della giurisdizione penale, grossomodo come avviene in ambito civile con la querela (per approfondire leggi qui!).

[2]: per dovere di completezza, vi ricordo che ai sensi dell’articolo 751 del Testo Unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare (TUOM – leggi qui!) sono sanzionabili con la consegna di rigore anche “i comportamenti indicati dall’articolo 1362, comma 7, del codice” dell’ordinamento militare, ovvero i “fatti previsti come reato, per i quali il comandante di corpo non ritenga di richiedere il procedimento penale, ai sensi dell’articolo 260 c.p.m.p.”.

TI HANNO NOTIFICATO “L’AVVISO DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI”? SAI COSA SIGNIFICA?

Ti è stato appena notificato “l’avviso di conclusione delle indagini”? Beh, ciò significa sostanzialmente che le indagini a tuo carico si sono concluse e che si può finalmente iniziare a giocare “a carte scoperte”: da questo momento in poi, infatti, il tuo avvocato potrà finalmente vedere gli atti del pubblico ministero prendendo conoscenza integrale di cosa sei effettivamente accusato, delle prove che sono state raccolte a tuo carico eccetera. Sappi che quando ti viene notificato l’“avviso di conclusione delle indagini” il pubblico ministero ritiene di aver raccolto prove sufficienti per chiedere (e ottenere!) il tuo rinvio a giudizio, ovverosia di portarti a processo!

Facciamo però un passo indietro … sappi che dalla notifica dell’“avviso di conclusione delle indagini” hai 20 giorni per (articolo 415 bis del codice di procedura penale):

  • presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa ad investigazioni del difensore”, cioè consegnare al pubblico ministero eventuali documenti in tuo possesso che possano magari riuscire a dimostrare la tua innocenza (o anche solo “mitigare” la tua posizione);
  • presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio”, cioè raccontare la tua versione della storia;
  • chiedere al pubblico ministero il compimento di atti di indagine”, affinchè, ad esempio, senta un testimone che non ha sentito, acquisire un determinato documento che non è stato acquisito eccetera,

in modo da provare a convincere chi ti sta accusando che le cose sono andate in modo diverso da quello che risulta dalle indagini compiute … per fargli insomma cambiare idea! Se poi riuscirai a convincere il pubblico ministero della tua innocenza, questi chiederà l’archiviazione del procedimento, altrimenti chiederà ugualmente il tuo rinvio a giudizio … ma di questo si occuperà il tuo avvocato, a ognuno il suo mestiere!

Ricordo un vecchio detto che fa più o meno così: “… se pensate che rivolgersi a un Avvocato serio costi troppi soldi, non avete idea di quanto potrebbe costarvi caro farvi assistere da quello sbagliato!” … pensateci sopra! Ad maiora!

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LA PARTENZA ACCIDENTALE DI UN COLPO: POSSIBILI PROFILI DI RESPONSABILITÀ PENALE MILITARE

Vi è accidentalmente partito un colpo mentre controllavate la vostra arma, al termine del servizio, al posto di caricamento/scaricamento? Vi dico subito che al verificarsi di tale evento il vostro Comandante di corpo (in qualità di Ufficiale di Polizia Giudiziaria Militare) ha l’obbligo (e il dovere) di interessare il Procuratore militare anche se poi, il più delle volte, il tutto si conclude esclusivamente dal punto di vista disciplinare … cerchiamo però di mettere un po’ di ordine sull’argomento che presenta qualche aspetto decisamente problematico.

Ebbene, iniziamo col dire che la partenza di un colpo di arma da fuoco è assimilabile alla “distruzione di munizionamento” che è un reato militare! L’articolo 169 del codice penale militare di pace (CPMP), infatti, prevede che “il militare, che […] distrugge, disperde, deteriora, o rende inservibili, in tutto o in parte, oggetti, armi, munizioni o qualunque altra cosa mobile appartenente all’amministrazione militare, è punito con la reclusione militare da sei mesi a quattro anni”. Naturalmente, l’articolo 169 CPMP presuppone la volontarietà del fatto, ovverosia che tale colpo venga sparato intenzionalmente e, cioè, con “dolo”! Pensate, ad esempio, al caso di scuola del soldato di guardia la notte di capodanno che decide di salutare il nuovo anno “sparacchiando” in aria qualche colpo con la propria arma in dotazione … avendo distrutto intenzionalmente delle munizioni è soggetto all’applicazione dell’articolo 169 CPMP, con il serio rischio di esser quindi “punito con la reclusione militare da sei mesi a quattro anni”.

Ma attenzione!!! Quando tale evento avviene senza quell’intenzionalità tipica del dolo ma per mera colpa (cioè, ai sensi dell’articolo 43 del codice penale, per “negligenza, o imprudenza, o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”) trovano infatti applicazione anche:

Ricapitolando, quando il fatto previsto dall’articolo 169 CPMG viene effettuato per colpa … detto altrimenti quando il colpo ci parte accidentalmente e cioè senza alcuna intenzione o volontarietà … si applica quindi anche l’articolo 170 CPMP che prevede una sostanziosa riduzione della pena che, nel massimo, non potrà superare i sei mesi. Ebbene, se abbiamo letto con attenzione l’approfondimento che ho fatto sulla richiesta di procedimento del Comandante di corpo (leggi qui!), capiremo subito che tale limite di sei mesi rende applicabile al caso anche l’articolo 260 CPMP che prevede che il fatto venga alternativamente sanzionato:

  • o in sede penale, ma solo previa specifica richiesta alla Procura militare da parte del Comandante di corpo stesso;
  • o solo disciplinarmente, sempre che il Comandante di corpo decida di avvalersi delle prerogative che gli riconosce l’art. 260 CPMP.

So benissimo che il meccanismo giuridico che vi ho appena descritto è molto complicato, ma così funzionano le cose e ritengo quindi necessario che siate pienamente coscienti dei rischi penali o disciplinari che correte quando svolgete servizi armati! Prevenire è sempre meglio che curare …

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BISOGNA PER FORZA MOSTRARE UN DOCUMENTO D’IDENTITÀ QUANDO SI VIENE CONTROLLATI DALLE FORZE DI POLIZIA?

Iniziamo col dire che le forze dell’ordine possono sempre identificarci … non serve infatti che si abbia commesso una qualche irregolarità se non, addirittura, un vero e proprio reato … possono identificarci perché la cosa rientra nelle loro prerogative … è insomma un loro diritto e, allo stesso tempo, un loro preciso dovere!

