ESISTONO DAVVERO I SINDACATI MILITARI E IL MILITARE CI SI PUÒ VERAMENTE ISCRIVERE?

Domanda molto frequente: il militare può iscriversi al sindacato militare? … ma non era vietato? Sì, era vietato ma non lo è più: iscriversi ad un sindacato militare è difatti oggi assolutamente legale!

Facciamo però un piccolo passo indietro … come noto, infatti, fino al 2018 l’articolo 1475 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM) prevedeva tra l’altro che “i militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali”, ma del 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale tale divieto (Sentenza n. 120 del 2018 – per approfondire leggi qui!) e, contestualmente, ha invitato il Parlamento a varare una legge che regolasse la materia. Tale intervento legislativo si è concretizzato quattro anni dopo con l’approvazione della legge n. 46 del 28 aprile 2022 “Norme sull’esercizio della libertà sindacale del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare, nonché delega al Governo per il coordinamento normativo” che è entrata in vigore il successivo 27 maggio.

Senza entrare in complessi discorsi sui problemi che presenta tale legge (che, non dimentichiamo, non è scolpita nella roccia ed è quindi sempre integrabile e migliorabile in futuro!) vediamo praticamente cosa prevede.

Innanzitutto, la legge n. 46 del 2022 modifica l’articolo 1475 del COM prevedendo espressamente che “i militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale per singola Forza armata o Forza di polizia a ordinamento militare o interforze”, eliminando cioè il divieto cui abbiamo fatto riferimento all’inizio del post. A prescindere dalle ovvie disposizioni in materia di democraticità, neutralità ed estraneità dalle competizioni politiche, trasparenza eccetera, l’articolo 2 [1] della legge chiarisce subito che i sindacati militari differiscono di molto da quelli “tradizionali”: “l’attività sindacale [militare, infatti] è volta alla tutela degli interessi collettivi degli appartenenti alle Forze armate e alle Forze di polizia a ordinamento militare [… , ma …] tale attività non può interferire con lo svolgimento dei compiti operativi o con la direzione dei servizi” (art. 2, comma 3, della legge n. 46 del 2022). Le limitazioni all’attività sindacale militare sono espressamente elencate al successivo articolo 4 [2] della legge che vieta, tra l’altro, di:

  • rappresentare lavoratori non militari;
  • preannunciare o proclamare lo sciopero;
  • promuovere manifestazioni in uniforme o con armi;
  • rappresentare solo alcune categorie di militari;
  • promuovere iniziative di organizzazioni politiche o supportarle in campagna elettorale.

Passiamo ora a vedere cosa può fare ed entro quali ambiti può essere quindi legittimamente svolta l’attività sindacale militare. Ebbene, l’articolo 5 [3] della legge n. 46 del 2022 prevede che un sindacato militare possa tutelare i propri iscritti, tra l’altro, nei seguenti settori:

  • rapporto di impiego, fornendo anche assistenza fiscale e consulenza previdenziale;
  • inserimento nel mondo del lavoro di chi si congeda;
  • provvidenze per infortuni e/o infermità contratte per causa di servizio;
  • pari opportunità;
  • tutela della salute e della sicurezza del personale militare nei luoghi di lavoro;
  • attività culturali, assistenziali, ricreative e di promozione del benessere personale degli iscritti e dei loro familiari,

escludendo però esplicitamente ogni possibile competenza in “materie afferenti all’ordinamento militare, all’addestramento, alle operazioni, al settore logistico-operativo, al rapporto gerarchico-funzionale nonché all’impiego del personale in servizio” (art. 5 della legge n. 46 del 2022). Un paio di cose prima di concludere:

  • l’articolo 10 [4] della legge n. 46 del 2022 prevede che i militari fuori dal servizio possano tenere riunioni (cui è possibile prender parte anche in uniforme, se tenute in locali messi a disposizione dall’amministrazione, oppure solo in borghese se tenute invece in luoghi aperti al pubblico). Inoltre, tale articolo, autorizza esplicitamente “riunioni con ordine del giorno su materie di competenza delle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari, durante il servizio nel limite di dieci ore  annue individuali, secondo le disposizioni che regolano l’assenza dal servizio, previa comunicazione, con almeno cinque giorni di anticipo, ai comandanti delle unità o dei reparti interessati da parte dell’associazione professionale a carattere sindacale tra militari richiedente” (art. 10 della legge n. 46 del 2022);
  • l’articolo 17 [5] della legge n. 46 del 2022 stabilisce che la competenza in materia di condotta antisindacale e di esercizio della libertà sindacale da parte dei militari sia del Giudice amministrativo, cioè dei Tribunali Amministrativi Regionali o del Consiglio di Stato (per approfondire leggi qui!).

C’è molto altro da dire ma ritengo opportuno fermarmi qui. Negli ultimi tempi molti colleghi mi hanno chiesto se sia giusto o meno iscriversi ad un sindacato militare … beh, iscriversi ad un sindacato militare non è giusto o sbagliato, iscriversi ad un sindacato militare è secondo me assolutamente doveroso! Io, ad esempio, mi sono iscritto all’Associazione Sindacale Professionisti Militari (A.S.P.M.I. – per approfondire leggi qui!), soprattutto per dare concretamente voce a chi può tutelare i nostri interessi, a partire da quelli previdenziali e pensionistici. Oggi, purtroppo, i più ancora subiscono inconsapevolmente l’attuale situazione di caos calmo, ma fra poco più di un quinquennio sono convinto che i nodi verranno drammaticamente al pettine. Dobbiamo fare lo sforzo di levarci gli occhiali con cui i nostri genitori vedevano il mondo per capire che la situazione è cambiata … e molto … prima o poi ce ne accorgeremo tutti, soprattutto quando arriveremo alla pensione … ecco perché è quantomai necessario iniziare ad organizzarsi ed a lavorare insieme oggi per evitare rimpianti domani … ad maiora

Per tutto ciò che ci siamo appena detti, vi lascio con il ritornello di una famosa canzone [6] di Antonello VENDITTI che credo possa egregiamente fare da colonna sonora a questo post:

“♪♫ … E quando pensi che sia finita ♪

♫ È proprio allora che comincia la salita ♫

♪ Che fantastica storia è la vita! … ♫♪

TGCG

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[1]: art. 2 della legge n. 46 del 2022 – Principi generali in materia di associazioni professionali a carattere sindacale tra militari:

1. Le associazioni professionali a carattere sindacale tra militari operano nel rispetto dei principi di democrazia, trasparenza e partecipazione e nel rispetto dei principi di coesione interna, neutralità, efficienza e prontezza operativa delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare.

2. Gli statuti delle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari sono improntati ai seguenti principi:

a) democraticità dell’organizzazione sindacale ed elettività delle relative cariche, orientate al rafforzamento della partecipazione femminile;

b) neutralità ed estraneità alle competizioni politiche e ai partiti e movimenti politici;

c) assenza di finalità contrarie ai doveri derivanti dal giuramento prestato dai militari;

d) trasparenza del sistema di finanziamento e assenza di scopo di lucro;

e) rispetto degli altri requisiti previsti dalla presente legge.

3. L’attività sindacale è volta alla tutela degli interessi collettivi degli appartenenti alle Forze armate e alle Forze di polizia a ordinamento militare. Tale attività non può interferire con lo svolgimento dei compiti operativi o con la direzione dei servizi”.

[2]: art. 4 della legge n. 46 del 2022 – Limitazioni:

1. Alle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari è fatto divieto di:

a) assumere la rappresentanza di lavoratori non appartenenti alle Forze armate o alle Forze di polizia a ordinamento militare;

b) preannunciare o proclamare lo sciopero, o azioni sostitutive dello stesso, o parteciparvi anche se proclamato da organizzazioni sindacali estranee al personale militare;

c) promuovere manifestazioni pubbliche in uniforme o con armi di servizio o sollecitare o invitare gli appartenenti alle Forze armate o alle Forze di polizia a ordinamento militare a parteciparvi;

d) assumere la rappresentanza in via esclusiva di una o più categorie di personale, anche se facenti parte della stessa Forza armata o Forza di polizia a ordinamento militare. In ogni caso, la rappresentanza di una singola categoria all’interno di un’associazione professionale a carattere sindacale tra militari non deve superare il limite del 75 per cento dei suoi iscritti;

e) assumere una denominazione che richiami, anche in modo indiretto, quella di una o più categorie di personale, specialità, Corpo o altro che non sia la Forza armata o la Forza di polizia a ordinamento militare di appartenenza;

f) assumere denominazione o simboli che richiamino, anche in modo indiretto, organizzazioni sindacali per cui sussiste il divieto di adesione, ai sensi della presente legge, od organizzazioni politiche;

g) promuovere iniziative di organizzazioni politiche o dare supporto, a qualsiasi titolo, a campagne elettorali afferenti alla vita politica del Paese;

h) stabilire la propria sede o il proprio domicilio sociale presso unità o strutture del Ministero della difesa o del Ministero dell’economia e delle finanze o del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili;

i) aderire ad associazioni sindacali diverse da quelle costituite ai sensi della presente legge o federarsi, affiliarsi o avere relazioni di carattere organizzativo o convenzionale, anche per il tramite di altri enti od organizzazioni, con le medesime associazioni”.

[3]: art. 5 della legge n. 46 del 2022 – Competenze delle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari:

1. Le associazioni professionali a carattere sindacale tra militari curano la tutela collettiva dei diritti e degli interessi dei propri rappresentati nelle materie di cui al comma 2, garantendo che essi assolvano ai compiti propri delle Forze armate e del Corpo della guardia di finanza e che l’adesione alle associazioni non interferisca con il regolare svolgimento dei servizi istituzionali.

2. Sono di competenza delle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari le materie afferenti:

a) ai contenuti del rapporto di impiego del personale militare, indicati agli articoli 4 e 5 del decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 195, nonché all’articolo 46, comma 2, del decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 95, come modificato dal comma 5 del presente articolo;

b) all’assistenza fiscale e alla consulenza relativamente alle prestazioni previdenziali e assistenziali a favore dei propri iscritti;

c) all’inserimento nell’attività lavorativa di coloro che cessano dal servizio militare;

d) alle provvidenze per gli infortuni subiti e per le infermità contratte in servizio e per causa di servizio;

e) alle pari opportunità;

f) alle prerogative sindacali di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, sulle misure di tutela della salute e della sicurezza del personale militare nei luoghi di lavoro;

g) agli spazi e alle attività culturali, assistenziali, ricreative e di promozione del benessere personale dei rappresentati e dei loro familiari.

3. È comunque esclusa dalla competenza delle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari la trattazione di materie afferenti all’ordinamento militare, all’addestramento, alle operazioni, al settore logistico-operativo, al rapporto gerarchico-funzionale nonché all’impiego del personale in servizio.

4. In relazione alle materie di cui al comma 2, le associazioni professionali a carattere sindacale tra militari possono:

a) presentare ai Ministeri competenti osservazioni e proposte sull’applicazione delle leggi e dei regolamenti e segnalare le iniziative di modifica da esse eventualmente ritenute opportune;

b) essere ascoltate dalle Commissioni parlamentari del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, secondo le norme dei rispettivi regolamenti;

c) chiedere di essere ricevute dai Ministri competenti e dagli organi di vertice delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare […]”.

[4]: art. 10 della legge n. 46 del 2022 – Diritto di assemblea:

1. Per l’esercizio del diritto di associazione sindacale riconosciuto dalla presente legge, i militari, fuori dal servizio, possono tenere riunioni:

a) anche in uniforme, in locali messi a disposizione dall’amministrazione, che ne concorda le modalità d’uso;

b) in luoghi aperti al pubblico, senza l’uso dell’uniforme.

2. Sono autorizzate riunioni con ordine del giorno su materie di competenza delle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari, durante il servizio nel limite di dieci ore annue individuali, secondo le disposizioni che regolano l’assenza dal servizio, previa comunicazione, con almeno cinque giorni di anticipo, ai comandanti delle unità o dei reparti interessati da parte dell’associazione professionale a carattere sindacale tra militari richiedente.

3. Le modalità di tempo e di luogo per lo svolgimento delle riunioni sono concordate con i comandanti al fine di renderle compatibili con le esigenze di servizio.

4. Le eventuali controversie sono regolate ai sensi dell’articolo 17.

5. I comandanti o i responsabili di unità garantiscono il rispetto della presente legge, favorendo l’esercizio delle attività delle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari”.

[5]: art. 17 della legge n. 46 del 2022 – Giurisdizione:

1. Sono riservate alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie promosse nell’ambito disciplinato dalla presente legge, anche quando la condotta antisindacale incide sulle prerogative dell’associazione professionale a carattere sindacale tra militari.

2. I giudizi nella materia di cui al comma 1 sono soggetti al rito abbreviato previsto dall’articolo 119 del codice del processo amministrativo, con le relative norme di attuazione, di cui rispettivamente agli allegati 1 e 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.

3. All’articolo 119, comma 1, del codice del processo amministrativo, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, dopo la lettera m-septies) è aggiunta la seguente: «m-octies) i provvedimenti che si assumono lesivi di diritti sindacali del singolo militare o dell’associazione professionale a carattere sindacale tra militari che lo rappresenta».

4. Per le controversie nelle materie di cui alla presente legge, la parte ricorrente è tenuta al versamento, indipendentemente dal valore della causa, del contributo unificato di importo fisso di cui all’articolo 13, comma 6-bis, lettera e), del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. Se la controversia riguarda condotte antisindacali consistenti nel diniego ingiustificato dei diritti e delle prerogative sindacali di cui alla presente legge, l’associazione professionale a carattere sindacale tra militari legittimata ad agire ai sensi del comma 8 può promuovere un previo tentativo di conciliazione presso la commissione individuata ai sensi dell’articolo 18.

5. La richiesta del tentativo di conciliazione di cui al comma 4, sottoscritta da chi ha la rappresentanza legale dell’associazione, è notificata, tramite posta elettronica certificata, sottoscritta digitalmente, ai sensi del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, oppure mediante raccomandata con avviso di ricevimento, alla commissione di conciliazione competente, che cura l’invio di copia digitale della richiesta all’articolazione della Forza armata o della Forza di polizia a ordinamento militare interessata. La richiesta deve indicare:

a) la denominazione e la sede dell’associazione, nonché il nome del legale rappresentante e l’atto statutario che gli conferisce i poteri rappresentativi;

b) il luogo dove è sorta la controversia;

c) l’esposizione dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa.

6. L’articolazione della Forza armata o della Forza di polizia a ordinamento militare interessata dalla controversia deposita presso la commissione di conciliazione, entro dieci giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto. Entro i dieci giorni successivi a tale deposito, la commissione fissa, per una data compresa nei successivi trenta giorni, la comparizione dell’associazione e dell’articolazione dell’amministrazione interessata per il tentativo di conciliazione. Dinnanzi alla commissione, per l’associazione professionale a carattere sindacale tra militari deve presentarsi il legale rappresentante ovvero altro militare ad essa appartenente appositamente delegato. Non è ammessa la partecipazione di soggetti non appartenenti all’associazione.