Ebbene, bisogna per forza esibire un documento d’identità o è magari sufficiente fornire “a voce” le proprie generalità (cioè dire il proprio nome, cognome, luogo e data di nascita, indirizzo eccetera)? Nella normalità dei casi, ai sensi dell’articolo 651 del codice penale, “dovrebbe” essere sufficiente comunicare oralmente le proprie generalità … infatti, non esiste attualmente alcuna norma che ci obblighi ad esibire materialmente un documento di riconoscimento [1] (ovviamente, cosa assai differente è quando ci viene chiesto di esibire la patente mentre siamo alla guida. Il codice della strada è molto chiaro in materia: l’articolo 192 stabilisce infatti che “i conducenti dei veicoli sono tenuti ad esibire, a richiesta dei funzionari, ufficiali e agenti […], il documento di circolazione e la patente di guida, se prescritti, e ogni altro documento che, ai sensi delle norme in materia di circolazione stradale, devono avere con sé“). Passando al rovescio della medaglia … l’agente di polizia deve a sua volta identificarsi prima di procedere al controllo? Beh, nel caso in cui siamo alla guida non sussiste alcun problema perchè il codice della strada dispone che “coloro che circolano sulle strade sono tenuti a fermarsi all’invito dei funzionari, ufficiali ed agenti ai quali spetta l’espletamento dei servizi di polizia stradale, quando siano in uniforme o muniti dell’apposito segnale distintivo” (articolo 192 del codice della strada) … detto altrimenti, il solo fatto di essere in uniforme è di per sè identificativo per l’agente: egli non è quindi tenuto a mostrarci alcun tesserino di riconoscimento! Nel caso invece non indossi l’uniforme … sia cioè in borghese … è necessario che ci mostri un segnale distintivo per farci fermare (com’è, ad esempio, la cosiddetta “paletta”) o, al limite, un tesserino di riconoscimento prima di procedere al controllo. Ma se non siamo alla guida? Prendiamo ad esempio il caso in cui stiamo semplicemente camminando e veniamo fermati … beh, nell’assenza di specifiche norme in materia, penso sia ragionevole ritenere che se ci ferma un agente in uniforme che magari scende da un’auto istituzionale nulla questio, ci facciamo cioè tranquillamente identificare perchè l’indossare l’uniforme è di per sè identificativo. La cosa cambia leggermente, invece, se l’agente indossa abiti borghesi: in tal caso, abbiamo difatti il sacrosanto diritto che si identifichi, mostrandoci magari un tesserino di riconoscimento … altrimenti, se abbiamo fondati dubbi sull’appartenenza dello stesso alle forze di polizia, possiamo eventualmente chiamare il 112, raccontare quello che sta accadendo e chiedere magari che venga inviata una pattuglia sul posto!   

Tanto premesso, cosa accade poi se si ha la malaugurata idea di:

  • rifiutarsi di fornire le proprie generalità? Innanzitutto si rischia un fermo per l’identificazione, ovverosia si rischia di esser portato in caserma e di doverci passare anche molte ore! Inoltre, si incorre nel reato di “rifiuto d’indicazioni sulla propria identità personale [2]” (articolo 651 del codice penale);
  • fornire generalità false? Si incorre quantomeno nel reato di “falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale” (articoli 495 e 496 del codice penale).

Come vedete, l’argomento è molto serio … non dovete minimamente sottovalutarlo perché potreste infatti correre il rischio di pesanti conseguenze penali nonchè lavorative! Proprio per questo, vi chiedo: alla fine dei conti che problema avete a non mostrare il vostro documento di riconoscimento alle forze dell’ordine? Lo so, abbiamo appena finito di dire che non si è normalmente obbligati a farlo … ma perchè allora non facilitare la vita alle forze dell’ordine, scongiurando al contempo il rischio di dover andare in caserma per esser identificati … perderendo (e facendo perdere) inutilmente tempo? Io non ho mai avuto alcun problema a mostrare un mio documento d’identità in occasione di un controllo e voi? … neanche voi? Direi che fate bene! Come mai allora secondo voi si moltiplicano i casi di persone che si rifiutano di farlo? Come si dice … la madre dei cretini è sempre incinta … se poi questi poi arrivano ad autoproclamarsi “soggetti di diritto internazionale” e boiate del genere per non farsi controllare, secondo me non hanno bisogno di far vedere alcun documento …  hanno solo un disperato bisogno farsi vedere, ma da un bravo psichiatra!!!

TGCG

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[1]: questa è la regola base che però non vale per le persone “pericolose o sospette” di cui all’articolo 4 del “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” (il cosiddetto TULPS, R.D. 18 giugno 1931, n. 773).

[2]: tale reato si integra anche quando la richiesta pervenga da un pubblico ufficiale che non appartenga alle forze di polizia e quindi, ad esempio, da un “capotreno” nell’esercizio delle sue funzioni eccetera.

TI HANNO APPENA NOTIFICATO UN INVITO A ELEGGERE DOMICILIO E ALLA NOMINA DI UN DIFENSORE DI FIDUCIA? HAI IDEA DI COSA STIA ACCADENDO?

Beh, niente di complicato … ti stanno semplicemente comunicando che sei indagato (non imputato ancora – leggi qui!) e che è quindi il caso di nominare un avvocato di fiducia, anche perché in assenza di una tua nomina ti verrà assegnato un avvocato d’ufficio (che dovrai pagarti, l’avvocato d’ufficio non è infatti gratis! Non commettere l’errore di confonderlo con il gratuito patrocinio, avvocato d’ufficio e gratuito patrocinio sono due cose ben differenti!).

Per prima cosa ti consiglio quindi di contattare subito il tuo avvocato di fiducia! Già fatto? Molto bene! Sappi che nel verbale che ti è appena stato notificato ti è stato chiesto anche di “eleggere domicilio”, ovverosia di scegliere un indirizzo per le successive comunicazioni/notifiche. Secondo me, l’indirizzo da scegliere è quello dove il tuo avvocato di fiducia ha il proprio studio legale, anche perché altrimenti i tuoi vicini di casa inizierebbero a vedere spesso le forze dell’ordine che ti cercano per notificarti atti … e tutti verrebbero quindi a sapere che sei indagato … meglio evitare, vero? Che ne dici? Comunque nessuno stress, sarà il tuo avvocato di fiducia a consigliarti per il meglio!

Tanto premesso, la domanda che ti starai facendo è: di cosa sono accusato? Beh, nel foglio che ti è stato notificato di solito non c’è scritto, ma sappi che il tuo avvocato sa comunque come fare a recuperare tali informazioni (esiste infatti un’apposita istanza da presentare in Procura – leggi qui!) in modo da poter abbozzare “a grandi linee” una prima difesa … in questa fase non si può fare molto di più: le indagini sono infatti segrete e la Procura gioca sostanzialmente a “carte coperte”!

Ricordo un vecchio detto che fa più o meno così: “… se pensate che rivolgersi a un Avvocato serio costi troppi soldi, non avete idea di quanto potrebbe costarvi caro farvi assistere da quello sbagliato!” … pensateci sopra! Ad maiora!

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L’ASSUNZIONE DELLA QUALITÀ DI IMPUTATO

Quando si assume esattamente la qualità di imputato in un procedimento penale? E fino a quando di conserva? La domanda non è banale perché potrebbe avere dei risvolti pratici non trascurabili, ad esempio ai fini del mantenimento del nulla osta di sicurezza, della partecipazione ad un concorso eccetera …

Per quanto di interesse sappiate che, ai sensi dell’articolo 60 del codice di procedura penale, “1. Assume la qualità di imputato la persona alla quale è attribuito il reato nella richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, di applicazione della pena a norma dell’articolo 447 comma 1, nel decreto di citazione diretta a giudizio e nel giudizio direttissimo. 2. La qualità di imputato si conserva in ogni stato e grado del processo, sino a che non sia più soggetta a impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna o sia divenuto esecutivo il decreto penale di condanna. 3. La qualità di imputato si riassume in caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere e qualora sia disposta la revisione del processo”.

Certo, so benissimo che si parla di “richiesta” di rinvio a giudizio e non di rinvio a giudizio vero e proprio … ciò nonostante, la qualifica di “imputato”, anche se solo formale, comporta comunque molteplici conseguenze che è meglio non sottovalutare.

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LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE PREVISTE DAL CODICE PENALE MILITARE DI PACE

In analogia a quanto abbiamo visto per il codice penale “ordinario” (per approfondire clicca qui), anche il codice penale militare di pace tratta delle cause di giustificazione dell’“uso legittimo delle armi [1]” e della “difesa legittima [2]” fornendoci, però, alcune informazioni ulteriori che ritengo utile riportarvi. Infatti:

  • esplicita la nozione di violenza comprendendovi “l’omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti, e qualsiasi tentativo di offendere con armi” (articolo 43 c.p.m.p.);
  • introduce il concetto di necessità militare (per approfondire il principio di necessità militare nelle operazioni militari  leggi qui) stabilendo che “non è punibile il militare, che ha commesso un fatto costituente reato, per esservi stato costretto dalla necessità di impedire l’ammutinamento, la rivolta, il saccheggio, la devastazione, o comunque fatti tali da compromettere la sicurezza del posto, della nave o dell’aeromobile” (articolo 44 c.p.m.p.).

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[1]: Articolo 41 del codice penale militare di pace – Uso legittimo delle armi: “Non è punibile il militare, che, a fine di adempiere un suo dovere di servizio, fa uso, ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza. La legge determina gli altri casi, nei quali il militare è autorizzato a usare le armi o altro mezzo di coazione fisica”.

[2]: Articolo 42 del codice penale militare di pace – Difesa legittima:“ Per i reati militari, in luogo dell’articolo 52 del codice penale, si applicano le disposizioni dei commi seguenti. Non è punibile chi ha commesso un fatto costituente reato militare, per esservi stato costretto dalla necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa. Non è punibile il militare, che ha commesso alcuno dei fatti preveduti dai capi terzo e quarto del titolo terzo, libro secondo, per esservi stato costretto dalla necessità: 1° di difendere i propri beni contro gli autori di rapina, estorsione, o sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione, ovvero dal saccheggio; 2° di respingere gli autori di scalata, rottura o incendio alla casa o ad altro edificio di abitazione o alle loro appartenenze, se ciò avviene di notte; ovvero se la casa o l’edificio di abitazione, o le loro appartenenze, sono in luogo isolato, e vi è fondato timore per la sicurezza personale di chi vi si trovi. Se il fatto è commesso nell’atto di respingere gli autori di scalata, rottura o incendio alla casa o ad altro edificio di abitazione, o alle loro appartenenze, e non ricorrono le condizioni prevedute dal numero 2° del comma precedente, alla pena di morte con degradazione è sostituita la reclusione non inferiore a dieci anni; alla pena dell’ergastolo è sostituita la reclusione da sei a venti anni; e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà”.

ADEMPIMENTO DI UN DOVERE, USO LEGITTIMO DELLE ARMI E STATO DI NECESSITÀ (ARTT. 51, 53 E 54 C.P.)

Dopo aver compreso quanto prevede l’articolo 52 del codice penale in materia di “legittima difesa” (clicca qui per approfondire), ritengo necessario che diate una rapidissima sbirciata agli articoli 51, 53 e 54 del codice penale che trattano rispettivamente le cause di giustificazione dell’“esercizio di un diritto o adempimento di un dovere”, dell’“uso legittimo delle armi” e dello “stato di necessità”. Sapere di cosa trattano questi articoli potrebbe infatti risultarvi molto utile quando, ad esempio, siete impiegati “sul campo” in operazioni di controllo del territorio a diretto contatto con personale civile. Ebbene, senza entrare nelle annose questioni interpretative di cui tali articoli sono portatori, mi basta che sappiate che, ai sensi dell’:

  • articolo 51 del codice penale, l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine”;
  • articolo 53 del codice penale, “[…] non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona. La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza. La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica”. Per quanto attiene all’uso legittimo delle armi disciplinato dal codice penale militare di pace (articolo 41 c.p.m.p.) vi rimando a un breve post scritto sull’argomento (clicca qui);
  • articolo 54 del codice penale, “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, nè altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo”.

A parole sembra semplice, vero? Nella pratica però è estremamente complicato riuscire a bilanciare tutto … ci vuole molta esperienza, una buona dose di freddezza e tanto buon senso! Non mi resta che augurarvi un buon lavoro!

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LA LEGITTIMA DIFESA (ART. 52 C.P.)

Affrontiamo ora il tema evergreen della legittima difesa che, insieme alle altre cause di giustificazione previste dal codice penale (“esercizio di un diritto o adempimento di un dovere”, dell’“uso legittimo delle armi” e dello “stato di necessità” previste dagli articoli 51, 53 e 54 c.p. – per approfondire clicca qui), potrebbe risultarvi molto utile quando, ad esempio, siete impiegati “sul campo” in operazioni di controllo del territorio a diretto contatto con personale civile. Ebbene, secondo l’articolo 52 del codice penale “non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa […]”. Ciò significa sostanzialmente che quando stiamo subendo un’aggressione ingiusta, la nostra (necessaria) reazione non è punibile dal punto di vista penale (questo anche se commettiamo dei veri e propri reati come le percosse, le lesioni se non addirittura l’omicidio) se c’è stata proporzione tra offesa e difesa … facciamo un piccolo esempio: immaginate di essere a contatto con dei dimostranti che vi lanciano delle pietre … beh, è facile intuire che la mia difesa non sarà “legittima” se rispondo al lancio di pietre usando la mia arma in dotazione! A parole sembra semplice, ma nella pratica le cose non sono mai altrettanto chiare, vero? Gli antichi dicevano infatti che “vim vi repellere licet” (cioè che è lecito respingere la violenza con la violenza) ma nella pratica è diventato oggi molto complicato riuscire a bilanciare tutto … ci vuole molta esperienza, una buona dose di freddezza e tanto buon senso, anche perché il grosso dei problemi applicativi della legittima difesa derivano proprio dal requisito della proporzionalità tra offesa e difesa … argomento sul quale sono stati scritti fiumi di inchiostro, credetemi!