7. Se la conciliazione esperita ai sensi dei commi 4, secondo periodo, 5 e 6 ha esito positivo, è redatto un processo verbale che riporta il contenuto dell’accordo raggiunto. Il processo verbale, sottoscritto dalle parti e dal presidente della commissione di conciliazione, costituisce titolo esecutivo. Se non è raggiunto l’accordo, la medesima controversia può costituire oggetto di ricorso innanzi al giudice amministrativo ai sensi dei commi 1 e 2.

8. Alle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari è attribuita legittimazione attiva quando sussiste interesse diretto in relazione alle controversie promosse nell’ambito disciplinato dalla presente legge”.

[6]: “Che fantastica storia che è la vita” brano di Antonello VENDITTI uscito il 3 ottobre 2003 (per approfondire leggi qui!).

CHI È CHE REALMENTE DECIDE LA GUERRA IN ITALIA?

Mi è arrivata proprio oggi, 31 dicembre 2021, la bellissima e-mail di un collega che mi ha posto, tra l’altro, una domanda che può ad occhio apparire banale, ma che però vi assicuro banale non è affatto: in Italia chi è che realmente decide la guerra? Se girate tale domanda ad un qualsiasi studente del primo anno di giurisprudenza, sono convinto che otterrete una risposta secca che non lascia alcun dubbio: la guerra la decide il Parlamento che conferisce al Governo i poteri necessari (articolo 76 [1] della Costituzione). Spetterà poi al Presidente della Repubblica il compito di dichiarare lo stato di guerra deliberato dal Parlamento (articolo 87 [2] della Costituzione). È ovvio che il nostro giovane studente risponderebbe in tal senso, con la sicurezza di chi ha studiato … e bene direi! Nel disegno costituzionale non permangono difatti ampi margini di manovra per il Governo, perché la decisione finale è … o meglio, “dovrebbe” essere … nelle mani del Parlamento, punto e basta! L’Assemblea costituente fece difatti una chiara scelta in tal senso anche per riequilibrare, in materia di guerra, i rapporti di forza tra potere legislativo e potere esecutivo, soprattutto perché nel passato erano stati fortemente sbilanciati a favore di quest’ultimo ed avevano “agevolato” l’ingresso dell’Italia sia nella prima che nella seconda guerra mondiale (senza considerare poi la guerra di Spagna e quella d’Etiopia) [3]. Ecco perché la vera domanda a cui dovremmo trovare una risposta è: oggi funziona veramente così? Non dimentichiamo infatti che l’Italia è una Repubblica la cui Carta costituzionale prevede, tra i principi fondamentali (cioè negli articoli iniziali, quelli più importanti per intenderci!), proprio il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (articolo 11 [4] della Costituzione – per approfondire leggi qui!) cosa che, secondo molti studiosi, implica il divieto di prender parte a missioni militari internazionali che non siano giustificate da chiare esigenze di difesa.

Ebbene, anche se non sono un costituzionalista, credo proprio che la realtà giuridica che emerge dalla lettura della Carta costituzionale non corrisponda alla realtà delle cose per come sono oggi … detto altrimenti credo che le Camere (cioè Senato e Camera dei Deputati), almeno in materia di decisioni sulla guerra, non svolgano appieno la funzione assegnatagli dalla Costituzione … funzione che peraltro appare oggi profondamente “svuotata” di sostanza e di significato, quasi che il Parlamento sia diventato un notaio che si limita a ratificare decisioni prese altrove. Senza entrare in complessi discorsi sulla crisi della Repubblica parlamentare o sulla differenza tra costituzione formale e costituzione materiale, è fuori discussione il fatto che gli interventi militari che si sono succeduti negli ultimi anni hanno trovato giustificazione e copertura più nelle risoluzioni e/o decisioni prese nell’ambito di Organismi internazionali [5] che non in esigenze di difesa, come invece dovrebbe essere secondo la Costituzione. Quanto precede anche in considerazione del fatto che, dal punto di vista strettamente militare, le nostre Forze Armate sono state chiamate negli anni ad intervenire in Teatri operativi ad “alta intensità”, dove cioè molte delle operazioni militari condotte si sono rivelate delle vere e proprie operazioni di guerra, nel senso tradizionale del termine.

Non ci resta quindi che prendere atto del fatto che, contrariamente a quanto previsto dalla Costituzione, in materia di guerra:

  • il centro di gravità si è di fatto spostato dalle Camere (cioè dal Parlamento) all’Esecutivo (cioè al Governo) che ha quindi guadagnato un ruolo di primissimo piano [6];
  • il Parlamento oggi svolge … a cose fatte … una mera attività di indirizzo, esercitata non di rado a distanza di considerevole tempo dall’insorgere dei conflitti, limitandosi spesso solo a convertire i decreti-legge predisposti dal Governo con i quali autorizza lo svolgimento delle missioni militari all’estero e, soprattutto, delibera in merito allo stanziamento delle risorse economiche necessarie allo scopo.

Se siete arrivati a leggere fino a qui, significa che ho sollecitato la vostra curiosità e questa è una cosa più che positiva! Certo, c’è molto altro da dire ma, in considerazione del taglio dato pratico ai post presenti su www.avvocatomilitare.com, credo che sia meglio non appesantire ulteriormente il discorso … non mi resta quindi che salutarvi, ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 78 della Costituzione:“Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”.

[2]: art. 87 della Costituzione:“Il Presidente della repubblica […] ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere”.

[3]: lo Statuto Albertino, ovverosia la Carta costituzionale esistente in Italia sino all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (01.01.1948), non prevedeva difatti alcun articolo anche solo lontanamente assimilabile all’art. 78 della Costituzione.

[4]: art. 11 della Costituzione:“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

[5]: a dire il vero nel 1999, in Kosovo, i bombardamenti della NATO (durati più di due mesi!) furono condotti addirittura in assenza di alcuna risoluzione dell’ONU.

[6]: Anche il Codice dell’Ordinamento Militare (Decreto Legislativo n. 66 del 2010 – c.d. COM) sembra confermare l’attuale equilibrio dei poteri. All’art. 10 stabilisce infatti che il Ministro della Difesa “attua le deliberazioni in materia di difesa e sicurezza adottate dal Governo, sottoposte all’esame del Consiglio supremo di difesa e approvate dal Parlamento”.

LA “SPECIFICITÀ MILITARE”

Un collega mi chiede cosa si intenda esattamente per “specificità militare” e, soprattutto, in quale legge o regolamento tale concetto venga trattato. Ebbene … iniziamo col dire che la “specificità militare”:

Tanto premesso, sappiate che alla “specificità militare” è stato dedicato l’articolo 19 della legge n. 183 del 2010, titolato proprio “specificità delle Forze armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco”, che prevede quanto segue:“1. Ai fini della definizione degli ordinamenti, delle carriere e dei contenuti del rapporto di impiego e della tutela economica, pensionistica e previdenziale, è riconosciuta la specificità del ruolo delle Forze armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché dello stato giuridico del personale ad essi appartenente, in dipendenza della peculiarità dei compiti, degli obblighi e delle limitazioni personali, previsti da leggi e regolamenti, per le funzioni di tutela delle istituzioni democratiche e di difesa dell’ordine e della sicurezza interna ed esterna, nonché per i peculiari requisiti di efficienza operativa richiesti e i correlati impieghi in attività usuranti. 2. La disciplina attuativa dei principi e degli indirizzi di cui al comma 1 è definita con successivi provvedimenti legislativi, con i quali si provvede altresì a stanziare le occorrenti risorse finanziarie”.

Come avete sicuramente notato, si tratta di una legge “programmatica” che, in quanto tale, non contiene alcun precetto di immediata applicabilità … mi spiego meglio e non me ne vogliano i colleghi giuristi perché questo post non è proprio stato scritto per loro … non si tratta cioè di una legge che contiene in se tutti gli elementi che le consentono di poter essere immediatamente applicata (come avviene per le leggi cosiddette “precettive” [2] ): consta difatti nella mera enunciazione di un principio generale (cioè di un valore, com’è la “specificità militare” appunto!) e di un conseguente indirizzo programmatico … detto altrimenti, fornisce a Parlamento e Governo delle linee guida a cui questi dovranno in futuro conformarsi (cioè nell’emanazione delle leggi per il primo e dei regolamenti, dei decreti o dei singoli provvedimenti per il secondo). Ecco perché tale norma è stata ripresa nelle disposizioni generali sul personale militare del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare (cosiddetto COM) nei termini che seguono:“al personale militare si applicano i principi e gli indirizzi di cui all’articolo 19 della legge 4 novembre 2010, n. 183, nonché le disposizioni contenute nel presente codice” (articolo 625 del COM).

Se siete arrivati a leggere fin qui significa che avete elementi sufficienti per inquadrare la questione … non mi resta quindi che salutarvi, ad maiora!

TCGC

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[1]: l’uguaglianza in senso sostanziale, secondo la dottrina costituzionalistica, comporta difatti che situazioni uguali vengano trattate in modo uguale, ma anche che situazioni diverse vengano trattate in modo diverso. A titolo esemplificativo cito il Prof. Franco MODUGNO, Professore emerito di diritto costituzionale presso la Sapienza Università di Roma , che affronta la questione afferma nei termini che seguono: “[…] che la legge debba garantire sempre e indifferenziatamente un trattamento paritario per tutti è un non senso. Ricordo che un mio grande Maestro, Carlo Esposito, ammoniva che «un diritto che non distinguesse situazione da situazione, e considerasse eguali tutte le situazioni, non sarebbe un diritto difficilmente pensabile, ma sarebbe un diritto impensabile, perché non disporrebbe niente» (Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in La Costituzione italiana, Saggi, Padova, 1954, p. 26). La legge deve essere, pertanto, ugualmente differenziata, ossia deve trattare in modo uguale situazioni uguali ed in modo diverso situazioni ragionevolmente diverse […]” (“Breve discorso intorno all’uguaglianza. Studio di una casistica: i minori e i nuovi media” di Franco MODUGNO in Osservatorio Costituzionale1/2014 edito dall’Associazione Italiana dei Costituzionalisti – per approfondire leggi qui!).

[2]: secondo il vocabolario Treccani, la norma precettiva è difatti “quella che, di per sé, contiene già un precetto, così che non vi è bisogno di ulteriori norme per la sua applicabilità” (per approfondire leggi qui!).

L’ORDINAMENTO GIURIDICO MILITARE

Da alcune delle vostre e-mail ho capito che molto spesso su www.avvocatomilitare.com vengono dati per scontati concetti che … ahimè … scontati non sono affatto! Ecco perché in questo post cercherò di partire dall’ABC o, meglio, dalla sola A! Spero di esser comprensibile … siate comunque certi che ci sto seriamente provando. Tanto premesso, prendiamo il toro per le corna e partiamo provando a dare una risposta alla seguente domanda: che cos’è un ordinamento giuridico? … non me ne vogliano i colleghi giuristi ma quanto segue non è stato proprio scritto per loro!

Beh, iniziamo col pensare a un orologio meccanico e a come sia fatto … bene … vediamo ad occhio che è formato da un quadrante, delle lancette e poi rotelle, rotelline, molle, vitarelle e tanti alti elementi che tutti insieme gli permettono di funzionare e farci sapere esattamente che ora è. Ebbene, anche l’ordinamento giuridico è sostanzialmente una meccanismo composto da tantissimi elementi: certamente non è fatto di plastica o metallo come un orologio, ma al pari di quest’ultimo è comunque composto da molti ingranaggi e meccanismi … ovvero da ciò che noi chiamiamo “norme” e cioè da elementi giuridici che sono gli uni in rapporto agli altri, organizzati e ordinatamente combinati … questo almeno teoricamente!

La norma “giuridica [1]” (cioè l’elemento base di ogni ordinamento giuridico) è una regola di condotta socialmente garantita, poiché è la società stessa che ne assicura rispetto – la “garantisce” appunto – con una sanzione, ovvero attraverso quella che è la conseguenza negativa cui si va incontro se non si rispetta la norma. L’ordinamento giuridico, quindi, altro non è se non l’insieme di tutte queste norme giuridiche e svolge la basilare funzione di disciplinare e dirigere (la parola “diritto” deriva proprio dal verbo latino directus, participio perfetto di dirigere, appunto!) l’organizzazione e il funzionamento di tutta la società e, all’interno di questa, la vita dei singoli consociati … la nostra vita insomma! L’ordinamento giuridico disegna quindi la realtà per come noi la conosciamo poiché, oltre a dirci cosa possiamo o non possiamo fare, crea le istituzioni che operano al suo interno disciplinandone il funzionamento. Immaginate, ad esempio, cosa sarebbe una istituzione come l’Esercito senza le norme che lo hanno creato, ne legittimano l’esistenza e ne regolano, giorno dopo giorno, il funzionamento? Credo proprio che sarebbe null’altro se non un’accozzaglia di uomini senza ordine e disciplina, né più né meno di banda di persone armate … un qualcosa di assolutamente caotico e disordinato!

Tanto premesso, addentrandoci più a fondo nel problema … possiamo iniziare a dire, in via di estrema approssimazione, che l’ordinamento giuridico (generale) è l’insieme di tutte le norme giuridiche che si riferiscono ad un dato gruppo sociale, delineandone quindi il complessivo assetto giuridico. Resta da capire bene a cosa serva esattamente nella pratica … beh, l’ordinamento giuridico assolve in linea di principio i seguenti compiti fondamentali:

  • in primo luogo, quello di riconoscere [2] o istituire [3], individuare cioè “dare soggettività” ai vari soggetti che ne faranno parte, in altre parole i “giocatori” che, a vario titolo, agiranno al suo interno, dandogli vita (persone, istituzioni, società eccetera);
  • successivamente, quello di disciplinare e regolare la vita del gruppo sociale, dirimendo i conflitti che fisiologicamente insorgono tra i vari soggetti, in modo da garantire l’ordine e il corretto funzionamento generale.

L’esistenza dell’ordinamento giuridico generale non esclude di per sé l’esistenza al suo interno di ordinamenti giuridici da questo “derivati” che, per diversi motivi, possono avere caratteristiche proprie ed una specifica normazione di settore com’è, ad esempio, l’ordinamento giuridico militare. È la Carta costituzionale stessa che riconosce implicitamente l’ordinamento giuridico militare: basti pensare che l’articolo 52, comma 3, della Costituzione stabilendo che “l’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”, presuppone infatti l’esistenza di un ordinamento giuridico generale “superiore” all’interno del quale è inserito quello militare. La Costituzione, peraltro, ha rappresentato negli anni il “raccordo” tra mondo militare e mondo civile: fino a qualche decennio fa, infatti, si considerava la normativa militare (soprattutto in ambito disciplinare – per approfondire leggi qui!) una realtà a sé rispetto a quella disegnata dalla Costituzione … cioè totalmente scollegata dall’ordinamento giuridico generale.

L’ordinamento giuridico militare è quindi quel particolare ordinamento giuridico (derivato e speciale) che fa capo ad un gruppo di soggetti individuati in virtù del particolare status [4] posseduto lo status militare appunto (per approfondire leggi qui!) – in considerazione delle peculiari funzioni che questi sono chiamati a svolgere: il militare, appartiene infatti a quella categoria di cittadini che, in quanto appartenenti alle Forze Armate, prestano il proprio servizio a difesa della Patria (altro importante argomento cui è stato dedicato un post – per approfondire leggi qui!). Ma in cosa si differenziano esattamente le Forze Armate dagli altri strumenti di cui dispone lo Stato per garantire propria la sicurezza (come, ad esempio, la Polizia di Stato)? Beh, … proprio nell’ordinamento giuridico militare! Per una chiara scelta del legislatore, infatti, le Forze Armate si differenziano delle comuni Forze di polizia per il fatto di avere una legislazione speciale (quella militare, appunto!) nonché una propria giurisdizione (i Tribunali militari) e una propria specifica forza di Polizia (la Polizia militare).