Tanto premesso, sono doverose alcune precisazioni:

  • come abbiamo visto l’articolo 52 del codice penale si apre dicendo che non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere […]” … evidenziando cioè che il soggetto che si difende è costretto a farlo perché non ha alternative! Beh, tenete bene in considerazione che la giurisprudenza ha interpretato la questione escludendo la legittima difesa nei casi in cui lo scontro con l’aggressore poteva essere evitato! Inoltre, il riferimento al “pericolo attuale di un’offesa ingiusta” implica che la nostra difesa debba essere contestuale all’offesa … non c’è quindi alcuno spazio per reazioni “a freddo” o possibili vendette;
  • si parla di eccesso colposo di legittima difesa in tutti i quei casi in cui, per colpa, la nostra reazione difensiva “eccede” l’offesa ricevuta, rompendo di fatto quell’equilibrio che che rappresenta il presupposto della proporzione tra offesa e difesa a cui ho fatto riferimento poco sopra. Ma cosa succede in caso eccesso colposo di legittima difesa? Beh, sostanzialmente la “giustificazione” offertaci dalla legittima difesa non opera e si è quindi responsabili penalmente per quanto fatto … l’articolo 55 del codice penale è chiaro al riguardo stabilendo sostanzialmente che allorquando “[…] si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”;
  • quando opera la giustificazione della legittima difesa si è protetti anche dalle conseguenze “civili” del fatto, viene cioè esclusa anche la nostra responsabilità civile! L’articolo 2044 del codice civile stabilisce infatti che:“non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri. Nei casi di cui all’articolo 52, commi secondo, terzo e quarto, del codice penale, la responsabilità di chi ha compiuto il fatto è esclusa. Nel caso di cui all’articolo 55, secondo comma, del codice penale, [cioè in caso di eccesso colposo di legittima difesa], al danneggiato è dovuta una indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, tenuto altresì conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato”.

Sperando di aver stimolato in voi la voglia di approfondire ulteriormente l’argomento, sono sicuro che quanto precede sia comunque sufficiente per affrontare coscientemente gran parte delle difficoltà lavorative che poteste incontrare operando “sul campo”.

Per completezza di informazione non posso però concludere senza postarvi la parte rimanente  dell’articolo 52 del codice penale che tratta sostanzia della cosiddetta legittima difesa “domiciliare” … ovverosia della legittima difesa che avviene sostanzialmente a seguito della violazione di domicilio:

[…] Nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma [cioè in caso di violazione di domicilio], sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità: b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione.

Le disposizioni di cui al secondo e al quarto comma si applicano anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale.

Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”.

Per quanto attiene alla legittima difesa disciplinata dal codice penale militare di pace (articolo 42 c.p.m.p.) vi rimando a un breve post proprio sull’argomento (clicca qui).

TCGC

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COS’È IL CASELLARIO GIUDIZIALE? CHE DIFFERENZA C’È TRA CERTIFICATO E VISURA DEL CASELLARIO? IN COSA CONSISTE IL CERTIFICATO DEI CARICHI PENDENTI?

Il casellario giudiziale è un archivio nazionale dove viene registrata la storia giudiziaria di ognuno di noi, con particolare riguardo alle condanne penali definitive (… includendo peraltro anche alcune tipologie di provvedimenti amministrativi e civili).

L’elenco dei provvedimenti iscrivibili nel casellario giudiziale è riportato all’articolo 3 del D.P.R. 313 del 2002 [1] e comprende:

a) i provvedimenti giudiziari penali di condanna definitivi, anche pronunciati da autorità giudiziarie straniere se riconosciuti ai sensi degli articoli 730 e seguenti del codice di procedura penale, salvo quelli concernenti contravvenzioni per le quali la legge ammette la definizione in via amministrativa, o l’oblazione limitatamente alle ipotesi di cui all’articolo 162 del codice penale, sempre che per quelli esclusi non sia stata concessa la sospensione condizionale della pena;

b) i provvedimenti giudiziari definitivi concernenti le pene, compresa la sospensione condizionale e la non menzione, le misure di sicurezza personali e patrimoniali, gli effetti penali della condanna, l’amnistia, l’indulto, la grazia, la dichiarazione di abitualità, di professionalità nel reato, di tendenza a delinquere;

c) i provvedimenti giudiziari concernenti le pene accessorie;

d) i provvedimenti giudiziari concernenti le misure alternative alla detenzione;

e) i provvedimenti giudiziari concernenti la liberazione condizionale;

f) i provvedimenti giudiziari definitivi che hanno prosciolto l’imputato o dichiarato non luogo a procedere per difetto di imputabilità, o disposto una misura di sicurezza, nonché’ quelli che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale;

g) i provvedimenti giudiziari definitivi di condanna alle sanzioni sostitutive e i provvedimenti di conversione di cui all’articolo 66, terzo comma, e all’articolo 108, terzo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689;

h) i provvedimenti giudiziari del pubblico ministero previsti dagli articoli 656, comma 5, 657 e 663 del codice di procedura penale;

i) i provvedimenti giudiziari di conversione delle pene pecuniarie;

i-bis) l’ordinanza che ai sensi dell’articolo 464-quater del codice di procedura penale dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova, nonché le sentenze che dichiarano estinto il reato per esito positivo della messa alla prova ai sensi dell’articolo 464-septies del codice di procedura penale;

i-ter) i provvedimenti con cui il giudice dispone la sospensione del procedimento ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale;

l) i provvedimenti giudiziari definitivi concernenti le misure di prevenzione della sorveglianza speciale semplice o con divieto o obbligo di soggiorno;

m) i provvedimenti giudiziari concernenti la riabilitazione;

n) i provvedimenti giudiziari di riabilitazione, di cui all’articolo 15 della legge 3 agosto 1988, n. 327;

o) i provvedimenti giudiziari di riabilitazione speciale relativi ai minori, di cui all’articolo 24 del regio decreto-legge 20 luglio 1934, 1404, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 maggio 1935, n. 835, e successive modificazioni;

p) i provvedimenti giudiziari definitivi di interdizione e inabilitazione e quelli di revoca, nonché i decreti che istituiscono, modificano o revocano l’amministrazione di sostegno;

q) lettera abrogata dal D. Lgs. 12 settembre 2007, n. 169;

r) i provvedimenti giudiziari relativi all’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come sostituito dall’art. 15 della legge 30 luglio 2002, n. 189;

s) i provvedimenti amministrativi di espulsione e i provvedimenti giudiziari che decidono il ricorso avverso i primi, ai sensi dell’articolo 13 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come modificato dall’art. 12 della legge 30 luglio 2002, n. 189; t) i provvedimenti di correzione, a norma di legge, dei provvedimenti già iscritti;

u) qualsiasi altro provvedimento che concerne a norma di legge i provvedimenti già iscritti, come individuato con decreto del Presidente della Repubblica, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro della giustizia”.