Concludendo, mi permetto di aprire una parentesi su un problema che credo possa interessare: abbiamo parlato di legislazione comune (che si applica a tutti i cittadini) e di legislazione speciale militare (che si applica invece ai soli militari) … ma cosa succede se uno stesso caso concreto viene regolato in modo diverso da due o più differenti norme dell’ordinamento giuridico? Cosa accade cioè quando una norma dell’ordinamento giuridico generale entra in contrasto con una norma dell’ordinamento giuridico militare? Esistono diversi criteri di soluzione dei conflitti tra le norme:

  • criterio gerarchico – le norme e le regole che compongono l’ordinamento giuridico sono innanzi tutto organizzate in modo gerarchico: la norma che occupa una posizione gerarchica più alta prevale sulla norma in posizione più bassa. Semplificando al massimo, possiamo dire che all’apice dell’ordinamento c’è la Costituzione e poi, scendendo di livello, le leggi ordinarie, quindi i regolamenti, le sentenze [5], gli atti esecutivi e così via. Ovviamente le uniche norme realmente indipendenti sono quelle che si trovano al livello più alto (cioè le norme della Costituzione), perché la relativa esistenza o vigenza non deriva (cioè non dipende) da altre norme: nascono e rimangono indipendenti fino a quando non vengono eliminate o cambiate con procedimenti parlamentari molto complessi. Man mano che scendiamo di livello gerarchico, poi, l’esistenza e la validità di una norma va a dipendere da altre norme poste a livello gerarchico superiore come avviene per le leggi ordinarie (in rapporto alla Costituzione), le sentenze o i regolamenti (in rapporto Costituzione e alla legge ordinaria) e così via. In linea teorica, la legge non può andare contro la Costituzione [6], come una sentenza non può essere contraria alla Costituzione o alla legge [7].
  • criterio cronologico – in caso di conflitto, la norma più recente (posteriore) deroga la norma più vecchia (anteriore) di pari livello gerarchico. Tale criterio è abbastanza semplice e intuitivo da capire, quindi ne tralascerò i particolari;
  • criterio di specialità – tra due norme in conflitto, quella speciale prevale su quella generale di pari livello gerarchico. Questa eventualità si presenta spesso in ambito militare: il Codice dell’ordinamento militare (norma speciale) prevale sulla normativa che si applica a tutti i cittadini (norma generale). Pensate, ad esempio, a quello che accade se si considera la differente età pensionabile prevista per il comune lavoratore e per i militari: la normativa ordinaria sul pensionamento (norma generale) richiede al comune lavoratore dipendente il possesso di un’età pensionabile che normalmente è superiore a quella che invece è normalmente richiesta al militare (in virtù di una norma speciale).

Purtroppo, anche tali criteri possono entrare in conflitto tra loro … senza addentrarci in complicati discorsi possiamo affermare, in linea generale, che il criterio gerarchico prevale sia su quello cronologico che su quello di specialità [8]. Un po’ più complicato risulta invece il rapporto tra criterio cronologico e criterio di specialità, tanto che bisogna valutare cosa accade caso per caso: pensiamo ad una legge anteriore e speciale (che prevarrebbe in base al criterio di specialità) che confligge con una norma posteriore e generale (che prevarrebbe invece in base al criterio cronologico) … come ci si comporta in questi casi? La domanda che dovrebbe darci la risposta è la seguente: la norma posteriore prendeva in considerazione anche casi “speciali” e voleva magari regolarli in modo diverso? In caso affermativo prevarrà in linea di principio la norma posteriore e generale mentre, in caso negativo, prevarrà la norma anteriore e speciale. Come vedete la questione è assai complicata, quindi affidatevi sempre al vostro Avvocato di fiducia se dovete affrontare problemi di questo tipo … non azzardate mai, potreste andare incontro a spiacevoli conseguenze!

Se siete arrivati a legger fin qui significa che ho suscitato la vostra curiosità … e questa è una cosa più che positiva! Vi lascio quindi con un saluto … ad maiora!

TCGC

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[1]: chiariamo subito la differenza che corre con le c.d. norme sociali. Norma giuridica è, ad esempio, quella che impone a chiunque di risarcire il danno da fatto illecito (articolo 2043 c.c.) perché è la società stessa che ne assicura il rispetto. Diversamente, non è norma giuridica quella che impone – ad esempio – di trattare con gentilezza e rispetto le persone più anziane di noi: questa non è infatti garantita dalla società con alcuna sanzione e la sua eventuale violazione può incidere solo sul giudizio che può essere dato al trasgressore, gli si può dire ad esempio che è un maleducato … niente di più!

[2]: come, ad esempio, le persone cosiddette “fisiche”, cioè ognuno di noi.

[3]: come, ad esempio, le persone cosiddette “giuridiche”, ovvero le associazioni riconosciute, gli enti giuridici, le società, le amministrazioni pubbliche eccetera.

[4]: peculiare posizione del soggetto che rileva come presupposto di specifici diritti e doveri.

[5]: starete pensando: ma come? Una sentenza emessa da un giudice è una norma? Ebbene sì, se le norme nascono per comporre e risolvere i conflitti tra soggetti, la sentenza è quindi sostanzialmente una norma che regola un conflitto esistente tra due o più soggetti, proprio come una legge. Si differenzia però per il semplice fatto che vale solo per chi ha partecipato al processo. L’articolo 2909 del codice civile stabilisce al riguardo, infatti, che “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”, sostanzialmente al pari di una norma di legge.

[6]: altrimenti viene dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale ed eliminata.

[7]: non dimentichiamo che uno dei motivi di ricorso per Cassazione attiene proprio alla “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”.

[8]: il motivo è intuitivo: la Costituzione, ad esempio, prevale sia su una legge ordinaria posteriore (criterio cronologico) che su una legge speciale (criterio di specialità). Pensiamo al Codice dell’ordinamento militare (COM) che, rispetto alla Costituzione, è sia una norma posteriore (la Costituzione è entrata in vigore nel 1948 mentre il COM nel 2010) che speciale (regola la materia militare che è “speciale” appunto); beh, è facile intuire che in caso di conflitto di una norma del COM con una norma della Costituzione, prevarrà quest’ultima in base al criterio gerarchico (la Costituzione è norma di rango superiore); in questo caso, sia il criterio cronologico che quello di specialità, quindi, “segneranno il passo” rispetto al criterio gerarchico!

L’ORGANIZZAZIONE GIUDIZIARIA MILITARE: TRIBUNALI E PROCURE MILITARI

Vista l’incertezza che traspare da alcune delle vostre email, ritengo utile dedicare questo brevissimo post all’Organizzazione giudiziaria militare. Ebbene sappiate che, almeno dal 2008, gli Uffici giudiziari militari si distinguono in:

  • requirenti – Procura generale militare presso la Suprema Corte di Cassazione (con sede in Roma), Procura generale presso la Corte militare di Appello (con sede in Roma) e Procure militari presso i Tribunali militari (con sedi in Verona, Roma e Napoli);
  • giudicanti – Corte militare di Appello (con sede in Roma), Tribunali militari (con sedi in Verona, Roma e Napoli) e Tribunale militare di sorveglianza (con sede in Roma). Non esiste quindi alcun magistrato militare giudicante alla Suprema Corte di Cassazione!

Presso ogni Tribunale militare – organo giudiziario di primo grado, inoltre, è istituito un Ufficio del Giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) e uno del Giudice dell’udienza preliminare (G.U.P.), in analogia a quanto avviene grossomodo nei Tribunali ordinari. Organo di secondo grado è la Corte militare d’Appello che giudica, tra l’altro, sull’appello proposto avverso i provvedimenti emessi dai Tribunali militari. Il Tribunale militare di sorveglianza è invece competente a vigilare sull’esecuzione delle pene militari.

La Magistratura militare italiana ha giurisdizione per i reati militari commessi dagli appartenenti alle Forze Armate sia in tempo di pace che di guerra sulla base di quanto previsto dai codici penali militari di pace o di guerra (per approfondire leggi qui!), secondo la competenza stabilita dal Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM – per approfondire leggi qui!), utilizzando il rito previsto dal codice di procedura penale (che, per intenderci, è lo stesso che si utilizza nelle aule di tribunale ordinario).

Spero che queste poche e generalissime nozioni sulla giustizia militare possano esservi utili a capire meglio … Ad maiora!

TCGC

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MILITARI E DIRITTO ALLO STUDIO

Il diritto allo studio è riconosciuto anche ai militari? Beh, direi proprio di sì! Iniziamo infatti col dire che il diritto allo studio viene riconosciuto dalla Costituzione dagli articoli 33, 34 e, per quanto di interesse, dall’articolo 35 nella parte in cui sancisce proprio che le Repubblica “cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori” … e quindi anche dei militari! È però solo nel 1970, con l’approvazione del cosiddetto “Statuto dei lavoratori” (legge n. 300 del 1970) che tale diritto inizia a riempirsi di sostanza: l’articolo 10, titolato proprio “lavoratori studenti”, stabilisce infatti che “i lavoratori studenti, iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali, hanno diritto a turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami e non sono obbligati a prestazioni di lavoro straordinario o durante i riposi settimanali. I lavoratori studenti, compresi quelli universitari, che devono sostenere prove di esame, hanno diritto a fruire di permessi giornalieri retribuiti. Il datore di lavoro potrà richiedere la produzione delle certificazioni necessarie all’esercizio dei diritti di cui al primo e secondo comma” (articolo 10 della legge n. 300 del 1970).

Successivamente, tale principio viene ribadito dall’articolo 10 della legge n. 382 del 1978 “Norme di principio sulla disciplina militare” (il cui testo è poi confluito – “paro paro” come si dice a Roma – nell’articolo 1474 [1] del vigente Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” – il cosiddetto COM per intenderci!).

Tanto premesso, entriamo nel merito della questione e vediamo in cosa si concretizza il diritto allo studio per i militari. Ebbene, la vigente normativa riconosce al militare-studente (a partire dal 1995, anno in cui è stato esteso a tutti i militari il contenuto dell’articolo 78 [2] del D.P.R. n. 782 del 1985, previsto per il personale per la Polizia di Stato) 150 ore annue per la frequenza di corsi scolastici, universitari e post universitari, fruibili anche per raggiungere la sede dove si svolgono gli esami e per i giorni necessari allo svolgimento delle relative prove (articolo 18 del D.P.R. n. 394 del 1995 per EI, MM e AM e articolo 54 del D.P.R. n. 395 del 1995 per CC e GdF). Peraltro, “per la preparazione ad esami universitari o post universitari nell’ambito delle 150 ore per il diritto allo studio […], possono essere attribuite e conteggiate le quattro giornate lavorative immediatamente precedenti agli esami sostenuti in ragione di sei ore per ogni giorno […]” (articolo 16 del D.P.R. n. 163 del 2002 per EI, MM e AM e articoli 59 del D.P.R. n. 164 del 2002 e 42 del D.P.R. n. 51 del 2009 per CC e GdF).

Quanto precede è solo il “minimo sindacale” riconosciuto a tutti i militari … vi consiglio quindi di chiedere ulteriori informazioni all’ufficio personale del vostro Ente per:

  • sapere se esistano nella vostra Forza Armata/Arma/Corpo ulteriori istituti (anche a livello di ristoro economico) che tutelino il diritto allo studio;
  • evitare di incorrere in problemi “applicativi”. Infatti mi risulta, ad esempio, che alcuni comandi abbiano introdotto specifici format per certificare le assenze dal lavoro per studio, oppure facciano differenza tra Università site nella località sede di servizio e non, tra le Università “tradizionali” e quelle telematiche eccetera.

Non posso concludere senza fare un brevissimo accenno al fatto che qualora vogliate partecipare “ad attività formative diverse da quelle poste in essere o finanziate dal datore di lavoro” potete sempre pensare di richiedere il “congedo per la formazione”, una specie di aspettativa non retribuita riconosciuta a livello generale dall’articolo 5 [3] della legge n. 53 del 2000 e, nello specifico, al personale EI, MM e AM dall’articolo 15 del D.P.R. n. 52 del 2009, nonché al personale CC e GdF dall’articolo 57 del D.P.R. n. 164 del 2002 (per approfondire leggi qui!).

Tanto detto, non mi resta che augurarvi un buono studio … ad maiora!

TCGC

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[1]: art. 1474 del COM – Diritto di informazione e di istruzione:“1. Lo Stato promuove l’elevamento culturale, la formazione della coscienza civica e la preparazione professionale dei militari e ne predispone le condizioni per l’effettivo perseguimento […]”.

[2]: art. 78 del D.P.R. n. 782 del 1985 – Diritto allo studio:“l’amministrazione della pubblica sicurezza favorisce la aspirazione del personale che intende conseguire un titolo di studio di scuola media superiore o universitario o partecipare a corsi di specializzazione post universitari o ad altri corsi istituiti presso le scuole pubbliche o parificate nella stessa sede di servizio. A tal fine, oltre ai normali periodi di congedo straordinario per esami, è concesso un periodo annuale complessivo di 150 ore da dedicare alla frequenza dei corsi stessi. Tale periodo viene detratto dall’orario normale di servizio, secondo le esigenze prospettate dall’interessato almeno due giorni prima al proprio capo ufficio, e la richiesta deve essere accolta ove non ostino impellenti ed inderogabili esigenze di servizio. L’interessato dovrà dimostrare, attraverso idonea documentazione, di avere frequentato il corso di studi per il quale ha richiesto il beneficio, che è suscettibile di revoca in caso di abuso, con decurtazione del periodo già fruito dal congedo ordinario dell’anno in corso o dell’anno successivo”.

[3]: Art. 5 della legge n. 53 del 2000 – Congedi per la formazione:“1. Ferme restando le vigenti disposizioni relative al diritto allo studio di cui all’articolo 10 della legge 20 maggio 1970, n. 300, i dipendenti di datori di lavoro pubblici o privati, che abbiano almeno cinque anni di anzianità di servizio presso la stessa azienda o amministrazione, possono richiedere una sospensione del rapporto di lavoro per congedi per la formazione per un periodo non superiore ad undici mesi, continuativo o frazionato, nell’arco dell’intera vita lavorativa. 2. Per “congedo per la formazione” si intende quello finalizzato al completamento della scuola dell’obbligo, al conseguimento del titolo di studio di secondo grado, del diploma universitario o di laurea, alla partecipazione ad attività formative diverse da quelle poste in essere o finanziate dal datore di lavoro. 3. Durante il periodo di congedo per la formazione il dipendente conserva il posto di lavoro e non ha diritto alla retribuzione. Tale periodo non è computabile nell’anzianità di servizio e non è cumulabile con le ferie, con la malattia e con altri congedi. Una grave e documentata infermità, individuata sulla base dei criteri stabiliti dal medesimo decreto di cui all’articolo 4, comma 4, intervenuta durante il periodo di congedo, di cui sia data comunicazione scritta al datore di lavoro, dà luogo ad interruzione del congedo medesimo. 4. Il datore di lavoro può non accogliere la richiesta di congedo per la formazione ovvero può differirne l’accoglimento nel caso di comprovate esigenze organizzative. I contratti collettivi prevedono le modalità di fruizione del congedo stesso, individuano le percentuali massime dei lavoratori che possono avvalersene, disciplinano le ipotesi di differimento o di diniego all’esercizio di tale facoltà e fissano i termini del preavviso, che comunque non può essere inferiore a trenta giorni. 5. Il lavoratore può procedere al riscatto del periodo di cui al presente articolo, ovvero al versamento dei relativi contributi, calcolati secondo i criteri della prosecuzione volontaria”.