Il certificato del casellario giudiziale è quel documento che si chiede all’Ufficio del casellario presente in ogni Procura della Repubblica [2] e che riassume le iscrizioni presenti a nostro nome nel casellario giudiziale, ma non tutte! … infatti ai sensi dell’articolo 24, comma 1, del citato D.P.R. 313/2002 non vi troveremo traccia delle iscrizioni “relative:

a) alle condanne delle quali è stato ordinato che non si faccia menzione nel certificato a norma dell’articolo 175 del codice penale, purché il beneficio non sia stato revocato;

b) alle condanne per contravvenzioni punibili con la sola ammenda e alle condanne per reati estinti a norma dell’articolo 167, primo comma, del codice penale;

c) alle condanne per i reati per i quali si è verificata la causa speciale di estinzione prevista dall’articolo 556 del codice penale;

d) alle condanne in relazione alle quali è stata definitivamente applicata l’amnistia e a quelle per le quali è stata dichiarata la riabilitazione, senza che questa sia stata in seguito revocata;

e) ai provvedimenti previsti dall’articolo 445 del codice di procedura penale, quando la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria, e ai decreti penali;

f) alle condanne per fatti che la legge ha cessato di considerare come reati, quando la relativa iscrizione non è stata eliminata;

f-bis) ai provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale, quando la relativa iscrizione non è stata eliminata;

g) ai provvedimenti riguardanti misure di sicurezza conseguenti a sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere, quando le misure sono state revocate;

h) ai provvedimenti che riguardano l’applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale semplice o con divieto o obbligo di soggiorno;

i) ai provvedimenti giudiziari emessi dal giudice di pace;

l) ai provvedimenti giudiziari relativi ai reati di competenza del giudice di pace emessi da un giudice diverso, limitatamente alle iscrizioni concernenti questi reati;

m) ai provvedimenti di interdizione, di inabilitazione e relativi all’amministrazione di sostegno, quando esse sono state revocate;

m-bis) ai provvedimenti che ai sensi dell’articolo 464-quater del codice di procedura penale dispongono la sospensione del procedimento con messa alla prova;

m-ter) alle sentenze che ai sensi dell’articolo 464-septies del codice di procedura penale dichiarano estinto il reato per esito positivo della messa alla prova […]”.

Quindi, nel certificato del casellario giudiziale non saranno visibili tutte le iscrizioni presenti nel casellario giudiziale nell’ottica di agevolare ad esempio chi ha avuto “problemi” penali di lieve entità (ad esempio nel caso di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto) oppure ha optato per particolari procedure (com’è, ad esempio, il patteggiamento di una pena inferiore ai due anni, la messa alla prova eccetera). Quanto appena detto assume molta importanza quando ci viene richiesto di autocertificare i nostri precedenti penali: infatti, ai sensi dell’articolo 28, comma 8, del citato D.P.R. 313/2002, l’“interessato che, a norma degli articoli 46 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, rende dichiarazioni sostitutive relative all’esistenza nel casellario giudiziale di iscrizioni a suo carico, non è tenuto a indicare”, tra le altre [3], quelle non riportate nel certificato del casellario giudiziale ai sensi del comma 1 dell’articolo 24 del D.P.R. 313/2002, cui abbiamo fatto cenno poco sopra. Quindi se nella nostra dichiarazione sostitutiva non indicheremo le iscrizioni che non appaiono nel certificato del casellario non commetteremo alcun reato (falso o dichiarazione mendace sono le ipotesi più comuni) ma ricordate che la Pubblica Amministrazione potrà sempre “vedere” tutte le iscrizioni presenti nel casellario! Dire o non dire, dichiarare o non dichiarare, la questione non è banale e per questo mi sento in dovere di consigliarvi vivamente una chiacchierata preliminare con un Avvocato di fiducia … “se pensate che rivolgersi a un Avvocato serio costi troppi soldi, non avete idea di quanto potrebbe costarvi caro farvi assistere da quello sbagliato!” … rifletteteci sopra!

Chiariamo infine che vanno distinti dal certificato del casellario giudiziale:

  • la visura del casellario giudiziale che, al contrario del certificato, contiene tutte le iscrizioni presenti nel casellario. Diversamente dal certificato del casellario giudiziale, inoltre, non ha alcun valore certificativo (per intenderci, non serve quindi a certificare la nostra “fedina penale”) e non riporta i dati anagrafici della persona cui si riferisce (viene infatti rilasciato in forma anonima ad uso e consumo dell’interessato). Ma insomna … questa visura allora a cosa serve? Beh, a null’altro se non a farci conoscere integralmente la nostra storia giudiziaria;
  • il certificato dei carichi pendenti che, semplificando al massimo, riporta invece i procedimenti penali “pendenti” di un determinato soggetto presso una determinata Procura della Repubblica e quella soltanto (cioè i procedimenti penali in corso e nei quali il soggetto ha assunto la qualità di imputato. Non vi troverete quindi informazioni su procedimenti ancora in fase di indagini preliminari che possono però essere comunque ottenute con una semplice richiesta ex art. 335 c.p.p. – clicca qui). Se aveste mai bisogno di sapere se esistono carichi pendenti presso più Procure della Repubblica, dovrete quindi necessariamente presentare altrettante richieste presso ognuna delle stesse … ma questo solo fino all’entrata in servizio del casellario nazionale dei carichi pendenti.

TCGC

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[1]: titolato “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di casellario giudiziale europeo, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti”.

[2]: dato che il casellario giudiziale è un archivio nazionale, è quindi indifferente che il certificato del casellario giudiziale venga chiesto a Caserta, Bolzano o Palermo … il risultato sarà identico!

[3]:art. 28, comma 7, del D.P.R. 313/2002: “Nei certificati di cui ai commi 2 e 3 non sono, in ogni caso, riportate le iscrizioni relative: a) alle condanne per contravvenzioni punibili con la sola ammenda e alle condanne per reati estinti a norma dell’articolo 167, primo comma, del codice penale; b) ai provvedimenti che ai sensi dell’articolo 464-quater del codice di procedura penale, dispongono la sospensione del procedimento con messa alla prova, nonché’ alle sentenze che ai sensi dell’articolo 464-septies del codice di procedura penale dichiarano estinto il reato per esito positivo della messa alla prova; c) ai provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale”.

COME FACCIO A SAPERE SE SONO SOTTO INDAGINE?