GIUDICE DI MERITO O DI LEGITTIMITÀ?

Un lettore mi ha chiesto di chiarire un argomento semplice ma che non di rado crea problemi interpretativi, soprattutto a chi si sta ancora avvicinando al mondo del diritto. Infatti, leggendo i testi giuridici si trovano spesso riferimenti alla giurisprudenza “di merito” e alla giurisprudenza “di legittimità”, ai giudici “di merito” e ai giudici “di legittimità” … ma cosa significano tali espressioni? Cosa vogliono esattamente dire?

Non me ne vogliano i colleghi giuristi ma questo post non è proprio stato scritto per loro … beh, azzardiamo iniziando a dire che i giudici di merito (come, ad esempio, i giudici del Tribunale o quelli della Corte di Appello) sono quei giudici che acquisiscono i fatti, li analizzano e decidono applicando la legge al caso concreto … decidono cioè sia sulle questioni di fatto che su quelle di diritto. Mi spiego meglio: una volta presi i documenti, sentiti i testimoni, esaminate le perizie acquisite nel corso del processo … ricostruiti insomma i fatti (ecco perchè si parla di “questioni di fatto”), il giudice di merito interpreta le pretese delle parti secondo la legge, valuta i fatti inquadrandoli dal punto di vista giuridico (affronta cioè le cosiddette “questioni di diritto”) per poi decidere (con sentenza) sulla controversia … dice cioè chi ha ragione e chi ha torto entrando appunto “nel merito” della questione! I giudici di legittimità (cioè quelli della Suprema Corte di Cassazione) partono invece dando i fatti per provati per come emergono dalla sentenza impugnata (la Cassazione, infatti, entra in gioco solo quando si impugna una sentenza di merito), limitandosi al mero esame giuridico della controversia: decidono cioè sulle sole questioni di diritto, sia sostanziali che processuali. Infatti, quando un processo arriva in Cassazione, nella normalità dei casi ciò significa che si sono già svolti due gradi di giudizio (di solito davanti al Tribunale in primo grado ed alla Corte di Appello in secondo grado) nel corso dei quali le parti hanno già avuto modo di produrre documenti, far sentire testimoni o consulenti, contestare quello che afferma la controparte eccetera …di provare insomma i fatti! Il giudice di legittimità svolge quindi la fondamentale funzione di esaminare il lavoro del giudice di merito controllando se la relativa sentenza sia logica e, soprattutto, rappresenti il risultato della corretta applicazione/interpretazione le norme … detto altrimenti, controlla la sentenza di merito per appurare se la legge che è stata applicata sia proprio quella che doveva essere applicata al caso e, soprattutto, se sia stata correttamente interpretata. Al termine di tale giudizio la Suprema Corte confermerà la sentenza di merito se la riterrà esente da errori oppure, in caso contrario, la “casserà”  (il termine “Cassazione” proviene proprio dall’atto di “cassare” che significa annullare, cancellare, eliminare … ):

  • “con rinvio” se deciderà di rimandare le carte al giudice di merito (non quello che ha emesso la sentenza annullata, ma uno diverso dello stesso grado) in modo che si decida nuovamente sul caso, seguendo però le indicazioni fornite dalla Cassazione stessa;
  • “senza rinvio” se invece riterrà opportuno decidere direttamente, mettendo quindi fine definitivamente alla controversia.

Spero di esser riuscito a farvi afferrare il problema … ad maiora!

TCGC

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LA LEVA È STATA VERAMENTE ABOLITA?

Sfatiamo un mito che continua periodicamente a ripresentarsi: il servizio militare di leva non è stato abolito ma solo sospeso! Certo, l’evoluzione dello strumento militare ha portato all’emanazione del D. Lgs. 215 del 2001 (confluito poi nel D. Lgs. n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” – COM) che ha regolato, nell’ottica di professionalizzare le Forze Armate, la progressiva sostituzione del servizio militare obbligatorio di leva con il servizio volontario. Ciò nonostante, il servizio militare di leva tradizionale non è stato abrogato ma solo sospeso [1], con esplicite ipotesi di ripristino in caso di:

  • deliberazione dello “stato di guerra ai sensi dell’articolo 78 della Costituzione”;
  • grave crisi internazionale nella quale l’Italia è coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza ad una organizzazione internazionale giustifica un aumento della consistenza numerica delle Forze Armate”.

TCGC

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[1]: articolo 1929 del Codice dell’ordinamento militare – Sospensione del servizio obbligatorio di leva e ipotesi di ripristino:“1. Le chiamate per lo svolgimento del servizio obbligatorio di leva sono sospese a decorrere dal 1° gennaio 2005. 2. Il servizio di leva è ripristinato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, se il personale volontario in servizio è insufficiente e non è possibile colmare le vacanze di organico, in funzione delle predisposizioni di mobilitazione, mediante il richiamo in servizio di personale militare volontario cessato dal servizio da non più di cinque anni, nei seguenti casi: a) se è deliberato lo stato di guerra ai sensi dell’articolo 78 della Costituzione; b) se una grave crisi internazionale nella quale l’Italia è coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza ad una organizzazione internazionale giustifica un aumento della consistenza numerica delle Forze armate. 3. Nei casi di cui al comma 2, al fine di colmare le vacanze di organico, non possono essere richiamati in servizio gli appartenenti alle Forze di polizia ad ordinamento civile ed al Corpo nazionale dei vigili del fuoco”.

SI PUÒ FARE RINUNCIA ALLE FERIE?

Iniziamo con lo sfatare un mito che periodicamente rigurgita e che proprio l’altro giorno mi è tornato all’orecchio: non è possibile rinunciare alla licenza ordinaria! È vero, la licenza ordinaria non fruita può essere monetizzata in alcuni casi specifici … eccezionali direi … ma se il vostro Comando vi ha fatto firmare un foglio in cui c’era scritto che rinunciavate spontaneamente ai giorni di licenza ordinaria non goduti, sappiate che tale foglio non vale niente … anzi … meno di niente! Non lo dico io, lo dice la Costituzione della Repubblica che, al comma 3 dell’articolo 36, dispone in modo estremamente chiaro che “il lavoratore ha diritto […] a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi” … ecco perché spesso nelle varie normative sulle licenze trovate formule altisonanti tipo che la licenza ordinaria è un diritto “irrinunciabile” … diritto irrinunciabile significa proprio che neanche voi potete disporne, rinunciandovi appunto … dovete pertanto esercitarlo perchè diversamente non potete fare … detto altrimenti dovete andare in licenza, punto e basta! Penso proprio che non ci sia altro da dire sull’argomento, non mi resta quindi che augurarvi una buona licenza …

Ad maiora!

TCGC

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COS’È UNA TASSA E IN COSA SI DIFFERENZIA DA UN’IMPOSTA?

Mi capita sempre più spesso di sentire persone che confondono le imposte con le tasse … certo, sono entrambe dei tributi (termine che quindi, nel dubbio, vi invito a usare di più!) ma le due parole non sono sinonimi e, per tanto, non sono assolutamente intercambiabili: le imposte e le tasse non sono cioè la stessa cosa!

Al riguardo è sufficiente ricordiate che:

  • con le imposte ciascun contribuente partecipa, in relazione alle proprie possibilità economiche, alle spese pubbliche … e questo a prescindere dalla fruizione di alcun servizio pubblico. La misura di tale contributo avviene per una frazione (o “quota”) che viene determinata dallo Stato. Imposte sono, ad esempio, l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), l’imposta sul valore aggiunto (IVA) eccetera;
  • la tassa, invece, è quella somma di denaro che un soggetto è tenuto per legge a pagare per poter fruire (individualmente) di un determinato servizio o attività pubblica. La tassa, quindi, è sostanzialmente il corrispettivo per una data prestazione pubblica … esempi ne sono, ad esempio, la tassa sulla raccolta dei rifiuti (TARI), la tassa di occupazione del suolo pubblico eccetera.

TCGC

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LA DIFESA DELLA PATRIA

L’articolo 2 della Costituzione, inserito tra i “principi fondamentali” del nostro ordinamento costituzionale (artt. 1-12 della Costituzione), richiede al cittadino “l’adempimento di inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale”, doveri imposti per salvaguardare quei valori supremi sui cui si regge tutto il sistema e tra i quali spicca, per quanto di interesse, quello di difendere la Patria.

In tale specifico contesto, il primo comma del successivo articolo 52 [1], statuendo che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”, rappresenta il più alto punto di equilibrio nei rapporti Stato/cittadino, in considerazione delle profonde implicazioni etiche e morali di cui è portatore. Tale circostanza è resa ancor più evidente dal fatto che il costituente ha:

  • scelto di utilizzare il termine “Patria”, in luogo di termini più “freddi” e asettici quali Stato, Repubblica, Paese o, più semplicemente, Italia anche per superare la dimensione statica e materiale del concetto, in modo da abbracciare la totalità del patrimonio nazionale (comprensivo quindi anche del patrimonio culturale e storico) nonché quei valori e diritti fondamentali che la Costituzione stessa riconosce come, ad esempio, la libertà, l’uguaglianza, lo spirito democratico eccetera;
  • differenziato tale dovere di difesa dagli altri ordinari doveri (giuridici) che vengono posti a carico di ogni individuo (ad esempio, il dovere di concorrere alle spese pubbliche, il dovere dei genitori di educare, istruire ed educare i figli, eccetera), arrivando addirittura a definirlo “sacro”,

proprio per farne risaltare i caratteri etici, politici e metagiuridici che ne permeano in profondità l’essenza, riempiendolo di quell’emozione, di quell’affetto e di quelle suggestioni che raramente si incontrano in una norma giuridica, anche se di livello costituzionale.

Tradizionalmente, il comune sentire ha individuato nel servizio militare obbligatorio di leva il mezzo privilegiato per difendere la Patria; anzi, è innegabile che il servizio di leva sia arrivato negli anni addirittura ad identificarsi con il concetto di difesa stesso. Il consolidamento di tale concezione “statica” della difesa è stata favorita anche dalla struttura logica dell’articolo 52 della Costituzione: questo, infatti, dedicando al servizio militare il secondo comma [2], ne ha formalmente accentuato il nesso di conseguenzialità con il primo comma, riassunta dalla la nota equazione: difesa della Patria = servizio militare.

Successivamente, però, il concetto difesa della Patria – anche grazie al graduale aumento della sensibilità per fenomeni sociali quali quello dell’“obiezione di coscienza” – ha progressivamente assunto contorni maggiormente “dinamici”, garantendo al cittadino di poter attuare il “sacro” dovere anche attraverso il servizio civile sostitutivo, ovvero attraverso una prestazione differente da quella tradizionale “in armi”.

L’evoluzione dello strumento militare ha poi portato all’emanazione del D. Lgs. 215 del 2001 (confluito poi nel D. Lgs. n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare[3] – COM) che ha regolato, nell’ottica di professionalizzare le Forze Armate, la progressiva sostituzione del servizio militare obbligatorio di leva con il servizio volontario. Ciò nonostante, il servizio militare di leva tradizionale non è stato abrogato ma solo sospeso, con esplicite ipotesi di ripristino in caso di:

  • deliberazione dello “stato di guerra ai sensi dell’articolo 78 della Costituzione”;
  • grave crisi internazionale nella quale l’Italia è coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza ad una organizzazione internazionale giustifica un aumento della consistenza numerica delle Forze Armate”.

TCGC

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[1]: inserito nel Titolo IV della parte prima della Repubblica titolata “Diritti e Doveri dei cittadini”. Per dovere di completezza, si evidenzia inoltre che la Costituzione ascrive la materia della difesa – e delle Forze Armate – alla potestà legislativa esclusiva del parlamento (articolo 117, comma 2, let. d della Costituzione).

[2]: articolo 52, secondo comma, della Costituzione:“Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge”.

[3]: articolo 1929 del Codice dell’ordinamento militare.

IL RIPUDIO DELLA GUERRA

Gli articoli 10 e 11 della Costituzione rappresentano una chiara presa di posizione del costituente sul tema della guerra. In particolare:

  • l’articolo 10, comma 1, secondo cui: “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” esprime la volontà di apertura alla comunità internazionale, nel senso di prendere l’impegno di conformarsi alle norme – sia scritte sia non scritte – ivi operanti (che, per quanto attiene al problema dei conflitti armati, ha una lunga tradizione di sforzi e tentativi volti a limitarne l’assolutezza);
  • l’articolo 11, nella parte in cui afferma che: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali […]” elimina la guerra dal nostro ordinamento giuridico, ad eccezione di quelle cosiddette difensive.

Dall’esame delle norme suesposte, risulta evidente come la Costituzione non dia alcuno spazio alla guerra, salvo che in casi eccezionali e secondo le modalità “riconosciute” dalla comunità internazionale. Senza addentrarci nella disamina delle diverse concezioni dottrinali che sono arrivate, negli anni, addirittura a negare ogni pratica valenza giuridica alle disposizioni costituzionali di cui sopra, sono molti i motivi per ritenere che il ripudio della guerra rappresenti invece uno dei cardini dell’ordinamento giuridico costituzionale, in quanto integrante un principio di civiltà da cui non si può assolutamente prescindere. I costituenti, infatti, proprio in virtù della sensibilità dimostrata per un fenomeno loro molto vicino (ricordiamoci che la Costituzione venne emanata nel 1948 e, quindi, a pochi anni dalla fine del fascismo e della seconda guerra mondiale), hanno voluto distintamente evidenziare la rottura con le precedenti esperienze politiche che hanno portato l’Italia a prender parte a diverse esperienze militari tra le quali, a prescindere dalla seconda guerra mondiale, degne di menzione sono senza alcun dubbio la guerra d’Etiopia o la guerra di Spagna. Con tale approccio deve quindi essere interpretato l’articolo 11 della Costituzione, soprattutto per quanto attiene:

  • l’utilizzo del termine “ripudiare”, inserito proprio per sottolineare la volontà di prender le distanze dal passato: può essere infatti ripudiato solo ciò che una volta si accettava, si considerava valido o si condivideva;
  • l’esplicito riferimento all’“Italia”, quasi a voler ribadire che il conseguente dovere giuridico è posto a carico di tutto il popolo italiano, di tutta la comunità e non solo di determinate Istituzioni quali, ad esempio, il Parlamento, il Governo o le Forze Armate.