State tranquilli… nulla di illegale, anzi! Per sapere se siete sotto indagine basta infatti fare una semplicissima richiesta alla Procura della Repubblica dove pensate che possa essere incardinato il procedimento penale in cui temete di esser rimasti coinvolti. Preciso da subito che la Procura della Repubblica competente a indagare (e quindi a darvi notizie in merito all’eventuale esistenza o meno di indagini a vostro carico) sarà quella del luogo in cui è stato compiuto il presunto reato … mi spiego meglio, se sono stato denunciato dal vicino di casa dei miei genitori a Firenze, dovrò fare richiesta alla Procura di Firenze … è inutile quindi fare richiesta alla Procura di Roma, perché a Roma non sapranno nulla della denuncia che mi è stata fatta a Firenze e la risposta sarà ovviamente negativa!

Il diritto a sapere se si è sottoposti alle indagini è previsto dall’articolo 335 c.p.p. … ma cosa dice esattamente questo articolo del codice di procedura penale? Beh, ci dice sostanzialmente che le iscrizioni nel registro degli indagati, ad eccezione di quelle previste per tutta una serie di reati gravi [1], “sono comunicate alla persona alla quale il reato è attribuito, alla persona offesa e ai rispettivi difensori, ove ne facciano richiesta [2]”.

Supponiamo quindi che vi venga effettivamente confermato che siete stati denunciati o querelati … di essere insomma sottoposti alle indagini … ebbene, toglietevi subito dalla testa di poter esaminare il vostro fascicolo (questo, infatti, vi verrà eventualmente fatto consultare solo ad indagini concluse), perché a seguito della richiesta ex art. 335 c.p.p. che avete fatto vi verranno comunicate solo informazioni generali tipo il numero del vostro procedimento penale, il reato contestato, il magistrato che se ne occupa eccetera … non molto quindi ma sicuramente quanto basta per andare immediatamente dal vostro Avvocato di fiducia … e “se pensate che rivolgersi a un Avvocato serio costi troppi soldi, non avete idea di quanto potrebbe costarvi caro farvi assistere da quello sbagliato!” … rifletteteci sopra!

TCGC

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[1]: che non vengono rese note come, ad esempio, in caso di rapina, associazione mafiosa, strage eccetera …

[2]: fermo restando che se “sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero, nel decidere sulla richiesta, può disporre, con decreto motivato, il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore a tre mesi e non rinnovabile” (articolo 335 c.p.p.).

LA PROSTITUZIONE IN ITALIA È LEGALE?

Cerchiamo di dare una risposta ad una domanda che mi viene rivolta spesso e frequente: la prostituzione in Italia è legale oppure no? Iniziamo subito col dire di si: in Italia la prostituzione è un’attività legale, sebbene non sia (al momento) regolamentata. Ciò che non è ovviamente legale è la prostituzione minorile, ovvero la vendita del proprio corpo da parte di chi non abbia compiuto i diciotto anni d’età! La legge penale è molto severa sull’argomento: l’articolo 600 bis [1] del codice penale, titolato proprio “prostituzione minorile”, prevede infatti pene estremamente elevate per chi compie atti sessuali con un minorenne in cambio di soldi. A parte tale norma penale, non esiste però alcuna disposizione che vieti a un maggiorenne di vendere il proprio corpo o di comprare le attenzioni sessuali di una prostituta o di un prostituto: se non è vietato vendere, ovviamente, non lo è neanche comprare!

Tanto premesso, ritengo utile evidenziare subito che non sono legali (anzi, vengono sanzionati penalmente!) tutti quei comportamenti che “ruotano attorno” alla prostituzione altrui. La legge n. 75 del 1958 “Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui” (la cosiddetta legge “Merlin”, per intenderci quella che ha abolito le cosiddette “case chiuse” e che regola ancora la materia) punisce infatti tutte quelle condotte che si concretizzano nello sfruttamento, nel favoreggiamento o nell’induzione alla prostituzione altrui [2], anche oggi in piena “era delle escort” (in tal senso anche le recenti sentenze n. 6352/2019 della Cassazione e n. 141/2019 della Corte Costituzionale).

Facciamo però molta attenzione: sebbene, come abbiamo visto, la prostituzione sia in linea di principio assolutamente legale nel nostro Paese, questa può comunque diventare reato quando viola il pubblico pudore. Sto facendo riferimento a quando la prostituta indossi abiti particolarmente succinti oppure quando si compiano atti osceni in luoghi vicini a quelli normalmente frequentati da minori (come è, ad esempio, ad una scuola, un oratorio o un parco giochi), se vi è il pericolo che questi vi assistano; solo il reato “base” di atti osceni in luogo pubblico è stato infatti depenalizzato nel 2016 e non è più punito con la reclusione, ma “solo” con una salatissima sanzione amministrativa (ho dedicato all’argomento uno specifico post clicca qui).

Ma se la prostituzione è legale, quando sentiamo alla televisione o alla radio che il tal Sindaco o che nella tal città è stata dichiarata “guerra alle lucciole”, cosa significa esattamente? Beh, in assenza di una chiara scelta legislativa nessuno ha il potere di vietare direttamente la prostituzione… ecco allora che si cerca di disincentivarla utilizzando i pochi strumenti giuridici a disposizione. Di solito applicando in modo molto rigido la vigente normativa come sono il codice della strada (sanzionando magari il cliente che accosta per contrattare sul prezzo, non perché contratta ma perché intralcia il traffico) oppure la stessa legge Merlin (contestando magari il favoreggiamento, l’induzione o addirittura lo sfruttamento della prostituzione al cliente che accompagna una prostituta da casa al luogo di lavoro e viceversa [3]), eccetera.

Alcune ultime considerazioni:

  1. la prostituta o il prostituto mantengono integra al 100% la propria dignità e, con essa, la piena e incondizionata libertà sessuale, al pari di ogni altra persona. Ciò significa che rimangono liberi di decidere se vendere o meno il proprio corpo e in che misura. Se per qualsiasi motivo si rifiutassero quindi di compiere (o di portare a termine) atti sessuali, non possono essere in alcun modo obbligati o costretti dal cliente che, altrimenti, potrebbe addirittura commettere il reato di violenza sessuale (per intenderci meglio, pensate che la Cassazione ha recentemente condannato per violenza sessuale un cliente che diede un bacio non voluto ad una prostituta con cui stava consumando un rapporto – Cass. 2201/2020);
  2. sebbene, come abbiamo visto, la prostituzione sia un’attività lecita, ciò non significa che l’ordinamento giuridico generale la tuteli al pari delle altre attività lavorative, si limita infatti solo a “tollerarla”, nulla di più! Questo vuol dire che il lavoratore dipendente che si prostituisce (pubblico o privato, militare o civile che sia, non fa alcuna differenza), può essere licenziato senza particolari problemi, anche se l’attività si è svolta fuori dall’orario di lavoro. Esiste infatti una costante giurisprudenza che conferma (con diverse argomentazioni che non tratterò per esigenze di sinteticità) il fatto che il datore di lavoro possa legittimamente licenziare il proprio dipendente che si prostituisca, anche se la cosa avviene fuori dall’orario di servizio;    
  3. la relazione che lega la prostituta o il prostituto al cliente è, dal punto civilistico, un contratto “immorale” (cosiddetto contratto ob turpe causam), poiché contrastante con il buon costume e, soprattutto, con il principio di incommerciabilità del proprio corpo. Ciò significa nella pratica che, ai sensi dell’articolo 2035 [4] del codice civile, se:
  • il cliente non è soddisfatto per la prestazione sessuale o non la riceve nei termini concordati, non può far causa alla prostituta/o per farsi restituire quanto pagato;
  • al termine del rapporto sessuale la prostituta/o non viene pagata/o, non ha a disposizione alcuno strumento giuridico per ottenere giudizialmente la somma pattuita.
  1. vi sono fondati motivi per tenere distinte prostituzione e pornografia [5]: l’attore porno, infatti, non è persona che si prostituisce! Sebbene anche la pornografia non sia oggi un’attività regolamentata, il fatto che esista una specifica tassa [6] sul materiale “a luci rosse” ci aiuta a ritenere che si tratti di attività lecita e da qui appare corretto fare i necessari distinguo con la prostituzione …

TCGC

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[1]: articolo 600 bis del codice penale – Prostituzione minorile: “È punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.000 a euro 150.000 chiunque: 1) recluta o induce alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto; 2) favorisce, sfrutta, gestisce, organizza o controlla la prostituzione di una persona di età inferiore agli anni diciotto, ovvero altrimenti ne trae profitto. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di un corrispettivo in denaro o altra utilità, anche solo promessi, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.500 a euro 6.000”.

[2]: articolo 3 della legge 75 del 1958: “E’ punito con la reclusione da due a sei anni […]:

  • chiunque […] abbia la proprietà o l’esercizio, sotto qualsiasi denominazione, di una casa di prostituzione, o comunque la controlli, o diriga, o amministri, ovvero partecipi alla proprietà, esercizio, direzione o amministrazione di essa;
  • chiunque, avendo la proprietà o l’amministrazione di una casa od altro locale, li conceda in locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione;
  • chiunque, essendo proprietario, gerente o preposto a un albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo, o loro annessi e dipendenze, o qualunque locale aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico, vi tollera abitualmente la presenza di una o più persone che, all’interno del locale stesso, si danno alla prostituzione;
  • chiunque recluti una persona al fine di farle esercitare la prostituzione, o ne agevoli a tal fine la prostituzione;
  • chiunque induca alla prostituzione una donna di età maggiore, o compia atti di lenocinio, sia personalmente in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sia a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità;
  • chiunque induca una persona a recarsi nel territorio di un altro Stato o comunque in luogo diverso da quello della sua abituale residenza al fine di esercitarvi la prostituzione, ovvero si intrometta per agevolarne la partenza;
  • chiunque esplichi un’attività in associazioni ed organizzazioni nazionali od estere dedite al reclutamento di persone da destinate alla prostituzione od allo sfruttamento della prostituzione, ovvero in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo agevoli o favorisca l’azione o gli scopi delle predette associazioni od organizzazioni;
  • chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui […]”.

[3]: normalmente tali contestazioni non vengono prese in considerazione dai giudici, sempre se la cosa non accada con regolarità ogni giorno, altrimenti tali reati potrebbero effettivamente configurarsi.

[4]:articolo 2035 del codice civile: “Chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato”. Il termine “ripetere” va inteso nel senso di richiesta al giudice di ottenere ciò di cui si ritiene di aver diritto: nel nostro caso, ottenere la somma pagata (dal cliente) o solo contrattata (se, invece, siamo nel caso in cui è la prostituta a non esser stata pagata).

[5]: naturalmente sono vietati la pedopornografia, cioè la pornografia con attori che non hanno compiuto i 18 anni, e la zooerastia che, in fin dei conti, rappresenta una evidente ipotesi di maltrattamento nei confronti degli animali.

[6]: art. 1, comma 466, della legge finanziaria 2006 (legge 266 del 2005) e art. 31 del decreto legge n. 185/2008 (convertito in legge n. 2 del 2009).

FARE SESSO IN AUTO SIGNIFICA COMMETTERE IL REATO DI “ATTI OSCENI IN LUOGO PUBBLICO”?

L’articolo 527 del codice penale stabilisce che: “chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 30.000. Si applica la pena della reclusione da quattro mesi a quattro anni e sei mesi se il fatto è commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano […]”. Senza entrare nel merito di cosa sia un “atto osceno” (cosa che immagino ben possiate immaginare e che segna il confine con il più lieve reato di “atti contrari alla pubblica decenza [1]”), dalla lettura di tale articolo emerge chiaro che il reato base preveda oggi solo una sanzione amministrativa pecuniaria (è stato infatti “depenalizzato” nel 2016) che, comunque, è veramente molto salata (arriva infatti a 30.000 euro!). Conseguenze penali vere e proprie presenta invece l’eventualità che tali “atti osceni” vengano compiuti “all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano”, con pene che arrivano sino ai quattro anni e sei mesi di reclusione. Riassumendo al massimo quanto appena detto possiamo quindi dire: niente minori in zona, niente reato … solo una “salatissima” multa!

Tanto premesso, vediamo un caso pratico: chiariamo cioè a cosa si può andare incontro nel caso in cui si consumi un rapporto sessuale all’interno della propria autovettura. Iniziamo col dire che non vi è alcuna differenza se tale rapporto sessuale avvenga con la nostra moglie/marito, fidanzata/fidanzato ovvero con una prostituta/prostituto. La legge non fa distinzioni in base a al partner sessuale: tale comportamento, infatti, rimane sempre un atto osceno e si applica, conseguentemente, la sanzione amministrativa sino a 30.000 euro (sempre che non si rientri nel caso previsto dal secondo periodo, quello cioè che punisce gli atti osceni effettuati in luoghi “abitualmente frequentati da minori”).

È a questo punto evidente che la differenza tra mera sanzione amministrativa o reclusione la faccia il luogo in cui ci si apparta. Vediamo di fare un poco di chiarezza, la legge parla infatti di:

  • luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico” – Beh, il “luogo pubblico”, lo dice la parola stessa, è un luogo evidentemente accessibile a tutti senza restrizioni, come può essere una strada, una piazza, una piazzola di sosta o un parco. Il “luogo aperto al pubblico”, invece, è generalmente un luogo sia pubblico che privato accessibile sulla base di restrizioni (ad esempio l’orario di apertura o il pagamento di un biglietto) come può essere una discoteca, una biblioteca, un parcheggio a pagamento, un cinema, una caserma eccetera. Il “luogo esposto al pubblico”, infine, è quel luogo che non è liberamente accessibile ma, per come è fatto o è posizionato, rende chiaramente visibile ciò vi accade all’interno, come può essere un giardino, un terrazzo ovvero l’abitacolo di un’automobile;
  • luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano” – In questo caso la giurisprudenza ha chiarito che, a prescindere dai tradizionali luoghi abitualmente frequentati da minori (come è una scuola, un oratorio, un parco giochi eccetera), possano rientrare in tale categoria anche quei punti di aggregazione in cui i minori si incontrano e vi sviluppano la propria socialità come può essere, ad esempio, il muretto sotto casa o il cortiletto condominiale.