Tanto premesso, ritengo doveroso chiarire subito che la Costituzione non ripudia la guerra in quanto tale, bensì solo allorquando tale fenomeno presenti determinate caratteristiche: chiaro è il riferimento alle guerre internazionali, ovvero quelle che hanno ad oggetto conflitti armati con altri Stati. Restano escluse invece le guerre cosiddette “interne” e, in tale ambito, quelle difensive in quanto condotte per fronteggiare attacchi e aggressioni. Tale circostanza trova conferma nell’articolo 52 della Costituzione che arriva infatti a definire “sacro” il dovere di ogni cittadino di difendere la Patria nonché, a livello internazionale, nell’articolo 51 [1] dello Statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite [2] che riconosce il diritto naturale degli Stati alla legittima difesa.

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[1]: articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite: “nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”.

[2]: firmato a San Francisco il 26 giugno 1945 e ratificato dall’Italia con la legge n. 848 del 1957.

IL MILITARE PUÒ CANDIDARSI ALLE ELEZIONI?

Iniziamo subito col dire che la risposta è si, il militare può candidarsi alle elezioni! L’articolo 1484 del D. Lgsl. n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM) stabilisce al riguardo che “i militari candidati a elezioni per il Parlamento europeo, a elezioni politiche o amministrative possono svolgere liberamente attività politica e di propaganda al di fuori dell’ambiente militare e in abito civile. Essi sono posti in apposita licenza straordinaria per la durata della campagna elettorale” … preciso che non appare esserci alcuna discrezionalità in questo caso: “sono posti”, infatti, non significa che possano essere posti o che possano chiedere di essere posti … a mio personale parere “sono posti” significa che devono essere posti in licenza, punto e basta! Anche in caso di formale candidatura non si può fare propaganda politica in uniforme (per approfondire clicca qui), in luoghi militari ovvero qualificandosi come militari, fermo restando la necessità di rendere edotto il proprio Comando della propria candidatura alle elezioni, in ossequio al generale dovere di comunicazione (per approfondire clicca qui).

Tanto premesso cosa accade se poi si viene eletti? Il Codice dell’ordinamento militare stabilisce che si venga posti in aspettativa non retribuita:

  • obbligatoria allorquando si è eletti al Parlamento nazionale, al Parlamento europeo e nei Consigli regionali o chiamati a svolgere le funzioni di Ministro o Sottosegretario di Stato (articoli 903 e 1488 COM);
  • a domanda in tutti gli altri casi ovverosia in caso di elezione a cariche amministrative quali sono, ad esempio, quelle di Sindaco, Consigliere provinciale, Consigliere comunale eccetera (articoli 904 e 1488 COM).

Per quanto attiene specificamente ai militari eletti a cariche elettive amministrative, resta da chiedersi: cosa accade se questi non richiedono poi di essere messi in aspettativa non retribuita? Beh, ai sensi del D. Lgsl. 267 del 2000 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” sappiate che questi hanno diritto:

  • ad assentarsi dal servizio per svolgere le funzioni per cui si è stati eletti [1];
  • a presentare domanda di trasferimento (a carattere temporaneo, cioè per la durata del mandato), qualora la distanza tra sede di servizio e luogo di svolgimento dell’incarico renda particolarmente gravoso l’esercizio delle funzioni connesse al mandato elettorale.

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[1]: Articolo 79 del D. Lgsl. 267 del 2000 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” – Permessi e licenze:“1. I lavoratori dipendenti, pubblici e privati, componenti dei consigli comunali, provinciali, metropolitani, delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché’ dei consigli circoscrizionali dei comuni con popolazione superiore a 500.000 abitanti, hanno diritto di assentarsi dal servizio per il tempo strettamente necessario per la partecipazione a ciascuna seduta dei rispettivi consigli e per il raggiungimento del luogo di suo svolgimento. Nel caso in cui i consigli si svolgano in orario serale, i predetti lavoratori hanno diritto di non riprendere il lavoro prima delle ore 8 del giorno successivo; nel caso in cui i lavori dei consigli si protraggano oltre la mezzanotte, hanno diritto di assentarsi dal servizio per l’intera giornata successiva. 2. COMMA ABROGATO DAL D.LGS. 15 MARZO 2010, N. 66. 3. I lavoratori dipendenti facenti parte delle giunte comunali, provinciali, metropolitane, delle comunità montane, nonché’ degli organi esecutivi dei consigli circoscrizionali, dei municipi, delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, ovvero facenti parte delle commissioni consiliari o circoscrizionali formalmente istituite nonché’ delle commissioni comunali previste per legge, ovvero membri delle conferenze del capogruppo e degli organismi di pari opportunità, previsti dagli statuti e dai regolamenti consiliari, hanno diritto di assentarsi dal servizio per partecipare alle riunioni degli organi di cui fanno parte per la loro effettiva durata. Il diritto di assentarsi di cui al presente comma comprende il tempo per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro. PERIODO ABROGATO DAL D.LGS. 15 MARZO 2010, N. 66. 4. I componenti degli organi esecutivi dei comuni, delle province, delle città metropolitane, delle unioni di comuni, delle comunità montane e dei consorzi fra enti locali, e i presidenti dei consigli comunali, provinciali e circoscrizionali, nonché’ i presidenti dei gruppi consiliari delle province e dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, hanno diritto, oltre ai permessi di cui ai precedenti commi, di assentarsi dai rispettivi posti di lavoro per un massimo di 24 ore lavorative al mese, elevate a 48 ore per i sindaci, presidenti delle province, sindaci metropolitani, presidenti delle comunità montane, presidenti dei consigli provinciali e dei comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti. 5. I lavoratori dipendenti di cui al presente articolo hanno diritto ad ulteriori permessi non retribuiti sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili qualora risultino necessari per l’espletamento del mandato. 6. L’attività ed i tempi di espletamento del mandato per i quali i lavoratori chiedono ed ottengono permessi, retribuiti e non retribuiti, devono essere prontamente e puntualmente documentati mediante attestazione dell’ente”.

IL DIRITTO AL VOTO DEI MILITARI IN SERVIZIO

L’esercizio del diritto al voto per i militari in servizio è una questione che non merita particolari approfondimenti … è stato scritto tutto ciò che serve! Ai sensi dell’articolo 1490 del D. Lgsl. n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare”, infatti: “1. il personale militare è ammesso a votare nel comune in cui si trova per causa di servizio. 2. I militari possono esercitare il voto in qualsiasi sezione elettorale, in soprannumero agli elettori iscritti nella relativa lista e con precedenza, previa esibizione del certificato elettorale. Sono iscritti in una lista aggiunta. 3. La loro iscrizione nelle relative liste e’ fatta a cura del presidente del seggio elettorale. 4. È fatto loro divieto di recarsi inquadrati o armati nelle sezioni elettorali”.

Tanto detto, credo proprio che abbiate sufficientemente chiari i punti essenziali della questione … a questo punto vi consiglio solo di chiedere alla vostra linea di Comando le modalità di dettaglio per poter esercitare correttamente ed ordinatamente il vostro diritto al voto, senza creare possibili disservizi …

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IL MILITARE PUÒ ISCRIVERSI A UN PARTITO POLITICO?

La domanda non è banale e merita un approfondimento, sopratutto alla luce dei numerosi dubbi interpretativi che ha sempre alimentato … Ebbene, l’articolo 98, comma 3, della Costituzione stabilisce che “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per magistrati, militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”. Il Parlamento non ha però mai legiferato in materia e, conseguentemente, allo stato attuale nessuna legge vieta l’iscrizione del militare ad un partito politico … e la legge è l’unico strumento individuato dalla Costituzione per regolare tale delicatissima materia (c.d. riserva di legge [1]). Il diritto di iscriversi ad un partito politico è quindi un diritto liberamente esercitabile da parte del singolo [2] militare e, in linea di principio, pienamente compatibile con i valori e i principi dell’ordinamento giuridico militare. Ciò che invece, nella pratica, di solito “stride” con il possesso dello status militare sono, come sempre, tutte quelle modalità di esercizio di libertà politiche che contrastano con i valori e i principi dell’ordinamento giuridico militare. Queste vengono ben riepilogate dal combinato disposto degli articoli 1483, comma 2, e 1350, comma 2, del codice dell’ordinamento militare ovvero “[…] partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati a elezioni politiche e amministrative” (articolo 1483 del Codice dell’ordinamento militare – cosiddetto COM) da parte di “ […] militari che si trovino in una delle seguenti condizioni: a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l’uniforme; d) si qualificano, in relazione ai compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali […]” (articolo 1350 COM).

In definitiva, come peraltro recentemente ribadito dal Consiglio di Stato, “il singolo militare può sì iscriversi ad un partito e, anche in tale qualità, esercitare il proprio diritto di elettorato passivo, ma non può mai assumere, nell’ambito di una formazione partitica, alcuna carica statutaria neppure di carattere onorario, a tutela indiretta ma necessaria del principio di neutralità “politica” delle Forze Armate: tale principio, infatti, sarebbe inevitabilmente leso ove un militare, lungi dal limitarsi ad aderire, mediante la propria iscrizione, alle coordinate valoriali di una formazione politica o dal rappresentare in prima persona i cittadini in assemblee elettive, contribuisse personalmente, direttamente e, per così dire, istituzionalmente, in forza di una formale qualifica statutaria, a plasmare ab interno la linea politica di formazioni di massa ed intrinsecamente di parte quali sono gli odierni partiti politici” (Consiglio di Stato, IV Sezione, sentenza 5845/2017).

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[1]: le parole dell’articolo 98 della Costituzione “… si possono stabilire con legge …” stanno a significare proprio questo:  le eventuali limitazioni al diritto di iscriversi ad un partito politico devono essere adottate con legge, che rimane una prerogativa del Parlamento.

[2]: il riferimento al singolo militare non è casuale: si sono infatti verificati casi in cui sono stati adottati provvedimenti disciplinari nei confronti di militari che si sono iscritti a partiti politici sulla base del fatto che “le Forze armate devono in ogni circostanza mantenersi al di fuori dalle competizioni politiche” (articolo 1483 del codice dell’ordinamento militare). La ricostruzione fornita dall’Amministrazione militare a supporto dell’asserita esistenza di un divieto per il militare di iscrizione ai partiti politici si incentrava su un’interpretazione che ravvisava del citato articolo 1483 COM “un generalizzato divieto anche per i singoli appartenenti alle Forze Armate di partecipare alle “competizioni politiche” e, dunque, di iscriversi a partiti”(Consiglio di Stato, IV Sezione, sentenza 5845/2017). Tale approccio è stato però sconfessato dal Consiglio di Stato “proprio in quanto la disposizione [l’art. 1483 COM] non menziona in alcun modo il singolo militare né, tanto meno, ne perimetra in senso riduttivo la libertà, costituzionalmente presidiata, di associazione a fini politici”. Quindi “la mera iscrizione di un appartenente alle Forze Armate ad un partito politico costituisce, allo stato attuale della legislazione, un comportamento ab imis lecito che in nessun caso può essere stigmatizzato dall’Amministrazione militare” (Consiglio di Stato, IV Sezione, sentenza 5845/2017).

IL MILITARE PUÒ FARE IL GIUDICE POPOLARE? … E LO SCRUTATORE ALLE ELEZIONI?

Iniziamo subito col dire che la risposta è no! Al militare è infatti precluso l’accesso ad alcuni uffici pubblici quali quelli di giudice popolare o di scrutarore, segretario o presidente di seggio elettorale: l’articolo 1492 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” (cosiddetto COM) stabilisce al riguardo che: “1. Gli appartenenti alle Forze armate in servizio non possono assumere l’ufficio di giudice popolare. 2. Gli appartenenti alle Forze armate in servizio sono esclusi dalle funzioni di presidente dell’ufficio elettorale di sezione, di scrutatore e di segretario […]”.

Tutto qui… Ad maiora!

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LO STATUS MILITARE

Il particolare trattamento giuridico riservato ai militari è una evidenza vecchia quanto il mondo o, se non altro, da quando sono nati gli eserciti professionali. Nel corso dei secoli, infatti, si è tentato per diverse ragioni di “isolare” il cittadino in armi dal resto della società, formando dell’esercito una “casta” che potesse trarre la propria forza dallo spirito di corpo, in modo da poter garantire quell’efficienza cui deve naturalmente tendere lo strumento militare. Oggi come ieri, le Forze Armate sono quindi caratterizzate dal fatto di avere un proprio ordinamento giuridico che le regola dall’interno (definendo i rapporti tra i singoli militari, nonché tra questi e l’Amministrazione della Difesa), ne disciplina i rapporti con l’esterno (cioè con il mondo “civile”) e, ovviamente, qualifica e definisce il particolare status [1] posseduto dai suoi appartenenti [2]. Tale approccio, che oggi è espressione di una chiara presa di posizione del legislatore (cioè del Parlamento [3]), ha origini molto antiche che risalgono addirittura alla tradizione dell’esercito romano [4] [5]: l’esercito cittadino tipico della repubblica – o successivo del principatus – aveva infatti già elaborato buona parte di quel patrimonio etico-militare che, con tutte le differenze del caso, ha plasmato l’attuale realtà giuridica militare [6]. L’esercizio della professione militare rappresenta quindi, anche oggi, il presupposto per un regolamento giuridico “speciale” dell’interessi in gioco che, nel rispetto della Costituzione e del principio di legalità [7], trova giustificazione nel perseguimento del supremo interesse pubblico di difesa della Patria, attraverso la:

  • rapidità di azione, che deve necessariamente contraddistinguere lo strumento militare;
  • necessaria “snellezza” e “fluidità” che ne qualifica taluni specifici strumenti giuridici;
  • connotazione gerarchica che ne caratterizza l’organizzazione [8].

Da quanto precede, appare evidente come la “specialità” militare non rappresenta un privilegio, quanto la diretta espressione di esigenze di carattere essenzialmente pratico e funzionale, direttamente connesse al perseguimento dei fini istituzionali. Il privilegio [9] infatti, è ben altra cosa, cioè una situazione di vantaggio che la legge assicura a uno (o a pochi soggetti), a prescindere dal perseguimento di fini ulteriori [10].

A partire dal 1948, con l’emanazione della Carta costituzionale, hanno poi iniziato a confluire nel diritto militare i principi e i valori di cui essa è portatrice. La Costituzione repubblicana ha cioè ha “avvicinato” la condizione del militare a quella del comune cittadino, definendo (grazie soprattutto ai numerosi interventi della Corte costituzionale) l’ambito entro il quale (e con quali modalità) i singoli diritti costituzionali possano essere esercitati anche da chi serve la Patria “in armi” [11]. Il diritto “speciale” dei militari non può infatti essere avulso dal sistema generale delineato dalla Costituzione, perché il militare è un cittadino e l’organizzazione militare, con tutte le particolarità del caso, è un’articolazione dello Stato, all’interno del quale deve pertanto trovare una giusta e armoniosa collocazione. Ciò nonostante, molti interpreti continuano a dimostrarsi propensi ad una visione “tradizionalista” e superata della questione, soprattutto perché inclini a prediligere canoni interpretativi di matrice prettamente penalistica e amministrativa (soprattutto disciplinare) che poco hanno a che vedere con l’attuale lettura “costituzionalistica” che deve necessariamente essere data all’ordinamento giuridico militare. Il fenomeno giuridico militare non significa oggi solo efficienza e coesione interna da perseguirsi con il rigore e la disciplina o, quantomeno, non può più significare in assoluto solo questo. L’articolo 52, comma 3, della Costituzione, stabilendo che “l’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”, evidenzia chiaramente che ci sono altri elementi da prendere in considerazione. In caso contrario, si correrebbe seriamente il rischio di non prestare la dovuta attenzione a quegli strumenti giuridici che permettono di affrontare – con successo – le nuove sfide cui sono oggi chiamate le Forze Armate che vanno dalle missioni internazionali di pace o quelle a supporto delle Forze dell’ordine, ai più recenti scenari di guerra e pace cibernetica. Risulta evidente come si stia facendo riferimento a moderne realtà in cui si fondono i tradizionali concetti di difesa esterna e interna, rendendo molto fluido ed evanescente il confine tra le operazioni propriamente militari e quelle di mantenimento dell’ordine pubblico [12], in passato prerogativa delle sole Forze di polizia.