Prima di concludere, è bene tenere sempre in considerazione il fatto che diversi giudici abbiano in passato ritenuto ininfluente ai fini della configurabilità del reato l’ora notturna in cui ci si è appartati o il fatto che l’automobile fosse stata posizionata su una strada non frequentata o senza uscita, nonché l’aver adottato “cautele” quali, ad esempio, quella di aver oscurato i vetri dell’auto con dei giornali.

A prescindere dai malintenzionati che potreste incontrare, ora sapete abbastanza su cosa si rischia (dal punto di vista legale) a fare l’amore in auto…

TCGC

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[1]: articolo 726 del codice penale: “Chiunque, in un luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 10.000”.

 

ESISTE DAVVERO IL REATO DI “APOLOGIA DEL FASCISMO”?

Inizio subito dicendovi che il reato di apologia di fascismo esiste veramente e non è la fantasia di qualche giornalista! Infatti, sono ancor oggi pienamente efficaci e vigenti le norme che vietano, tra l’altro:

  • la ricostituzione del partito disciolto partito fascista;
  • l’“apologia del fascismo”, cioè l’esaltazione, la propaganda o la pubblica difesa delle idee di cui esso era portatore;
  • le semplici “manifestazioni fasciste”, da intendersi non come riunioni politiche, bensì come atteggiamenti tipici di quel periodo come è, ad esempio, il saluto romano.

Per inquadrare il problema, iniziamo col dire che il primo comma della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Ebbene, tale disposizione costituzionale ha avuto poi attuazione con la legge 645 del 1952 [1] (cosiddetta legge Scelba) titolata proprio “norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione” che, oltre a definire cosa si intenda nella Costituzione per riorganizzazione del disciolto partito fascista [2] e sanzionare penalmente chi eventualmente lo promuove, organizza dirige o solo vi partecipa [3], punisce anche:

  • l’apologia del fascismo ovvero il fare “propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità indicate nell’articolo 1 [e cioè del disciolto partito fascista] con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila” (articolo 4). Tale articolo precisa inoltre che soggiace alla stessa pena “chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni. La pena è della reclusione da due a cinque anni e della multa da cinquecentomila a due milioni di lire se alcuno dei fatti previsti nei commi precedenti è commesso con il mezzo della stampa […]”;
  • le manifestazioni fasciste di chi “partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da duecentomila a cinquecentomila lire […]” (articolo 5).

Sulla base di quanto precede, sono dunque dunque illegali l’apologia del fascismo come le mere manifestazioni esteriori che caratterizzavano in nazi-fascismo (mi riferisco sempre al cosiddetto saluto romano). Conseguentemente, vi invito a non sottovalutare mai comportamenti che, anche se tenuti per gioco e senza alcuna convinzione, possono comunque comportare delle pesanti conseguenze sulla vostra vita e sulla vostra carriera.

TCGC

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[1]: la legge 645 del 1952 è stata poi oggetto di modifiche e integrazioni dalla legge n. 152 del 1975 e dalla legge n. 205 del 1993 (cosiddetta legge Mancino).

[2]: “ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista” (articolo 1 della legge 645 del 1952).

[3]: “chiunque promuove, organizza o dirige le associazioni, i movimenti o i gruppi indicati nell’articolo 1 [e cioè del disciolto partito fascista], è punito con la reclusione da cinque a dodici anni e con la multa da un milione a dieci milioni di lire. Chiunque partecipa a tali associazioni, movimenti o gruppi è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da cinquecentomila a cinque milioni di lire. Se l’associazione, il movimento o il gruppo assume in tutto o in parte il carattere di organizzazione armata o paramilitare, ovvero fa uso della violenza, le pene indicate nei commi precedenti sono raddoppiate. L’organizzazione si considera armata se i promotori e i partecipanti hanno comunque la disponibilità di armi o esplosivi ovunque siano custoditi” (articolo 2 della legge 645 del 1952).

CODICE PENALE MILITARE DI PACE (CPMP) O CODICE PENALE MILITARE DI GUERRA (CPMG)?

Alle missioni internazionali oggi si applica il codice penale militare di pace (CPMP) o il codice penale militare di guerra (CPMG)? La risposta è semplice: oggi alle missioni internazionali si applica il codice penale militare di pace. Dato che, però, la questione era tutt’altro che banale proverò, a grosse linee, ad offrirvi degli spunti di riflessione sul tema.

Iniziamo con un’ovvietà cioè con l’evidenziare che il codice penale militare di guerra non sia stato molto utilizzato negli anni passati. Infatti, dalla fine della seconda guerra mondiale, è stato sostanzialmente dimenticato … a mente ricordo solo due episodi in cui il CPMG è stato “riesumato”, ovvero in occasione della missione “Enduring Freedom” in Afghanistan (decreto legge n. 421 del 2001) e della missione “Antica Babilonia” in Iraq (decreto legge n. 165 del 2003). Eppure l’art. 9 del codice penale militare di guerra prevede, tra l’altro, che: “sono soggetti alla legge penale militare di guerra, ancorché in tempo di pace, i corpi di spedizione all’estero per operazioni militari armate, dal momento in cui si inizia il passaggio dei confini dello Stato o dal momento dell’imbarco in nave o aeromobile ovvero, per gli equipaggi di questi, dal momento in cui è ad essi comunicata la destinazione alla spedizione”. Come mai allora il CPMG non è stato sostanzialmente mai applicato alle missioni internazionali? Eppure è fuori discussione il fatto che garantisca meglio del CPMP il rispetto del diritto internazionale umanitario!

Ebbene, il codice penale militare di guerra non si applica alle missioni internazionali per una chiara scelta politica e di opportunità e, in tale ottica, il legislatore ha più volte ritenuto necessario derogare dall’applicazione del citato art. 9 del CPMG. Da ultimo, l’art. 19 della legge n. 145 del 2016 che ha previsto, tra l’altro, che “al personale che partecipa alle missioni internazionali, nonché al personale inviato in supporto alle medesime missioni si applica il codice penale militare di pace. La competenza è del tribunale militare di Roma”.

Tanto premesso, vi inizio ad una delle questioni giuridico-militari maggiormente dibattute e controverse degli ultimi anni: ritenete che sia ancor oggi utile mantenere in vita ben 2 codici penali militari, ovvero il CPMP e il CPMG? … inoltre, pensate sia ancora attuale la differenza tra CPMP e CPMG? Nessuno stress per cortesia, non c’è al momento ancora alcuna risposta esatta … vedremo come affronterà il problema il Parlamento, sempre che questo venga affrontato!

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