Quando parliamo di ordinamento giuridico militare, è intuitivo cogliere che questo sia un ordinamento di settore di cui fanno parte le norme che regolano il funzionamento e l’organizzazione delle Forze Armate. L’evanescenza, la frammentarietà e la disorganicità che lo contraddistinguono, rendono però molto complicato entrare nel merito delle singole questioni. Lo stesso Codice dell’ordinamento militare (decreto legislativo n. 66 del 2010 – c.d. COM) o il Testo Unico regolamentare sull’ordinamento militare (decreto del Presidente della Repubblica n. 90 del 2010 – c.d. TUOM), pur avendo efficacemente iniziato ad “ordinare” la materia, troppo spesso non brillano per chiarezza, coerenza ed omogeneità [13]. Ciò nonostante, parlare di status militare non significa fare riferimento a qualcosa di etereo o di astratto, in altre parole, a concetti che attengono solo all’etica o alla morale: pensateci bene, lo status militis, comporta infatti anche precise e concrete implicazioni giuridiche che assoggettano il cittadino-militare ad una peculiare condizione giuridica, dalle importanti conseguenze pratiche come il possibile sacrificio taluni diritti costituzionali, nell’ambito della quale concetti quali autorità, obbedienza, spirito di corpo e sacrificio assumono comunque significati spesso incomprensibili per il resto della società “civile”.

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[1]: particolare posizione del soggetto nell’ambito della società e che rileva come presupposto di specifici diritti e doveri.

[2]: il diritto militare è tecnicamente un diritto singolare (jus singulare, per dirla in termini latini) poiché presenta caratteri di eccezione, in quanto finalizzato al perseguimento di scopi particolari, e che va considerato “a parte” rispetto a al diritto che generalmente viene applicato a tutti i consociati (il cosiddetto jus commune). Pensate che in epoca romana, i militari arrivarono ad essere destinatari di un particolarissimo trattamento “speciale”: in alcuni periodi venne infatti stabilito che a loro non si applicasse il noto principio ignorantia juris non excusat ovverosia “la legge non ammette ignoranza”; vuoi per la loro semplicità (= simplicitas, da intendersi come completa assenza di qualsivoglia formazione giuridica), vuoi per la durezza della vita di guarnigione (= severitas castrorum), per loro la legge ammetteva quindi ignoranza!

[3]: la Costituzione, all’articolo 52 utilizza volutamente il termine “Forze Armate” in modo generico. Così facendo, lascia al Parlamento il compito di individuare quali Istituzioni ne facciano parte e, per tanto, siano assoggettate all’ordinamento militare. Per quanto attiene alla Polizia di Stato (almeno dall’entrata in vigore della legge n. 121 del 1981 che ne ha decretato la smilitarizzazione), ad esempio, chiara è stata la scelta politica del Legislatore di escluderla dall’applicazione della legge militare, garantendo conseguentemente ai relativi appartenenti un più completo esercizio dei diritti che la Costituzione riconosce.

[4]: nell’ambito dell’esercito arcaico, infatti, era impensabile una qualsivoglia regolamentazione militare, atteso che la prestazione militare era spontaneamente effettuata da gruppi interni alla comunità (spesso più simili a bande che a formazioni regolari) e da tali gruppi regolata in relazione agli interessi di volta in volta in gioco. Ciò nonostante, anche se il servizio militare veniva svolto per una sola campagna di guerra, la separazione dal mondo “civile” era molto evidente: il semplice fatto che l’arruolamento avvenisse al Campo Marzio, area esterna alle antiche mura di Roma dedicata al dio Marte (più o meno dove oggi di trova il Pantheon), simboleggia egregiamente l’abbandono dello status di cives e l’acquisto di quello di miles.

[5]: la stessa spiritualità che permea oggi l’etica militare con il culto dei Santi protettori, trae spunto dalla stessa tradizione dell’esercito romano: pensate che, a prescindere di vari dei adorati, nel II secolo dopo Cristo lo stesso spirito della “disciplina militare” divenne oggetto di culto tra i legionari, sulla base delle parole e delle formule che, una volta arruolati, si pronunciavano solennemente in occasione del giuramento (il c.d. sacramentum).

[6]: alcuni commentatori hanno però evidenziato l’inconciliabilità di tale approccio con le moderne esperienze militari “di popolo” come, ad esempio, quella della rivoluzione francese o, per rimanere nell’esperienza italiana, dell’esercito di leva repubblicano. In tale contesto, è però innegabile che sia la disciplina di un esercito professionale, sia l’autodisciplina (c.d. disciplina consapevole) caratteristica di un esercito di popolo non possano comunque prescindere da una legislazione “speciale”.

[7]: principio fondamentale secondo il quale ogni articolazione dello Stato, e quindi anche le Forze Armate, devono agire nel rispetto della legge.

[8]: la situazione si complica se si considera poi che alcune disposizioni trovano applicazione in considerazione dello stato di belligeranza o meno, mentre altre prescindono invece dallo stato di pace o di guerra in cui si trova la Nazione.

[9]: tutto appare più chiaro se si considera l’etimologia della parola: privilegio deriva infatti dal latino privilegium, (composto di privus = solo, singolo e ligium che ha la stessa radice di lex, legis = legge) che significa legge fatta per il singolo, cioè disposizione che riguarda un singolo soggetto.

[10]: e che, come acutamente rilevato da alcuni commentatori, è generalmente priva dei caratteri di “generalità” e “astrattezza” che contraddistinguono invece le norme giuridiche che compongono l’ordinamento giuridico militare. Non dimentichiamo, infatti, che la generalità e l’astrattezza sono le caratteristiche fondamentali di ogni norma giuridica che, infatti, è:

  • generale, poiché rivolta ad una serie indefinita di soggetti;
  • astratta, in quanto non prende in considerazione un fatto concreto ma una serie ipotetica di fatti (astratti).

Per chiarire il concetto pensiamo a una sentenza (che non è né generale né, soprattutto, astratta) nella quale il giudice ha di fronte due soggetti e che gli hanno chiesto di regolare un conflitto tra loro. Come fa? Prende la norma da applicare al caso, gli toglie il requisito della generalità (la applica infatti a soggetti ben definiti, ovverosia alle parti del processo) e dell’astrattezza (prende in considerazione un fatto realmente accaduto, cioè concreto, e non astratto) e sentenzia chi ha ragione e chi torto.

[11]: non dimentichiamo che il principio di uguaglianza sancito l’articolo 3 della Costituzione ha come logico corollario il fatto che situazioni diverse debbano necessariamente essere disciplinate in modo diverso. Tale evidenza, per quanto attiene quantomeno alla condizione militare, deve essere però sempre trovare ragione nella tutela di un bene superiore qual è, ad esempio, l’interesse pubblico alla sicurezza dello Stato e della collettività.

[12]: chiara conseguenza di questa evoluzione delle attività militari risiede nel fatto che le Forze Armate utilizzano strumenti giuridici differenti in relazione alle missioni via via svolte. Mi spiego meglio, se nelle operazioni militari tradizionali esse possono legalmente utilizzare la propria forza fino ad arrivare al legittimo annientamento fisico del nemico (peraltro, senza grossi problemi), nelle operazioni diverse dalla guerra (ora diventate la normalità per i reparti operativi) l’uso della forza è minuziosamente predeterminato e limitato dalle cosiddette regole d’ingaggio, stabilite volta per volta in relazione al compito assegnato.

[13]: ricordiamoci che sia nel COM che nel TUOM sono confluite una miriade di fonti differenti, cioè leggi e regolamenti emanati negli anni da organi differenti, in diversi periodi storici, e quindi assolutamente non coordinati tra loro.

LA RILEVANZA COSTITUZIONALE DELLE FORZE ARMATE

Sebbene l’espressione Forze Armate compaia più volte nella Costituzione (articoli 52, 87, 98, 103 e 117), a questa non viene data alcuna esplicita definizione … ecco perché proveremo noi a fare un poco di chiarezza [1]. Ebbene, possiamo preliminarmente affermare, senza timore di smentita, che le Forze Armate sono quel complesso di cittadini gerarchicamente organizzato e di mezzi che è volto istituzionalmente alla difesa militare dello Stato e che presenta delle caratteristiche peculiari che la Costituzione stessa delinea nei termini che seguono:

  • primato del potere civile su quello militare.

Le Forze Armate sono “al servizio della Repubblica” (articolo 87 del “Codice dell’Ordinamento Militare” – c.d. COM). Esse, in quanto tali, non sono quindi titolari di alcun potere di indirizzo politico ed hanno al proprio vertice il Presidente della Repubblica (articolo 87 Costituzione), organo neutrale e super partes per eccellenza.

  • spirito democratico.

Al pari di ogni altra articolazione dello Stato, le Forze Armate si informano allo spirito democratico della Repubblica ossia ai valori democratici rilevabili, in primo luogo, nei principi fondamentali della Carta costituzionale (artt. 1-12 Costituzione). Naturalmente, il rovescio della medaglia è rappresentato dal fatto che lo spirito democratico deve anche regolare e tutelare la dignità umana del singolo militare che, sebbene inserito in un contesto gerarchico e sottoposto alla disciplina militare, è e rimane titolare dei diritti inviolabili che la Costituzione riconosce;

  • apoliticità.

Tale caratteristica, ricollegabile a diverse norme della Costituzione in relazione alle diverse angolazioni con cui è stata approcciata la problematica, è elemento chiave per quanto attiene il funzionamento e la struttura dello strumento militare. Tra le tante ricostruzioni date al problema dell’apoliticità delle Forze Armate, appare preferibile probabilmente quella che si ricollega all’articolo 18 della Costituzione che vieta le associazioni “che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”, in modo da scongiurare il rischio di una strumentalizzazione (se non addirittura lottizzazione) politica dello strumento militare che potrebbe pregiudicarne l’efficienza nel perseguimento dei propri compiti istituzionali, mettendo al contempo in discussione il monopolio dello Stato in materia di difesa.

  • compito istituzionale di difendere la Patria.

Sebbene la Costituzione non indichi esplicitamente quali siano i compiti istituzionali delle Forze Armate, questi sono facilmente desumibili dall’articolo 52 Costituzione, con il limiti di cui al precedente articolo 11. Naturalmente, l’elasticità propria del concetto di “difesa della Patria” (concetto per il quale è stato redatto uno specifico post) non esclude che possano essere attribuiti alle Forze Armate compiti ulteriori e diversi. Nell’ambito della legislazione ordinaria, ed in particolare del “Codice dell’Ordinamento Militare” (COM), degno di menzione è l’articolo 89 titolato appunto “Compiti delle Forze Armate” che, dopo aver individuato nella “difesa dello Stato” il compito prioritario e fondamentale ad esse assegnato, precisa come queste [2]:

  • operino “al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, in conformità alle regole del diritto internazionale e alle determinazioni delle organizzazioni internazionali delle quali l’Italia fa parte”;
  • concorrono alla salvaguardia delle libere istituzioni e svolgono compiti specifici in circostanze di pubblica calamità e in altri casi di straordinaria necessità e urgenza”;
  • in caso di conflitti armati e nel corso delle operazioni di mantenimento e ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale i comandanti delle Forze armate vigilano, in concorso, se previsto, con gli organismi internazionali competenti, sull’osservanza delle norme di diritto internazionale umanitario”.

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[1]: per quanto d’interesse, non dimentichiamo che, ai sensi dell’articolo 7 del codice penale militare di guerra, sono Forze Armate dello Stato l’Esercito, la Marina, l’Aeronautica, la Guardia di finanza e l’Arma dei carabinieri che, con l’entrata in vigore della legge n. 78 del 2000, è stata elevata al “rango” di Forza Armata.

[2]: il Codice dell’Ordinamento Militare individua altresì, all’articolo 92, i “compiti ulteriori delle Forze Armate:1. Le Forze armate, oltre ai compiti istituzionali propri e fermo restando l’intervento prestato anche ai sensi dell’articolo 11 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, in occasione di calamità naturali di cui alla predetta legge e in altri casi di straordinaria necessità e urgenza, forniscono a richiesta e compatibilmente con le capacità tecniche del personale e dei mezzi in dotazione, il proprio contributo nei campi della pubblica utilità e della tutela ambientale. 2. Il contributo di cui al comma 1 è fornito per le seguenti attività: a) consulenza ad amministrazioni ed enti in tema di pianificazione e intervento delle Forze armate in situazioni di emergenza nazionale; b) contributo di personale e mezzi alle amministrazioni istituzionalmente preposte alla salvaguardia della vita umana in terra e in mare; c) ripristino della viabilità principale e secondaria; d) pianificazione, svolgimento di corsi e di attività addestrative in tema di cooperazione civile-militare; e) trasporti con mezzi militari; f) campagna antincendi boschivi e interventi antincendi anche al di fuori di detta campagna, e anche attraverso la disponibilità, in dipendenza delle proprie esigenze, di risorse, mezzi e personale delle Forze armate, in caso di riconosciuta e urgente necessità, su richiesta delle regioni interessate, giusta quanto previsto dall’articolo 7, comma 3, lettera c), legge 21 novembre 2000, n. 353, in materia di incendi boschivi; g) emissioni di dati meteorologici; h) emissioni bollettini periodici relativi a rischio – valanghe; i) rilevamento nucleare, biologico e chimico ed effettuazione dei relativi interventi di bonifica; l) svolgimento di operazioni a contrasto dell’inquinamento marino da idrocarburi e da altri agenti; m) rilevamento idrooceanografico e aereofotogrammetrico di zone di interesse e produzione del relativo supporto cartografico, nonché scambio di informazioni, elaborati e dati di natura geotopografica e geodetica; n) intervento in emergenze idriche nelle isole minori delle regioni a statuto ordinario; o) interventi in camera iperbarica per barotraumatizzati e ossigenoterapia; p) interventi sull’ambiente marino a tutela della fauna, della flora e del monitoraggio delle acque, attività di ricerca ambientale marina e scambio di informazioni e dati in materia di climatologia; q) demolizione di opere abusive e ripristino dello stato dei luoghi, secondo quanto previsto dagli articoli 41 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e 61 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. 3. Con decreto del Ministro della difesa, di concerto con il Ministro dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare e del Dipartimento nazionale della protezione civile, sentiti i Ministri interessati, sono determinate le modalità per il perseguimento delle finalità di cui al comma 1. 4. Le Forze armate, nell’ambito delle proprie attribuzioni, svolgono i compiti ulteriori previsti dalla legge e, in particolare, quelli di cui all’articolo 15 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 e dall’articolo 12 della legge 3 agosto 2007, n. 124”.

I DIRITTI (E LE LIBERTÀ) FONDAMENTALI DEL MILITARE (3^ PARTE): IL DIRITTO DI ASSOCIAZIONE E LA COSTITUZIONE DI ASSOCIAZIONI A CARATTERE SINDACALE.

1. La Costituzione di associazioni o circoli fra militari è subordinata al preventivo assenso del Ministro della difesa. 2. I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali. 3. I militari non possono aderire ad associazioni considerate segrete a norma di legge e a quelle incompatibili con i doveri derivanti dal giuramento prestato. 4. I militari non possono esercitare il diritto di sciopero” (art. 1475 del Decreto legislativo n. 66 del 2010 “Codice dell’ordinamento militare” – cosiddetto COM) . Questa era la norma sino all’11 aprile 2018 ovvero sino a quando la Corte costituzionale, con la sentenza n. 120 del 2018, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 1475 del COM nella parte in cui vietava ai militari di costituire associazioni a carattere sindacale … affronteremo la questione tra breve, iniziamo col fare prima un poco di ordine.

Situazione PRIMA della sentenza della Corte costituzionale 120/2018.

Tradizionalmente, quantomeno sino alla citata sentenza della Corte costituzionale 120/2018, il diritto di associazione (di cui il diritto di associazione sindacale è un sottotipo) riconosciuto dall’articolo 18 della Costituzione non era di per sé vietato al militare; l’articolo 1475 del COM imponeva infatti all’Amministrazione militare solo il compito di “controllare” come tale diritto venisse materialmente esercitato, verificando cioè la compatibilità con i valori e i principi dell’ordinamento giuridico militare [1]. Perché allora era stata vietata al militare la costituzione/adesione ad associazioni professionali a carattere sindacale [2] nonché l’esercizio del diritto di sciopero [3]? La ragione di tali divieti era semplice nell’ottica del legislatore dell’epoca che, infatti, la giustificava:

  • in primo luogo, nell’esistenza degli organismi di rappresentanza militare (COBAR, COIR e COCER), unici organi individuati dalla legge al perseguimento di finalità di autotutela della categoria militare;
  • secondariamente, nella preoccupazione che la costituzione/adesione a siffatte associazioni sindacali, nonché l’esercizio del diritto di sciopero da parte del militare potesse ledere la disciplina e la coesione interna (per alcuni addirittura l’apoliticità [4]) dell’apparato militare pregiudicandone, quindi, l’efficienza generale;
  • in ultima analisi e per quanto attiene al solo diritto di sciopero, ritenendo che la riserva di legge [5] presente all’articolo 40 della Costituzione fosse stata già utilizzata dal legislatore nel senso di vietarlo totalmente al militare (ebbene questa è una ipotesi eccezionale di divieto, cioè di proibizione totale dell’esercizio di un diritto costituzionale cui abbiamo fatto cenno prima).

La Corte costituzionale evidenziò al riguardo che il riconoscimento del diritto dei militari di costituire/aderire ai sindacati avrebbe aperto “inevitabilmente la via a organizzazioni la cui attività potrebbe risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità dell’ordinamento militare”. In tale ottica ed in considerazione dell’assoluta specialità [6] che caratterizza la condizione militare, continua la Corte, l’ordinamento assicurava comunque “forme di salvaguardia dei diritti fondamentali spettanti ai singoli militari quali cittadini, anche per la tutela di interessi collettivi, ma non necessariamente attraverso il riconoscimento di organizzazioni sindacali” (Corte costituzionale, sentenza 449/1999).

Situazione DOPO la sentenza della Corte costituzionale 120/2018.

La situazione cambia drasticamente dopo la sentenza in questione: la Corte costituzionale, infatti, inizia volente o nolente a dover riconsiderare il divieto di costituire associazioni sindacali in quanto incompatibile con norme internazionali [8] sorte nell’ambito del Consiglio d’Europa: la Carta sociale europea e, soprattutto, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo [9]. Ritengo utile evidenziare che né il Consiglio d’Europa né, tantomeno, le citate normative internazionali hanno nulla a che vedere con l’Unione Europea, infatti:

  • il Consiglio d’Europa (CdE) è una organizzazione internazionale fondata a nel 1949 con il trattato di Londra al lo scopo di promuovere i diritti umani, sociali e la democrazia in Europa;
  • la Carta sociale europea (CSE) è un trattato internazionale firmato a Torino nel 1961 (poi rivisto a Strasburgo nel 1996);
  • la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) è una convenzione internazionale firmata a Roma nel 1950 che prevede anche un apposito tribunale (la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo) a cui ogni individuo può far ricorso se ritiene gli siano stati lesi i diritti garantiti dalla convenzione stessa.

In tale ambito, ad esempio, l’articolo n. 11 della CEDU non lascia molti dubbi prevedendo che:“1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire a essi per la difesa dei propri interessi. 2. L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale e alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non osta a che restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato”. L’interpretazione di tale articolo è immediata quanto intuitiva: non si può vietare del tutto – come avveniva in Italia – la possibilità di costituire o aderire ad associazioni sindacali perché altrimenti si va contro la CEDU (e la CSE [10]): tale diritto può essere cioè limitato ma non vietato del tutto! Peraltro, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva recentemente condannato la Francia proprio per questo motivo (Matelly contro Francia – 10609/10 e AdefDroMil contro Francia – 32191/09) e l’Italia rischiava quindi seriamente di essere a sua volta condannata. La Corte costituzionale, investita della questione, considerati soprattutto gli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo nelle due richiamate sentenze (e tutta una serie di questioni che non approfondiremo per esigenze di chiarezza e sinteticità), dichiara quindi con la sentenza n. 120 del 2018 “l’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), in quanto prevede che «I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali» invece di prevedere che «I militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sindacali»”.

Cosa succede ora? Continua ad applicarsi l’articolo 1475 del COM nelle parti non dichiarate incostituzionali che prevedono, tra l’altro, che:

  • la costituzione di associazioni o circoli fra militari [11] è – e rimane quindi – subordinata al preventivo assenso del Ministro della difesa” (comma 1);
  • i militari continuano a non poter “aderire ad altre associazioni sindacali”, cioè quelle comuni che tutti conosciamo e che sono aperte anche al personale civile;
  • permane integro il divieto di sciopero (comma 4), giustificato dall’esigenza di non “compromettere funzioni o servizi da considerare essenziali per il loro carattere di preminente interesse generale, ai sensi della Costituzione” (Corte costituzionale, sentenza 31/1969 [12]).

Per quanto attiene ulteriori eventuali limiti all’esercizio del diritto di associazione sindacale [13], continua la Corte costituzionale, è necessario un diretto intervento del Parlamento (ci vuole cioè una legge che regoli la materia) fermo restando che, per il tempo necessario per arrivare alla formale approvazione di una legge sui sindacati militari, alle associazioni sindacali riconosciute dal Ministro della difesa si applicherà di fatto la disciplina prevista per i diversi organismi della rappresentanza militare [14].

AGGIORNAMENTO: il Parlamento ha approvato il 28 aprile 2022 la legge n. 46 “Norme sull’esercizio della libertà sindacale del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare, nonché delega al Governo per il coordinamento normativo” che è entrata in vigore il successivo 27 maggio (per approfondire, leggi qui!).

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[1]: nella pratica non sono infrequenti intenti elusivi da parte di militari che costituiscono “associazioni e circoli” includendovi anche membri civili e rendendo quindi la relativa costituzione, stante il tenore letterale della legge, libera e non soggetta ad alcun “assenso del Ministro della difesa”.

[2]: peculiare, al riguardo, è la disciplina particolare riservata dalla legge ai militari di leva e a quelli richiamati in servizio temporaneo: l’articolo 2042 del codice dell’ordinamento militare, titolato “Limiti allo svolgimento di attività sindacale”, prevede infatti che:“1. I militari in servizio di leva o quelli richiamati in temporaneo servizio, possono iscriversi o permanere associati ad organizzazioni sindacali di categoria, ma è fatto loro divieto di svolgere attività sindacale quando si trovano in una delle seguenti condizioni: a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l’uniforme; d) si qualificano, in relazione ai compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”.

[3]: previsti addirittura agli articoli 39 e 40 della Costituzione.

[4]: Consiglio di Stato – Adunanza Plenaria n. 5 del 4 febbraio 1966. In tale remota pronuncia, il Consiglio di Stato, sebbene chiamato a pronunciarsi sul divieto di iscriversi ad organizzazioni sindacali da parte di un appartenente alla Polizia di Stato (all’epoca dei fatti, ancora militare), non ha esitato di rilevare addirittura che: “l’iscrizione ad un sindacato può implicare, attualmente, una scelta politica, così come l’iscrizione ad un partito”. Come ovvio, tale approccio è stato duramente criticato da dottrina e successiva giurisprudenza, ma rimane pur sempre una chiara testimonianza dell’attenzione riservata dalla giurisprudenza alla questione.

[5]: articolo 40 della Costituzione: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”.

[6]: concetto peraltro richiamato dalla Corte costituzionale anche nelle sentenze 125/1986 e 278/1987.

[8]: vincolanti ai sensi dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione.

[9]: il diritto di associazione, di cui il diritto di associazione sindacale è emanazione, viene peraltro contemplato anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 12), dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948 (art. 20) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, anch’esso elaborato in ambito O.N.U. e sottoscritto in New York nel 1966 (art. 22).

[10]: l’articolo 5 della Carta sociale europea (CSE) prevede infatti che: “Tutti i lavoratori e datori di lavoro hanno diritto di associarsi liberamente in seno ad organizzazioni nazionali o internazionali per la tutela dei loro interessi economici e sociali”.

[11]: solo tra militari in attività di servizio. L’articolo 893 del codice dell’ordinamento militare chiarisce al riguardo che “il militare in servizio permanente è fornito di rapporto di impiego che consiste nell’esercizio della professione di militare”.

[12]: Pres. SANDULLI – Rel. MORTATI.

[13]: molto interessante è, al riguardo, il parere n. 01795/2018 fornito dal Consiglio di Stato al Ministero della Difesa.

[14]: Corte costituzionale, sentenza n. 120 dell’11 aprile 2018 (Pres. LATTANZI – Rel. CORAGGIO):“… è indispensabile una specifica disciplina legislativa. Tuttavia, per non rinviare il riconoscimento del diritto di associazione, nonché l’adeguamento agli obblighi convenzionali, questa Corte ritiene che, in attesa dell’intervento del legislatore, il vuoto normativo possa essere colmato con la disciplina dettata per i diversi organismi della rappresentanza militare e in particolare con quelle disposizioni (art. 1478, comma 7, del d.lgs. n. 66 del 2010) che escludono dalla loro competenza «le materie concernenti l’ordinamento, l’addestramento, le operazioni, il settore logistico-operativo, il rapporto gerarchico-funzionale e l’impiego del personale»”.

 

I DIRITTI (E LE LIBERTÀ) FONDAMENTALI DEL MILITARE (2^ PARTE): I SINGOLI DIRITTI.

Verranno ora presi in considerazione alcuni diritti e libertà fondamentali. Preciso da subito che dedicheremo al diritto di associazione (articolo 1475 del codice dell’ordinamento militare) uno specifico post (clicca qui), in considerazione della recente sentenza n. 120/2018 della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il previgente divieto per i militari di costituire associazioni a carattere sindacale. Per esigenze di chiarezza seguiremo l’ordine con cui tali diritti vengono disciplinati dal codice dell’ordinamento militare (COM):

  • articolo 1469 COM – Libertà di circolazione e sede di servizio:“ Per imprescindibili esigenze di impiego ai militari può essere vietato o ridotto in limiti di tempo e di distanza l’allontanamento dalla località di servizio. 2. La potestà di vietare o limitare nel tempo e nella distanza l’allontanamento dei militari dalla località di servizio è esercitata dal comandante di corpo o da altra autorità superiore, nonché dal comandante di distaccamento o posto isolato solo per urgenti necessità operative o in presenza di oggettive situazioni di pericolo. 3. I militari che intendono recarsi all’estero, anche per breve tempo, devono ottenere apposita autorizzazione. 4. L’obbligo di alloggiare nella località sede di servizio è disposto dall’articolo 744 del regolamento”.

Tale disposizione non crea particolari problemi interpretativi. L’articolo 1469 del codice dell’ordinamento militare pone una evidente limitazione all’esercizio del diritto riconosciuto dall’articolo 16 della Costituzione, nella parte in cui riconosce al cittadino la libertà di “circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale”, nonché “di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi”. Tale possibile limitazione alla libertà di movimento del militare, che trova giustificazione in esigenze pratiche (come, ad esempio, esigenze operative quali la partecipazione a missioni nazionali o internazionali, esigenze addestrative o di approntamento, se non addirittura in caso di mobilitazione) oppure organizzative degli E/D/R/C [1] di appartenenza. Ovviamente, la limitazione di tale diritto costituzionale deve essere sempre adeguatamente motivata, nonché trovare piena giustificazione in oggettive ragioni di servizio o di impiego.

  • articolo 1470 COM – Libertà di riunione:“ Sono vietate riunioni non di servizio nell’ambito dei luoghi militari o comunque destinati al servizio, salvo quelle previste per il funzionamento degli organi di rappresentanza; queste ultime, in ogni caso, devono essere concordate con i comandi competenti. 2. Fuori dai predetti luoghi sono vietate assemblee o adunanze di militari che si qualificano esplicitamente come tali o che sono in uniforme”.

Tale articolo regola la libertà di riunione sancita all’articolo 17 della Costituzione. Evidente è la ratio della norma: limitare la libertà di riunione del militare in modo da “porre un freno” a tutte quelle attività collettive che, siccome non veicolate attraverso gli ordinari e legittimi canali della rappresentanza militare, potrebbero potenzialmente andare a ledere la disciplina e, quindi, la “tenuta” generale della compagine militare.

Alcuni commentatori ritengono che l’oggetto di tale divieto non sia di per sé l’assembramento fisico di militari, quanto il perseguimento di obiettivi ulteriori, ovvero che trascendono la fisicità stessa della riunione. La libertà di riunione riconosciuta dalla Costituzione è infatti un mezzo e non un fine: non costituisce cioè un diritto in sé, rappresentando invece il mezzo attraverso il quale il singolo può veicolare, amplificare e perseguire finalità ulteriori (siano esse politiche, di propaganda, culturali, sindacali eccetera) che sono qualcosa di più della mera riunione fisica di più persone.

  • articolo 1471 COM – Libertà di culto:“ I militari possono esercitare il culto di qualsiasi religione e ricevere l’assistenza dei loro ministri. 2. La partecipazione alle funzioni religiose nei luoghi militari è facoltativa, salvo che nei casi di servizio. 3. In ogni caso, compatibilmente con le esigenze di servizio il comandante del corpo o altra autorità superiore rende possibile ai militari che vi hanno interesse la partecipazione ai riti della religione professata e a quelle iniziative rivolte ai militari, sia singolarmente sia collettivamente, che sono proposte e dirette dal personale addetto all’assistenza spirituale alle Forze armate. 4. Se un militare infermo, o per esso i suoi familiari, richiede i conforti della sua religione, i Ministri di questa sono chiamati ad assisterlo. 5. Rimane ferma la disciplina introdotta dalle leggi di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione del Concordato lateranense, nonché dalle leggi che recepiscono le intese con le confessioni religiose diverse da quella cattolica”.

Anche tale disposizione non presenta particolari problemi interpretativi, rappresentando una specificazione dell’articolo 19 della Costituzione che riconosce a “tutti [ivi inclusi, ovviamente, i militari] il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa […]”.

  • articolo 1472 COM – Libertà di manifestazione del pensiero:“ I militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione. 2. Essi possono, inoltre, trattenere presso di sé, nei luoghi di servizio, qualsiasi libro, giornale o altra pubblicazione periodica. 3. Nei casi previsti dal presente articolo resta fermo il divieto di propaganda politica”.

Chiara emanazione dell’articolo 21 della Costituzione che riconosce ad ogni individuo la libertà di manifestazione del proprio pensiero, l’articolo 1472 del codice dell’ordinamento militare rappresenta il punto di equilibrio tra la libera manifestazione del pensiero e il dovere di riservatezza/riserbo sulle questioni militari. Infatti, qualora la trattazione inerisca ad “argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio”, la relativa autorizzazione spetta all’Autorità militare [2] a seguito di un esame dell’argomento da trattare.

  • articolo 1483 COM – Esercizio delle libertà in ambito politico:“ Le Forze armate devono in ogni circostanza mantenersi al di fuori dalle competizioni politiche. 2. Ai militari che si trovino nelle condizioni di cui al comma 2 dell’articolo 1350, è fatto divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati a elezioni politiche e amministrative”.

Mi permetto di osservare preliminarmente che i militari, al pari di ogni altro pubblico dipendente, “sono al servizio esclusivo della Nazione” (articolo 98 della Costituzione) [3] affinché sia garantita l’imparzialità dell’azione amministrativa. Tale imparzialità, in considerazione della delicatezza della funzione svolta dalle Forze Armate, si estrinseca in ambito militare nel dovere di mantenersi al di fuori delle competizioni politiche per garantire la necessaria apoliticità di tutta l’organizzazione militare. Tale apoliticità, che si concretizza nella soggezione:

  • al Presidente della Repubblica [4], organo neutrale e super partes per eccellenza che la Costituzione pone al “comando delle Forze Armate” (articolo 87 della Costituzione);
  • al Ministro della difesa, in quanto “massimo organo gerarchico e disciplinare [5]”,

ribadisce implicitamente il monopolio statale nell’uso dello strumento militare, nel senso di cui all’articolo 18, comma 2, della Costituzione nella parte in cui proibisce appunto “le associazioni […] che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”.

Tirando le somme, rimane da chiedersi: il militare può dunque iscriversi a un partito politico? La risposta a tale quesito non è banale e ho quindi ritenuto opportuno dedicare uno specifico post all’argomento (clicca qui).

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[1]: Enti/Distaccamenti/Reparti/Comandi.

[2]: individuata al successivo articolo 1473 COM – Autorità competente al rilascio della autorizzazione: “1. L’autorizzazione di cui all’articolo 1472 deve essere richiesta per via gerarchica ed è rilasciata: a) per l’Esercito italiano, per la Marina militare, per l’Aeronautica militare dai rispettivi Stati maggiori; b) per l’Arma dei carabinieri, dal Comando generale; c) per il Corpo della Guardia di finanza, dal Comando generale; d) per i militari in servizio presso lo Stato maggiore della difesa e i dipendenti organismi interforze, dallo Stato maggiore della difesa; e) per i militari in servizio presso il Segretariato generale della difesa e i dipendenti enti e organismi, dal Segretariato generale della difesa; f) per i militari non dipendenti dai comandi o strutture di cui alle lettere a), b), c), d) ed e), dall’autorità più elevata in grado dalla quale essi dipendono.2. La richiesta di autorizzazione, da inoltrare con congruo anticipo, deve contenere l’indicazione dell’argomento da trattare e dei limiti nei quali la trattazione sarà contenuta. La risposta dell’autorità competente deve pervenire al richiedente in tempo utile”.

[3]: tale concetto è esplicitato dal COM all’articolo 1348 quale dovere di fedeltà del militare:“1. L’assoluta fedeltà alle istituzioni repubblicane è il fondamento dei doveri del militare. 2. Il comportamento dei militari nei confronti delle istituzioni democratiche deve essere improntato a principi di scrupolosa fedeltà alla Costituzione repubblicana e alle ragioni di sicurezza dello Stato”.

[4]: l’articolo 714 TUOM esplicita i doveri del militare relativamente alla posizione costituzionale del Presidente della Repubblica:“1. I militari hanno il dovere di osservare le prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale e ha il comando delle Forze armate secondo l’articolo 87 della Costituzione”.

[5]: articolo 10 COM – Attribuzioni del Ministro della Difesa:“1. Il Ministro della difesa, preposto all’amministrazione militare e civile della difesa e massimo organo gerarchico e disciplinare: a) attua le deliberazioni in materia di difesa e sicurezza adottate dal Governo, sottoposte all’esame del Consiglio supremo di difesa e approvate dal Parlamento; b) emana le direttive in merito alla politica militare, all’attività informativa e di sicurezza e all’attività tecnico-amministrativa; c) partecipa direttamente o tramite un suo delegato a tutti gli organismi internazionali ed europei competenti in materia di difesa e sicurezza militare o le cui deliberazioni comportino effetti sulla difesa nazionale; d) approva la pianificazione generale e operativa interforze con i conseguenti programmi tecnico-finanziari, nonché’ la pianificazione relativa all’area industriale, pubblica e privata, di interesse della Difesa. 2. Il Ministro della difesa, inoltre, propone al Presidente del Consiglio dei ministri, la relazione annuale da presentare al Parlamento, in ordine allo stato della disciplina militare e allo stato dell’organizzazione delle Forze armate, in relazione agli obiettivi di ristrutturazione, riferendo, in particolare: a) sul livello di operatività delle singole Forze armate; b) sul grado di integrazione del personale militare volontario femminile; c) sull’attività per il sostegno alla ricollocazione professionale dei volontari congedati, svolta dall’esistente struttura ministeriale; d) sul conseguimento degli obiettivi di reclutamento dei volontari necessari ad assicurare l’operatività delle Forze armate; e) sullo stato dei reclutamenti nelle carriere iniziali delle Forze di polizia a ordinamento civile e militare e del Corpo militare della Croce rossa. 3. Il Ministro della difesa, altresì, può sopprimere o riorganizzare, con proprio decreto, emanato su proposta del Capo di stato maggiore della difesa, enti e organismi nell’ambito del processo di ristrutturazione delle Forze armate, fermo restando il disposto dell’articolo 177”.

I DIRITTI (E LE LIBERTÀ) FONDAMENTALI DEL MILITARE (1^ PARTE): PRESUPPOSTI E LIMITI.

  1.  La limitazione di taluni diritti costituzionali: presupposti.

L’articolo 52, comma 3, della Costituzione stabilisce che “l’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”. Da ciò emerge:

  • da un lato, che l’ordinamento giuridico militare, pur avendo principi e valori propri, è parte integrante dell’ordinamento giuridico generale della Repubblica da cui deriva e che, proprio perché generale, finisce inevitabilmente per influenzare quello militare;
  • dall’altro, seppur indirettamente, che taluni diritti riconosciuti dalla legge e dalla Costituzione possano essere limitati o “compressi” quando si riferiscano al militare, in considerazione della primaria esigenza di poter utilmente assicurare la difesa e la sicurezza dello Stato e della collettività. Naturalmente, tale limitazione dei diritti sarà legittima solo quando assolutamente indispensabile al corretto svolgimento dei compiti assegnati allo strumento militare, da valutarsi nella pratica, cioè caso per caso, tenendo sempre ben presente il fine ultimo perseguito dalle Forze Armate: la difesa della Patria. Inoltre, l’utilizzo del termine “informarsi” (sto facendo cioè riferimento al “si informa” presente nel citato articolo 53 della Costituzione, citato proprio all’inizio del post) evidenzia che questa è solo una tendenza di fondo del sistema. Così facendo, la Costituzione da copertura all’articolo 1465 del codice dell’ordinamento militare (COM) che, nel sottolineare come “ai militari spettano i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai cittadini”, precisa comunque che “per garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate sono imposte ai militari limitazioni nell’esercizio di alcuni di tali diritti, nonché l’osservanza di particolari doveri nell’ambito dei principi costituzionali[1].

La Costituzione, quindi, ammette e legittima la possibile esistenza di limiti all’esercizio di alcuni diritti da parte del militare, astenendosi però dal definire nel dettaglio gli esatti confini della questione; lascia cioè ad altri (cioè in primo luogo al legislatore, cioè al Parlamento) il compito e la responsabilità – sia giuridica sia, soprattutto, politica – di entrare concretamente nel merito del problema. Ciò che ne è derivato, purtroppo, è una situazione che ha ingenerato molta (forse troppa) confusione e che, quindi, non può che trovare soluzione nel giusto “peso” e nel corretto significato da dare alle norme, cioè nel corretto “bilanciamento” e nella corretta interpretazione delle singole disposizioni (“bilanciamento” e interpretazione fatta dalla dottrina, dalla giurisprudenza e anche – soprattutto direi – dall’Amministrazione militare).

A seguito della sospensione del servizio militare di leva, alcuni hanno cercato di ricostruire il rapporto tra l’Amministrazione della difesa e singolo militare in termini simili a quelli su cui si basa un ordinario rapporto di lavoro “civile”, ma tali ricostruzioni, molto contrastate da chi non vuole considerare la vita in armi come una mera prestazione lavorativa “civile”, hanno però avuto il pregio di evidenziare che il militare professionista, diversamente da quanto accadeva con il militare di leva, acquista volontariamente lo status militare e, per tanto, ne fa consapevolmente propri i valori, accettandone di conseguenza anche i limiti (e i doveri) che questo comporta.

  1. Il punto di equilibrio tra possesso dello status militare e modalità di esercizio dei diritti.

L’articolo 1465 del codice dell’ordinamento militare rappresenta il punto di equilibrio tra i diritti riconosciuti dalla Costituzione e i valori propri dell’ordinamento giuridico militare. Rileggetelo pure (è riportato poco sopra nel punto 1.). Come appare evidente, l’approccio dato dal legislatore alla questione è quello di tenere il mondo militare ben distinto dal resto della società. Tale circostanza appare ancor più evidente se si considera che i diritti del militare che sono esplicitamente regolati dalla legge sono essenzialmente quelli che richiedono una qualsivoglia relazione/interazione con altri soggetti [2], consentendone di norma un esercizio limitato perché deve svolgersi su un piano prettamente singolo/individuale [3].

Resta da chiedersi in che misura il militare possa esercitare diritti non disciplinati o regolamentati dalla normativa speciale (militare). In altre parole, cosa succede per i diritti che non sono regolati dalla legge? L’approccio preferibile da seguire è senza dubbio quello che non preveda l’automatica soccombenza di ogni diritto rispetto ai valori militari: il militare, infatti, è e rimane un cittadino e, conseguentemente, ogni diritto riconosciuto al cittadino deve trovare riconoscimento anche per il cittadino-militare. Non dimentichiamo poi che l’articolo 1465 del codice dell’ordinamento militare (e la stessa Corte costituzionale come vedremo tra poco) parla di “limitazioni nell’esercizio di alcuni di tali diritti” e non di negazione (salvo in casi eccezionali nel vero senso della parola!) … beh, tra limitare un diritto e negarlo del tutto la differenza è più che evidente! Naturalmente, per fare in modo che l’esercizio di un diritto non esplicitamente regolamentato dalla legge risulti legittimo, il militare deve necessariamente effettuare – caso per caso – una valutazione di compatibilità delle modalità di esercizio del diritto (cioè il “come” esercitarlo) con l’ordinamento giuridico militare. In altre parole, bisogna cioè scongiurare il rischio che esercitando un diritto si violino i doveri nascenti dal possesso dello status militare [4]. Chiarificatrice è al riguardo l’approccio dato alla questione dalla Corte Costituzionale. Questa, infatti, investita della questione negli anni ’80 del secolo scorso, ha avuto modo di evidenziare che la normativa militare [5]rispecchia l’esigenza, la quale promana dalla Costituzione, che la democraticità dell’ordinamento delle Forze Armate sia attuata nella massima misura compatibile col perseguimento da parte di queste dei propri fini istituzionali [6]”. In tal senso, la Corte afferma infatti che “spettano ai militari i diritti dei cittadini e prevedendo” ma, al contempo, che “possono essere imposte ai militari limitazioni nell’esercizio di tali diritti e l’osservanza di particolari doveri al (solo) fine di garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate”.

Alla luce delle considerazioni che precedono, è possibile dunque riassuntivamente affermare che ogni limitazione (badiamo bene, stiamo sempre parlando di limitazione e non di totale esclusione/negazione!) posta al militare nell’esercizio di un diritto, deve necessariamente trovare ragione nelle esigenze funzionali ed organizzative dello strumento militare, nei termini che si avrà modo di delineare – quantomeno per i diritti fondamentali – in appositi post dedicati:

  • ai singoli diritti (libertà di circolazione e sede di servizio, libertà di riunione, libertà di culto, libertà di manifestazione del pensiero, libertà in ambito politico – clicca qui);
  • al solo diritto di associazione, con particolare riguardo al diritto di costituire associazioni a carattere sindacale, in considerazione delle recenti modifiche introdotte dalla sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2018 (clicca qui).

TCGC

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[1]: espressione presa dall’articolo 3 della legge n. 382 del 1978 “Norme di principio sulla disciplina militare”, che è confluito poi nell’art.1465 codice dell’ordinamento militare.

[2]: come, ad esempio, per quanto attiene al diritto di aderire a partiti politici o ad organizzazioni sindacali, nonché la pubblica manifestazione del pensiero che, sebbene lecita a livello individuale, quando svolta a livello collettivo può addirittura integrare il reato di “domanda, esposto o reclamo collettivo, previo accordo” di cui all’articolo 180 del codice penale militare di pace (c.p.m.p.).

[3]: ricordiamoci bene che, ai sensi dell’articolo 1466 del codice dell’ordinamento militare, quando le modalità di fruizione dei diritti non superano i limiti apposti dalla normativa speciale militare è esclusa l’applicabilità di alcuna sanzione disciplinare: “L’esercizio di un diritto ai sensi del presente codice e del regolamento esclude l’applicabilità di sanzioni disciplinari”.

[4]: può aiutarci a capire bene tale “bilanciamento” il fatto che, generalmente, al contrario dei diritti, i doveri del militare sono sempre espressamente disciplinati dalla legge o dai regolamenti militari.

[5]: in particolare l’articolo 3 della legge n. 382 del 1978 “Norme di principio sulla disciplina militare”, confluito poi nell’art.1465 codice dell’ordinamento militare.

[6]: Corte costituzionale, sentenza n. 126 del 29 aprile 1985 (Pres. ELIA – Rel. CORASANITI).